Ex Parte Creditoris

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Rivista di informazione giuridica per avvocati e studi legali: expartecreditoris.it
Aggiornato: 2 ore 17 min fa

DERIVATI: la violazione del dovere di informazione del cliente non può mai comportare la nullità del contratto

Lun, 26/05/2014 - 10:59
In tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario non può, in ogni caso, determinare, a norma dell’art.1418 cc, la nullità del cosiddetto contratto quadro o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Corte di Appello di Milano con sentenza n.1848 pronunziata in data 20/05/2014 in tema di strumenti finanziari derivati. Nel caso di specie, una società aveva proposto appello avverso il lodo reso dal Collegio Arbitrale e favorevole all’istituto di credito, chiedendo che venisse dichiarata la nullità del contratto normativo per la prestazione di servizi di investimento nonché del contratto di interest rate swap stipulato con la Banca resistente. Ad avviso della ricorrente, erroneamente il Collegio Arbitrale aveva riconosciuto ad essa lo status di operatore qualificato, sulla scorta della sua appartenenza (in realtà solo formale) alla categoria degli intermediari finanziari di cui all’elenco previsto dall’art.106 del Testo Unico Bancario, dando vita ad un’applicazione delle norme in materia di prestazione dei servizi di investimento assolutamente contraria a quelle norme imperative che sono il cardine della disciplina di settore dettata dal D.Lgs 58/98 TUF. Tale circostanza avrebbe comportato la radicale nullità della decisione impugnata. Ebbene, la Corte di Appello, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha preliminarmente rilevato che il fatto che le norme asseritamente violate dagli Arbitri siano “norme imperative” non comporta, di per sé, che il lodo impugnato sia contrario all’ordine pubblico. Ed infatti, secondo costante giurisprudenza, le norme imperative, benchè inderogabili, perché poste a tutela di interessi generali, non comportano sempre, ove siano violate, la nullità del contratto ex art.1418 cc. Nel merito della questione, la Corte territoriale ha poi evidenziato – richiamando una famosa pronuncia delle SS.UU.(Cass.Civ., SS.UU., sent. del 19.12.2007, n.26724) – come, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico degli intermediari finanziari può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove tali violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto quadro, o a responsabilità contrattuale, ed eventualmente alla risoluzione del contratto, qualora si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento compiute in esecuzione del contratto quadro, ma, in ogni caso, deve escludersi che la violazione di tali doveri possa determinare la nullità del contratto. In estrema sintesi: il cliente che denunci la violazione dei doveri di informazione potrà far valere solo la responsabilità precontrattuale della Banca, ovvero ottenere la risoluzione del contratto, ma giammai conseguire la radicale nullità del negozio stesso. Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Appello di Milano, ritenute inammissibili le censure del lodo per gli asseriti errores in iudicando denunciati dalla società ricorrente, ha rigettato l’impugnazione, condannando vieppiù quest’ultima alla integrale rifusione delle spese processuali....

USURA BANCARIA: la Banca non può operare difformemente dalle istruzioni dell’Organo di vigilanza

Ven, 23/05/2014 - 15:06
 Si ringrazia per la segnalazione del provvedimento l’Avv Giorgio Orioli del Foro di Ferrara  In materia di usura bancaria, laddove, le istruzioni della Banca d’Italia applicabili ratione temporis, non prevedessero il computo della CMS nel TEGM, calcolare il TEG secondo un criterio diverso – con inclusione delle CMS – renderebbe quest’ultimo valore non correttamente confrontabile al tasso soglia. Non può pretendersi che la Banca operi in modi difformi dalle istruzioni dell’Organo di Vigilanza. Il cliente non può dolersi dell’applicazione delle CMS pattuite per iscritto sotto la vigenza della legge 22 dicembre 2011 n.214. È quanto stabilito dal Tribunale di Ferrara, nella persona del Dott. Alessandro Rizzieri, con la sentenza n.592 del 21 maggio 2014. Nel caso di specie, il Tribunale è stato chiamato a decidere sull’eccezione proposta da una debitrice nella sua comparsa di costituzione, con la quale la stessa sosteneva la “nullità degli addebiti di conto” nei confronti di un istituto di credito, affermando che la capitalizzazione degli interessi calcolati dalla banca fosse illegittima. Ebbene, il Giudice dopo aver accertato che la capitalizzazione trimestrale degli interessi era stata pattuita tra le parti come anche le commissioni di massimo scoperto, ha sottolineato quanto affermato dal c.t.u, e cioè che calcolare il TEG secondo un criterio diverso rispetto alle vigenti istruzioni della Banca d’Italia, con conseguente inclusione delle CMS, renderebbe quest’ultimo valore non correttamente confrontabile al tasso soglia, in quanto risulterebbero differenti, e quindi non omogenee, le modalità di conteggio utilizzate, con conseguenti effetti distorsivi sui risultati ottenuti.  Il Giudice, evidenziando come non ci si potesse aspettare che la Banca operasse in maniera difforme rispetto alle istruzioni dell’Organo di Vigilanza della Banca d’Italia, ha ritenuto infondate le doglianze della creditrice, condannando la stessa al pagamento, nei confronti dell’Istituto di credito, di quanto dovuto sulla base dei rapporti bancari nonchè al pagamento delle spese di giudizio....

PRESCRIZIONI PRESUNTIVE: inopponibili solo per crediti riconosciuti in giudizio

Ven, 23/05/2014 - 11:01
Se è vero che, in tema di prescrizioni presuntive l'ammissione di non avere estinto il debito, da parte del debitore, può legittimamente risultare anche per implicito dalla contestazione dell'entità della somma, l'ammissione, per essere giuridicamente rilevante e determinare, ai sensi dell'art. 2959 cod. civ. il rigetto dell'eccezione, deve essere resa in giudizio, assumendo altrimenti valore soltanto di atto interruttivo della prescrizione, ex art. 2944 cod. civ. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione Civile, nell'ordinanza n. 9930 dell'8 maggio 2014 (presidente Dott. M. Finocchiaro, relatore Dott.ssa A. Amendola), con la quale ha rigettato il ricorso presentato da un creditore avverso la decisione della Corte d’Appello di Caltanissetta di revocare un decreto ingiuntivo relativo al pagamento di compensi per prestazioni professionali, ritenuti prescritti. Nel caso di specie, l'opponente, da un lato lamentava il fatto che la Corte Territoriale non avesse ritenuto rinunciata la prescrizione, pur avendo attribuito valore all’implicita ammissione dell'esistenza del credito da parte dell’amministratore della società creditrice; dall'altro sosteneva l'impossibilità che fosse intervenuta la prescrizione relativamente al suo credito, in quanto esso traeva origine da un contratto stipulato in forma scritta. In risposta alle doglianze del ricorrente la Cassazione ha evidenziato che, dal punto di vista logico e giuridico , l'affermazione di non conoscere l'esistenza di un credito rappresenta l'esatto contrario del suo riconoscimento; ha altresì puntualizzato che, quand'anche le prescrizioni trovino la loro ragion d'essere in relazione ai rapporti che si svolgono senza formalità e nei quali il pagamento suole avvenire senza dilazione, della loro esistenza può legittimamente avvalersi anche il soggetto obbligato a tenere le scritture contabili.  Nell'ordinanza in esame, la Suprema Corte ha riconosciuto che l'ammissione del debitore di non aver estinto il debito possa risultare anche implicitamente dalle contestazioni che il debitore stesso faccia relativamente all'esistenza o all'entità della somma richiesta: ma in base all'art. 2959 c.c., detta ammissione è giuridicamente rilevante - al punto da determinare il rigetto dell'eccezione di prescrizione presuntiva - solo se è resa entro il giudizio in cui è azionato il credito che si assume prescritto; in caso contrario essa non fa venir meno la proponibilità dell'opposizione, tutt'al più determinando l'interruzione della prescrizione. Alla luce di tali considerazioni la Corte ha rigettato il ricorso condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio....

FALLIMENTO: può essere dichiarato entro un anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese

Gio, 22/05/2014 - 15:14
Ai sensi dell’art. 10 L. Fall., ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento di un'impresa svolta in forma societaria, occorre fare riferimento alla data della sua effettiva cancellazione dal registro delle imprese, a nulla rilevando nei confronti dei terzi il diverso momento in cui la relativa domanda sia stata presentata presso il registro delle imprese. Questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione prima, con la sentenza n. 10105 pronunziata in data 09/05/ 2014 in materia di fallimento. Nel caso di specie, una società proponeva gravame avverso la pronunzia della Corte di Appello che aveva rigettato il reclamo avverso la sentenza con la quale il Tribunale, in data 15 novembre 2011, aveva dichiarato il fallimento della detta società sebbene la stessa fosse stata cancellata dal registro delle imprese il 19 novembre 2010 e dunque oltre l’anno. In particolare, la società deduceva la violazione della L. Fall., art. 10, e art. 2495 c.c., atteso che la Corte aveva ancorato la decorrenza del termine all'effettiva iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società, contro il principio generale, espresso in tema di notificazioni, secondo cui i tempi tecnici degli uffici pubblici non possono gravare sulla parte che presenta l'istanza. Ebbene, la Suprema Corte, ha rigettato il ricorso sul presupposto ormai chiarito dalle Sezioni Unite, secondo il quale ove il fallimento venga dichiarato entro un anno dalla cancellazione, la società (in persona del legale rappresentante) continua ad essere destinataria della sentenza dichiarativa e delle successive vicende impugnatorie: è una fictio iuris che postula la società esistente, ma ai soli fini del fallimento, nel quale dunque il contradditorio si instaura con l'ultimo rappresentante legale, ossia l'amministratore o il liquidatore. I giudici di legittimità hanno poi precisato che, con riguardo al “dies a quo” del termine annuale entro il quale può essere dichiarato, ai sensi dell’art. 10 legge fall., il fallimento della società estinta, il testo originario della predetta norma prevedeva che l'imprenditore, seppure avesse "cessato l'esercizio dell'impresa", potesse essere dichiarato fallito entro un anno (sempre che l'insolvenza si fosse manifestata anteriormente o nell'anno successivo), con espressione tuttavia non univoca, potendo riferirsi sia alla cancellazione della società e sia alla mera disgregazione dell'azienda come iniziativa imprenditoriale. L'orientamento dominante in giurisprudenza reputava non cessata l'impresa collettiva sino a quando esistessero rapporti pendenti, con conseguente ammissibilità della liquidazione concorsuale; la sentenza della Corte costituzionale del 21 luglio 2000, n. 319 dichiarò la norma incostituzionale, nella parte in cui non prevedeva che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell'impresa collettiva decorresse, per le società, dalla cancellazione dal registro delle imprese. Di conseguenza, il nuovo testo della L. Fall., art. 10, risultante dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 9, con l'espressione "cancellazione" ha recepito il portato del giudice delle leggi divenendo l'iscrizione della cancellazione il dies a quo del termine annuale per la fallibilità delle società cancellate. Nessun elemento autorizza ad interpretare la disposizione con riferimento alla diversa data di presentazione della domanda di iscrizione. Il registro delle imprese, per la sua funzione pubblicitaria, dichiarativa o costitutiva degli effetti, impone l'iscrizione dell'evento; e la legge prevede il prodursi degli effetti proprio dal momento in cui l'iscrizione è avvenuta, a tutela dei terzi. Né precisano gli ermellini può essere effettuata alcuna analogia con gli effetti della notificazione di un atto del processo ove vige il principio della scissione  del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, con Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte, ritenuto che la sentenza impugnata non si prestasse ad alcuna delle censure formulate dalla società fallita, ha respinto il ricorso, precisando viepiù come il termine annuale individuato dall’art.10 della Legge Fallimentare rappresenta il punto di mediazione nella tutela dei contrapposti interessi quali, da un lato quelli dei creditori e dall’altro quello generale alla certezza dei rapporti giuridici. Sul punto si evidenziano altra pronuncia della Corte di Cassazione, già oggetto di pubblicazione sulla rivista, che con sentenza n. 8932 del 12/04/2013 afferma, categoricamente: “niente dichiarazioni di fallimento oltre i 365 giorni dalla cancellazione al registro delle imprese”...

“ABROGADOS”: SI ATTENDENDE IL VERDETTO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA.

Gio, 22/05/2014 - 14:41
 “Il solo fatto che un cittadino scelga di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non è sufficiente, di per sé, a costituire un abuso del diritto “ È quanto sostiene l’avvocato Nils Wahl nelle proprie conclusioni, presentate in data 10 aprile 2014, alla Corte europea di Giustizia per le cause riunite C-58/13 e C-59/13. La questione affrontata e, attualmente al vaglio della Suprema Corte di Giustizia Europea, riguarda il caso dei c.d. “abrogados”, ossia coloro che ottengono il titolo per l’abilitazione professionale in Spagna e, poi decidono di stabilirsi in uno dei paesi dell’Unione europea per esercitare la professione legale. Nel caso di specie, due cittadini italiani, dopo aver acquisito il diritto di usare il titolo professionale di «abogado» in Spagna, presentavano al competente Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata, una domanda di iscrizione nella sezione speciale dell’albo degli avvocati, ossia quella riservata agli avvocati che hanno ottenuto la qualifica all’estero [«avvocati stabiliti»], per poter esercitare con tale titolo la professione in Italia.  Ebbene, la difesa dei ricorrenti faceva presente come tali domande fossero basate sulle leggi italiane di trasposizione della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Tuttavia, poiché il Consiglio locale dell’ordine degli avvocati non si era pronunciato su di esse entro il termine previsto di trenta giorni, i ricorrenti presentavano ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense; che decideva di deferire alla Corte Europea di Giustizia, in base al procedimento di rinvio pregiudiziale, le questioni riguardanti l’interpretazione e la validità della direttiva 98/5, alla luce dei principi che vietano l’«abuso del diritto» e impongono il «rispetto dell’identità nazionale». Due, in particolare, i quesiti proposti:  il primo, “se l’art. 3 della [direttiva 98/5], alla luce del principio generale del divieto di abuso del diritto e dell’art. 4, paragrafo 2, TUE relativo al rispetto delle identità nazionali, debba essere interpretato nel senso di obbligare le autorità amministrative nazionali ad iscrivere nell’elenco degli avvocati stabiliti cittadini italiani che abbiano realizzato contegni abusivi del diritto dell’Unione, ed osti ad una prassi nazionale che consenta a tali autorità di respingere le domande di iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti qualora sussistano circostanze oggettive tali da ritenere realizzata la fattispecie dell’abuso del diritto dell’Unione, fermi restando, da un lato, il rispetto del principio di proporzionalità e non discriminazione e, dall’altro, il diritto dell’interessato di agire in giudizio per far valere eventuali violazioni del diritto di stabilimento, e dunque la verifica giurisdizionale dell’attività dell’amministrazione”;  il secondo, invece, “se in caso di risposta [affermativa alla prima questione], l’art. 3 della direttiva 98/5, così interpretato, debba ritenersi invalido alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, TUE nella misura in cui consente l’elusione della disciplina di uno Stato membro che subordina l’accesso alla professione forense al superamento di un esame di Stato laddove la previsione di siffatto esame è disposta dalla Costituzione di detto Stato e fa parte dei principi fondamentali a tutela degli utenti delle attività professionali e della corretta amministrazione della giustizia”. IL PUNTO DI VISTA DELL’AVVOCATO WAHL Perché possa configurarsi ipotesi di abuso del diritto – dichiara quest’ultimo - occorrono due condizioni, in primo luogo, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito dalla stessa non sia stato raggiunto. In secondo luogo, poi, un elemento soggettivo che consista nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. In via di principio, spetta [comunque] al giudice nazionale accertare l’esistenza dei suddetti due elementi, la cui prova deve essere prodotta conformemente alla normativa nazionale, a condizione che l’efficacia del diritto dell’Unione non ne risulti compromessa. In particolare, i giudici nazionali non possono, nel valutare l’esercizio di un diritto derivante da una disposizione dell’Unione, modificare il contenuto di detta disposizione né compromettere gli obiettivi da essa perseguiti. Orbene, quanto al caso in esame, - afferma il Wahl - risulta “abbastanza evidente che una prassi come quella nazionale in questione rischia di pregiudicare, nello Stato membro in cui è adottata, il corretto funzionamento del sistema creato dalla direttiva 98/5, e quindi di compromettere gli obiettivi perseguiti da tale strumento giuridico. L’articolo 1 della direttiva 98/5 stabilisce, infatti, che lo scopo di tale direttiva è proprio quello di «facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato (...) in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale”. Ciò, in altre parole, è espressione di quanto il legislatore dell’Unione ha voluto consentire, e cioè riconoscere “il diritto dei cittadini di uno Stato membro di scegliere lo Stato membro nel quale desiderano acquisire il loro titolo professionale è inerente all’esercizio, in un mercato unico, delle libertà fondamentali garantite dai trattati dell’Unione”.  A tal riguardo, - sostiene l’avvocato – “non può essere attribuita alcuna importanza al fatto che l’avvocato sia un cittadino dello Stato membro ospitante, o al fatto che egli possa aver scelto di ottenere il titolo professionale al fine di approfittare di una normativa più favorevole o, infine, al fatto che egli presenti la domanda di iscrizione all’albo poco dopo aver ottenuto il titolo professionale all’estero”. Ma non è tutto. “L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 98/5 definisce «avvocato» «ogni persona, avente la cittadinanza di uno Stato membro, che sia abilitata ad esercitare le proprie attività professionali facendo uso di uno dei (...) titoli professionali [elencati nella stessa disposizione]». Analogamente, l’articolo 2 della direttiva 98/5 dispone che «[gl]i avvocati hanno il diritto di esercitare stabilmente le attività di avvocato precisate all’articolo 5 [della stessa direttiva] in tutti gli altri Stati membri con il proprio titolo professionale di origine». Non appare, dunque, alcuna indicazione, circa il fatto che “il legislatore dell’Unione abbia voluto consentire agli Stati membri di attuare discriminazioni alla rovescia escludendo i propri cittadini dai diritti creati dalla direttiva 98/5. Inoltre, ciò sembrerebbe poco compatibile con l’obiettivo di creare un mercato interno” e con quanto più volte affermato dalla stessa Corte europea, ossia che “un cittadino dell’Unione non può essere privato della possibilità di avvalersi delle libertà garantite dai trattati dell’Unione solo perché ha inteso approfittare di una normativa favorevole in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede”. Ne consegue, pertanto,  “che il solo fatto che un cittadino scelga di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non sia sufficiente, di per sé, a costituire un abuso del diritto “. Si consideri, inoltre, che “il legislatore dell’Unione – come già chiarito dalla Corte europea –con l’articolo 3 della direttiva 98/5, ha voluto realizzare la completa armonizzazione dei requisiti preliminari richiesti ai fini dell’esercizio del diritto conferito. Pertanto, la presentazione all’autorità competente dello Stato membro ospitante di un certificato di iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro di origine è l’unico requisito cui può essere subordinata l’iscrizione dell’interessato nello Stato membro ospitante, che gli consente di esercitare la sua attività in quest’ultimo Stato membro con il suo titolo professionale di origine” La riprova di quanto affermato sta peraltro nel fatto che la direttiva 98/5 non prevede che l’iscrizione di un avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante possa essere subordinata ad ulteriori condizioni, come ad esempio un colloquio inteso ad accertare la padronanza della lingua. E, per la stessa ragione, non può dirsi che la direttiva citata (98/5) non consenta che si possa subordinare tale iscrizione allo svolgimento di un determinato periodo di pratica o di attività come avvocato nello Stato membro di origine.  Ciò detto e atteso che qualora le autorità dello Stato membro ospitante accertino che, in un caso specifico, si verificano le due condizioni sopra enunciate e, fermo restando, in questo caso, la possibilità di respingere una domanda in ragione di un abuso del diritto; non resta che attendere la pronuncia della Suprema Corte di giustizia europea. ...

OBBLIGAZIONI LEHMAN: l’intermediario non è responsabile dell’improvviso declassamento dei titoli

Gio, 22/05/2014 - 08:07
In tema di intermediazione finanziaria, nessuna violazione può addebitarsi all'intermediario con riferimento al comportamento successivo all'acquisto degli strumenti finanziari qualora il declassamento dei titoli, intervenuto successivamente alla compravendita degli stessi, sia avvenuto in modo del tutto imprevisto ed imprevedibile. E’ questo il principio di diritto che emerge dalla sentenza pronunziata dal Tribunale di Roma, in persona del dott. Francesco Remo Scerrato, in data 25/11/2013. Nel caso di specie, un investitore aveva promosso un giudizio nei confronti di una Banca al fine di ottenere l’annullamento dell’ordine di acquisto di obbligazioni LEHMAN BROTHERS HOLDING dallo stesso sottoscritto presso l’istituto di credito convenuto, attesa l’inadeguatezza ed inappropriatezza dell’investimento consigliato nonchè la mancata informativa e l’omessa segnalazione del conflitto di interessi. Costituitasi la Banca, aveva eccepito integralmente le ragioni della domanda attorea evidenziando l’assoluta imprevedibilità del default LEHMAN BROTHERS. Ebbene, il Tribunale di Roma, chiamato a pronunziarsi sul caso de quo, ha preliminarmente rigettato la domanda attorea di annullamento dell’ordine di acquisto delle obbligazioni sul presupposto che i singoli ordini esecutivi del contratto, costituendo solo il momento esecutivo del contratto quadro, non possono essere considerati come atti dotati di una propria autonomia e, dunque, non sono suscettibili di declaratoria di nullità, di annullamento o di risoluzione. Con riguardo invece alla prevedibilità del default Lehman Brothers, il Giudice ha ritenuto che la Banca non avesse omesso di fornire informazioni in quanto all’epoca dell’acquisto dei titoli non sussistevano circostanze obiettivamente ed univocamente attestanti un’elevata probabilità di fallimento delle Lehman Brothers tali da poter influenzare in modo rilevante il grado di rischio. In particolare, il Tribunale ha evidenziato come, all’epoca dell’investimento, non risultava che il fallimento della LEHMAN BROTHERS fosse realisticamente prevedibile atteso che, sino alla apertura della procedura concorsuale, le principali società di rating avevano continuato a classificare la LEHMAN BROTHERS come molto affidabile, assegnando alla citata banca una categoria A, caratterizzata da uno scarso rischio e da un’alta affidabilità di pagamento delle cedole.  Il Giudice, poi, ha rilevato che alcuna censura potesse essere mossa nei confronti del comportamento della Banca atteso che, se in ipotesi il contratto quadro dovesse prevedere solo l'intermediazione nell'acquisto o vendita dei prodotti finanziari a seguito di singoli ordini e la semplice custodia dei titoli acquistati, è evidente che i più volte richiamati obblighi di condotta, ivi compreso l'obbligo di informazione attiva e passiva, non potranno riguardare il controllo e la supervisione da parte dell'intermediario dell'andamento dell'investimento per tutta la durata dello stesso, talora anche pluriennale, così che il cliente abbia diritto di ricevere -e l'intermediario obbligo di fornire- tempestiva informazione sul mutamento delle condizioni di mercato o dell'emittente e quindi sulla convenienza o meno di mantenere in portafoglio quei determinati titoli. Alla luce di tale considerazione, ciascun cliente ha il diritto di essere informato da parte dell’intermediario finanziario ma anche il dovere di informarsi e, in tal senso, si segnala la sentenza n.5171 pronunziata dal Tribunale Milano dott.ssa Silvia Brat, in data 15-04-2013 in tema di obbligazioni-bond. In conclusione, dunque, il Giudice, ritenuto che l’acquisto di tali obbligazioni fosse avvenuto in epoca non sospetta e che le circostanze non fossero tali da poter consentire alla Banca di presagire l’imminente default della LEHMAN BROTHERS, ha rigettato la domanda dell’attore. Sul punto, si segnalano altresì le seguenti pronunce già oggetto di approfondimento sul sito della rivista: 1.OBBLIGAZIONI LEHMAN: LA BANCA NON HA OBBLIGO DI ASSISTENZA SE IL CLIENTE HA LA CONOSCENZA MEDIA Sentenza Tribunale di Milano, sesta sezione civile, dott. Antonio S. Stefani 15-03-2014 2.LEHMAN BROTHERS: NON ERA PREVEDIBILE IL FALLIMENTO NEL 2008 Sentenza Tribunale di Pordenone - Dott.ssa Martina Gasparini 08-11-2013 n.898 3.OBBLIGAZIONI LEHMAN BROTHERS: L' INVESTIMENTO ERA AFFIDABILE FINO AL 15/09/2008! Sentenza Tribunale di Roma, terza sezione civile – GU dr.ssa Clelia Buonocore - 12-06-2013 n.12766...

La continuità degli obblighi di informazione dell'intermediario finanziario

Mer, 21/05/2014 - 15:36
In merito agli obblighi di informazione che devono essere adempiuti prima della sottoscrizione dell’investimento è emerso l'interrogativo sulla circostanza che esso debba essere prestato non solo nel momento antecedente alla prestazione di servizi di investimento ma anche nel corso del rapporto. Il novellato articolo 21 del T.U.F. al comma 1 lett. B recita, infatti, che i soggetti abilitati devono "acquisire, le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati". Il passaggio della norma sembra, quindi, avallare l’ipotesi di un obbligo informativo di tipo continuativo, prestato anche dopo la sottoscrizione del prodotto finanziario. Una risalente decisone di merito ha avallato tale conclusione, precisando che “la banca era tenuta ad informare il cliente sull’andamento del titolo anche successivamente al suo acquisto. Non soltanto in base al principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) ma anche in base a specifiche disposizioni normative. L’art. 21, lett. b, del T.U.I.F. (che costituisce norma primaria rispetto al Regolamento Consob), nell’imporre agli intermediari di “operare in modo che [i clienti] siano sempre adeguatamente informati”, al fine di consentire ad essi di effettuare “consapevoli scelte di investimento o disinvestimento” (art. 28, co. 2, del Reg. Consob), si riferisce ai servizi di investimento indicati all’art. 1, co. 5, del T.U.I.F. senza alcuna distinzione tra le varie tipologie di servizi (tra cui rientrano anche le negoziazioni di strumenti finanziari per conto proprio e di terzi)”. L’obbligo di una informazione di tipo continuativo sembra, quindi, fondato secondo la giurisprudenza non solo sulle norme primarie e regolamentari di settore ma anche sugli artt. 1175 e 1375 del Codice Civile che impone l’ossequio di regole di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto. Tale orientamento giurisprudenziale si è arricchito di ulteriori interventi i quali, muovendo sempre dagli stessi presupposti normativi, hanno però evidenziato ulteriori importanti aspetti.  E’ stato infatti chiarito che “l’art.21 lett. b del citato D.lgs. 58/98 pone a carico dell’intermediario finanziario l’obbligo di operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati, obbligo che, come evidenzia il “sempre”, non si esaurisce nella fase iniziale dell’investimento (ossia nel momento dell’acquisto dei titoli) ma persiste durante tutto il rapporto di deposito e custodia titoli: afferma giustamente la Suprema Corte a S.U. nella citata sentenza 26725 del 2007 che “ anche l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, perman(e) attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto e si rinnova ogni qual volta la natura  o l’entità della singola operazione lo richieda, per l’ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo”. Il Tribunale pisano radica l’obbligo continuativo di informazione non solo sull’impianto normativo del T.U.F. ma sulla concreta situazione dell’investitore che, come concretamente evidenziato, è in continua evoluzione e che per essere seguita professionalmente richiede un monitoraggio da parte dall’intermediario professionale. In tale ottica assume un determinante rilievo non solo l’aspetto relativo all'acquisto di uno strumento finanziario, ma anche il momento del suo disinvestimento, in quanto anche tale ultima scelta se assunta tempestivamente può porre l’investitore al riparo da perdite.  In senso conforme si è espressa altra decisione di merito, la quale ha sottolineato come l’investitore non deve essere posto solo nella posizione di assumere consapevoli scelte di investimento, ma anche di disinvestimento, con ciò precisando una dinamicità dell’obbligo di informazione a carico dell’intermediario non solo nella fase di acquisto ma anche in quella di possibile dismissione del titolo.  Sia nel momento di acquisto, quindi, che in quello di vendita dello strumento finanziario l’informazione mantiene la propria determinante caratteristica di elemento capace di generare scelte consapevoli ed opportune da parte dell'investitore. In sostanza la giurisprudenza avvalora l'esistenza di un obbligo di informazione continuo, ma anzi attraverso l'analisi sin qui descritta, evidenzia l'utilità anche nel momento successivo alla sottoscrizione del titolo di una adeguata informazione per l'investitore. Avverso tale ricostruzione, tuttavia, non sono mancate decisioni in giurisprudenza che hanno escluso tale obbligo di informazione continua. Tale ipotesi è stata confermata anche dalla dottrina, secondo la quale l'obbligo di informazione costante nei confronti del cliente sussisterebbe solo nelle ipotesi di gestione di portafogli o erogazione di servizio di consulenza. In tale senso si è espresso recentemente anche il Tribunale di Torino, il quale ha evidenziato che “quando non sia stato concluso fra intermediario e investitore un contratto di consulenza o di gestione patrimoniale, gli obblighi informativi sulla natura e le caratteristiche dei titoli sussistono soltanto fino al momento dell’investimento. Dunque, l’intermediario non è tenuto a informare l’investitore della perdita di valore o dell’aumento di rischiosità dei titoli verificatisi in data successiva all’acquisto. L’art. 28 Reg. 11522/98 – nella parte in cui finalizza le informazioni alle scelte di investimento “o disinvestimento” – non può indurre una diversa conclusione, poiché deve essere correttamente interpretato nel senso che l’intermediario è tenuto a fornire le informazioni sull’andamento degli strumenti finanziari qualora l’investitore gli abbia manifestato l’intenzione (autonomamente maturata) di disinvestire (c.d. consulenza incidentale). In caso contrario, l’intermediario, sarebbe infatti tenuto (al di fuori di ogni rapporto di consulenza o gestione patrimoniale) a monitorare costantemente l’andamento dei singoli investimenti di tutti i suoi clienti e a comunicare loro ogni “modifica rilevante” delle informazioni a suo tempo fornite su ogni singolo strumento finanziario negoziato. Inoltre lo stesso concetto di “modifica rilevante”, ove non ancorato a parametri specifici (per es. variazione del rating), che non si rinvengono nel testo regolamentare, finisce per essere opinabile e rimessa all’apprezzamento soggettivo dell’intermediario (o, in caso di contenzioso, del giudice e del suo consulente)”. La decisione fa riferimento all’abrogata delibera Consob 11522/98 art. 28, che al comma 3 imponeva obblighi di informazione scritta nei confronti del cliente nel momento in cui le operazioni in strumenti derivati e warrant disposte per scopi diversi da quelli di copertura abbiano generato perdite effettive o potenziali pari al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista o garanzia per l’esecuzione delle operazioni. Il successivo comma 4, invece, imponeva medesimi obblighi informativi ove il patrimonio affidato all’intermediario in ambito di gestione si sia ridotto per perdite effettive o potenziali pari al 30% del controvalore totale del patrimonio a disposizione alla data di inizio di ciascun anno. Affinché ricorresse l’obbligo prescritto dalla abrogata norma del Regolamento Consob del 1998, era inoltre necessaria l’esistenza di un contratto di gestione o di un investimento in titoli derivati di tipo speculativo. Nel merito alcune decisioni hanno comunque ribadito come non ricorresse l’obbligo per l’intermediario di informare il cliente sulla perdita di valore di un titolo, laddove difettasse la sottoscrizione di un contratto di gestione. Poste le premesse che precedono, l’orientamento che ritiene un onere di informazione permanente a carico dell’intermediario muove le proprie considerazioni da un superamento del dato normativo, giungendo a ritenere l’obbligo informativo così ampio da perdurare anche dopo la scelta di acquisto del titolo, mettendo il cliente nel prosieguo del rapporto in grado di compiere scelte di disinvestimento consapevoli e tempestive.  Una via intermedia tra gli orientamenti descritti in precedenza può essere rilevata nella decisione del Tribunale di Novara, il quale non esclude che sia possibile convenire tra le parti un obbligo di informazione continuo, di matrice convenzionale e quindi inserito nell'ordine di acquisto del titolo.   La decisione in esame compie un importante accenno all'ordine di acquisto dello strumento finanziario ricordando come proprio le Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza 26724/2005) abbiano affermato che l'ordine di investimento "si configura come atto esecutivo a valle del precedente contratto c.d. quadro di negoziazione e di servizi di investimento e come mero atto unilaterale del cliente."  E' attraverso tale documento che il cliente impartisce la propria scelta all'intermediario ed è in tale atto che è possibile inserire la convenzione con l'istituto di credito di pattuizioni ulteriori rispetto a quelle previste per legge. In questo contesto mette conto evidenziare l'iniziativa Patti Chiari "una iniziativa che ha visto una notevole adesione nel settore dell'intermediazione finanziaria e che consisteva nella formazione di un elenco delle obbligazioni a basso rischio e a basso rendimento, finalizzato a fornire informazioni specifiche in ordine agli strumenti finanziari compresi nell'elenco stesso, in modo tale da orientare il cliente nella scelta; sicché l'inserimento di un determinato titolo in quell'elenco rappresenta uno strumento informativo, ulteriore e specifico, suscettivo di fornire ai risparmiatori informazioni finanziarie dettagliate su quel determinato titolo come su altro, aventi analoghe caratteristiche, inseriti nell'elenco in questione; tanto ciò è vero che le banche aderenti a tale iniziativa hanno adottato la prassi di fornire ai propri clienti un'informativa specifica sull'elenco e sui titoli nel medesimo ricompresi. [...]". I parametri secondo i quali le obbligazioni possono essere inserite in tale elenco sono "un rating elevato non inferiore ad "A-" [...]" e "devono avere una bassa variabilità del prezzo di mercato ossia l'elenco prevede l'inclusione solo dei titoli che presentano il rischio di una riduzione di valore inferiore al 5% su base annuale, rischio misurato secondo la metodologia del Value at risk." L'inserimento di un titolo nell'elenco profilato dal Consorzio Patti Chiari, quindi, lo individua come un titolo a basso rischio ed a basso rendimento; facendo nascere però tra sottoscrittore ed istituto di credito aderente, un obbligo informativo di tipo convenzionale ulteriore a quello ordinario. Sul punto il Tribunale di Torino ha precisato che l’indicazione all’interno dell'ordine di investimento della circostanza che il titolo fa parte dell'elenco di obbligazioni a basso rischio - rendimento redatto nell'ambito del progetto Patti Chiari comporterà che ove " in base agli andamenti di mercato il titolo potrà uscire dall'elenco successivamente alla data dell'ordine. Il cliente sarà tempestivamente informato se il titolo subisce una variazione significativa del livello di rischio [...]". Se tale clausola sarà sottoscritta da entrambe le parti e sarà quindi aggiuntiva rispetto a quelle standardizzate tipiche dell'ordine di investimento, essa costituirà “una vera e propria pattuizione contrattuale ed integra (integrerà) dunque una fonte di obblighi di natura convenzionale specificamente assunti dalla Banca nei confronti del suo cliente investitore." Tale obbligo deriva, secondo alcune decisioni di merito, dal fatto che "la stessa adesione al Consorzio Patti Chiari, abbia comportato per gli istituiti di credito l'assunzione nei confronti dei propri clienti di specifici obblighi informativi, ulteriori a quelli contenuti nella normativa di riferimento, tra cui l'obbligo espressamente previsto dalla guida pratica, sopra citata, al Consorzio Patti Chiari (pag. 25 guida) di informare il cliente in caso di aumento del rischio rilevante, ciò a dire dall'area del basso rischio a un livello di rischio significativo, entro due giorni dall'accadimento." La disamina giurisprudenziale esposta conferma come sia possibile in via convenzionale, concordare con la controparte contrattuale ulteriori obblighi informativi di tipo continuativo, fondati sulla loro annotazione negli ordini di negoziazione. Una simile modulazione dell'obbligo informativo assume, come detto, fondamentale importanza nelle scelte di disinvestimento relative al titolo acquisito. Risulterà quindi tardiva, in un simile contesto informativo di tipo convenzionale, una informativa al cliente che coincide con il default dell'emittente e la decisione di far uscire il titolo dal proprio elenco da parte del Consorzio patti Chiari. Quanto precede conferma come sia determinante per l'investitore entrare in possesso in modo tempestivo delle informazioni su di un titolo, anche per ciò che attiene il suo downgrading inerente il rating ed il suo conseguente aumento di rischio, ciò soprattutto al fine di porre in essere provvidenziali scelte di cessione del titolo, utili a diminuire possibili perdite. Può, quindi, concludersi che sul tema degli obblighi di informazione continuativi si affrontano due correnti giurisprudenziali, una minoritaria che li ritiene esistenti a carico dell'intermediario e l'altra maggioritaria che nega l'esistenza di un obbligo di monitoraggio del titolo a favore del cliente. Anche a livello normativo, sia primario che regolamentare, viene confermata l'ipotesi di obblighi continuativi di informazione solo in alcune ipotesi precise, come il contratto di gestione o di consulenza, oppure per prodotti finanziari derivati ed a fronte di perdite rilevanti. Da quanto precede trova conferma l'ipotesi che solo l’informazione sia l’unico elemento idoneo non solo a far comprendere l’iniziale grado di rischio (oltre gli ulteriori elementi descritti) collegato all’investimento, ma costituisce anche l’unica componente capace di impedire gravose perdite all’investitore dinanzi a svalutazioni del valore del titolo acquistato o deterioramento del merito di credito o del patrimonio degli emittenti il titolo. Una terza via, invece, sembra delinearsi per ciò che attiene gli obblighi di informazione continuativi, i quali se convenzionalmente concordati tra banca ed investitore assumono importante rilievo, come nei casi in precedenza descritti. E' questa l'ipotesi del Consorzio Patti Chiari, nei quali l'obbligo informativo, come alcune decisioni di merito hanno evidenziato, ricorre laddove si verifichino importanti declassamenti di rating e aumenti di rischiosità secondo il profilo Value at risk. Elementi, questi, sui quali si fonderà la responsabilità dell'intermediario in caso di mancata o tardiva comunicazione all'investitore....

FALLIMENTO: il terzo può chiedere il risarcimento del danno ex art. 2395 c.c. a carico degli amministratori

Mer, 21/05/2014 - 13:58
In tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art.2395 c.c., il terzo è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione ( di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 della legge fall.   È quanto stabilito dalla Cassazione Civile, prima sezione, con la sentenza n. 8458 del 10/04/2014. La vicenda all’esame della Suprema Corte riguarda una operazione di “spin-off” a seguito della quale la società “madre” era fallita dopo essere stata posta in liquidazione.  Ebbene, un creditore della società fallita agiva in giudizio contro gli ex amministratori della stessa per ottenere il risarcimento del danno ex art. 2395 c.c, per avere, gli stessi, posto in essere una serie di condotte tese al sostanziale svuotamento del patrimonio della debitrice. La Corte d’Appello adita dagli amministratori, però, riformava la sentenza di primo grado sostenendo che la domanda era fondata sull’allegazione di un fatto (lo svuotamento del patrimonio) non riconducibile alle previsioni di cui all’art. 2395 c.c. ma piuttosto a quelle ex art. 2394 c.c., disponendo l’inefficacia del sequestro conservativo. La società debitrice proponeva, dunque, ricorso per cassazione deducendo l’erroneità dell’interpretazione della Corte Territoriale e chiedendo ai giudici di legittimità di chiarire come l’operazione di spin-off fosse rilevante sotto il profilo dell’art. 2395 c.c. qualora: - a seguito della cessione vengono trasferite alla newco tutte le attività e le passività ad eccezione di una sola rilevante posizione debitoria che rimane in capo alla bad company; - a seguito della cessione, e per effetto della medesima, la bad company successivamente fallisce con conseguente incapacità del patrimonio, inesistente, a soddisfare le pretese dell’unico creditore; - se il creditore danneggiato sia legittimato ad agire ex art. 2395 c.c. 1.Le operazioni di spin-off: profili economico aziendali e responsabilità degli amministratori Sotto il profilo economico-aziendale le operazioni di spin-off sono destinate a realizzare svariate finalità che spaziano da valutazioni di ordine strategico a valutazioni di tutela del patrimonio. A titolo esemplificativo si ricorre ad operazioni di questo genere per realizzare operazioni di concentrazione, per ottimizzare l’assetto organizzativo-produttivo, per operazioni di ristrutturazione finanziaria, per la liquidazione di imprese strutturalmente in perdita. Tuttavia lo strumento può essere utilizzato anche per finalità personali dei soci. Così è possibile ricorrere ad operazioni della specie per sottrarre parte del patrimonio al rischio d’impresa. L’esempio classico è quello mirante a costituire una cassaforte di famiglia ove la società conferente trattiene il patrimonio immobiliare e conferisce alla newco il complesso aziendale. L’operazione è perfettamente legittima e, salvo ipotesi particolari, in caso di successivo fallimento di quest’ultima non si hanno conseguenze in capo alla società madre. Ovviamente, se l’operazione è fraudolentemente posta in essere per colpire gli interessi di una parte, essa può essere sindacata e dare diritto al risarcimento del danno in applicazione del generale principio del neminem laedere in base al quale tutti sono tenuti al dovere (generico) di non ledere l'altrui sfera giuridica. Laddove, pertanto, dovesse acclararsi che l’operazione è stata posta in essere con intento lesivo, sorge il problema di capire quali siano gli strumenti di tutela approntati dalla nostra legislazione. Sul piano civilistico, il nostro codice regola diversi profili di responsabilità degli amministratori distinguendo quella verso la società amministrata da quella verso i creditori sociali, verso i soci e verso i terzi. In particolare, l’art. 2394 c.c. disciplina la responsabilità verso i creditori sociali laddove il comportamento degli amministratori abbia contribuito a far si che la società procurasse un danno a terzi e che questi ultimi non abbiano potuto soddisfarsi a causa dell’insufficienza del patrimonio della società stessa. L’art. 2395 c.c., invece, disciplina la responsabilità verso i soci o i terzi a condizione che siano stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, si tratta di una responsabilità extracontrattuale (aquiliana) che da diritto al risarcimento del danno ma che richiede di provare la colpa o il dolo in capo a chi esercita l’azione  Il primo presupposto per l’esercizio dell’azione ex art. 2394 c.c. è costituito dall’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento del credito e appare come una conseguenza del generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Si tratta, allora, di individuare il nesso causale che lega l’incapienza del patrimonio a soddisfare l’obbligazione sociale al comportamento colposo o doloso degli amministratori. Già da tempo la Cassazione ha affermato il principio per cui la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali “si ricollega ad una insufficienza del patrimonio sociale, imputabile a colpa degli amministratori” (Cass., S.U., 6 ottobre 1981, n. 5241). Naturalmente, a seguito dell’accertata incapienza patrimoniale determinata dal fatto negligente compiuto, si determina l’aggressione del patrimonio personale dell’amministratore. Ciò non può portare, tuttavia, a ritenere censurabili gli atti degli amministratori solo per effetto della successiva incapienza patrimoniale, essendo necessario che il singolo comportamento contrasti con gli obblighi posti a carico degli amministratori e sia la causa diretta della sopravvenuta insufficienza patrimoniale. Oltretutto il giudice non può essere chiamato “a sindacare ex post le scelte imprenditoriali ma solo censurare le violazioni di obblighi giuridici da essi eventualmente commesse” (App. Milano, 14 gennaio 1992).  In ordine all’onere della prova, non pare dubbio che il creditore sociale che esercita l’azione di cui all’art. 2394 c.c. debba fornire la prova della violazione colposa degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale e la dimostrazione del nesso di causalità tra inadempimento e danno. L’azione di cui all’art. 2395 c.c. disciplina la responsabilità conseguente ad atti dolosi o colposi degli amministratori che abbiano arrecato in via diretta un danno al patrimonio dei soci o dei terzi. Il presupposto delle due azioni (ex 2394 c.c. o 2395 c.c.) sta nella diversa incidenza del danno causato dagli amministratori nel senso che se il danno incide sul patrimonio sociale, e i soci subiscono indirettamente il danno derivante dall’incapienza patrimoniale, si ha l’azione ex art. 2394; viceversa, se il danno incide direttamente sul patrimonio del socio o del terzo, si ha l’azione individuale ex art. 2395 c.c. Per l’esercizio dell’azione individuale occorre, quindi, che il danno sia diretto e che si trovi in un rapporto di consequenzialità diretta con il fatto illecito degli amministratori come recentemente sostenuto anche da Cass. 22 marzo 2011 n. 6558. 2.La sentenza della Cassazione n. 8458 del 10 aprile 2014 Nel merito della vicenda, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso riprendendo il principio di carattere generale della giurisprudenza di legittimità secondo cui il terzo è legittimato all’azione individuale ex art. 2395 c.c. “in conseguenza di atti dolosi o colposi….solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 della legge fall.”. Ora, se il principio espresso dalla Suprema Corte appare conforme ai principi di diritto oramai di generale accettazione, qualche perplessità sorge allorquando la stessa nel ritenere corretta la lettura dei fatti fornita dalla Corte d’Appello, ne censura la conclusione addotta ritenendo che si sia sottratta all’esame necessario al fine di ritenere o meno applicabile l’art. 2395 c.c. In conclusione, quindi, la decisione in commento conferma i principi generali sopra delineati in ordine alle fattispecie regolate dagli articoli 2394 e 2395 c.c. Tuttavia dalla lettura della sentenza non può sostenersi che sia stata riconosciuta la tesi della curatela che ha ritenuto l’operazione di spin-off effettuata solo con l’intento di ledere quell’unico creditore rimasto insoddisfatto e incapace di agire nei confronti della newco, giacché la Cassazione ha solo ritenuto non sufficiente l’indagine esperita dalla Corte d’Appello per verificare se l’operazione straordinaria fosse esclusivamente finalizzata all’obiettivo lesivo specifico di sottrarsi all’obbligo dell’adempimento....

Esecuzione forzata: se il terzo non rende la dichiarazione, paga le spese di giudizio

Mar, 20/05/2014 - 11:06
In tema di esecuzione forzata presso terzi, le spese del giudizio di accertamento vanno addebitate esclusivamente e solidalmente ai terzi pignorati che colpevolmente omettano di rendere la dichiarazione di cui agli articoli 547 e seguenti del codice di procedura. Così ha deciso il Tribunale di Frosinone, giudice unico Dott. Vincenzo Staccone, con la sentenza n. 454 del 25 aprile 2014, emessa nell’ambito di un procedimento ex art. 548 c.p.c. volto ad accertare l'esistenza di crediti del debitore esecutato, nei confronti di terzi. Nel caso in esame, il creditore procedente aveva notificato un pignoramento presso terzi al direttore di filiale di un istituto di credito il quale, tuttavia, avevo rifiutato di ricevere l'atto. All'udienza fissata per la discussione la banca non era comparsa né aveva reso la dichiarazione. Ebbene, a seguito delle contestazioni sorte sull'esistenza del credito del debitore, risultava necessario instaurare un autonomo giudizio di cognizione. Citata nel giudizio di accertamento in persona del suo legale rappresentante, la banca de quo ha infine reso la dichiarazione, fornendo prova della non esistenza del credito. Sebbene l'accertamento si sia rivelato negativo, il giudice ha comunque deciso di addebitare per intero alla banca - in solido con altro terzo istituto non comparso e che pure non aveva effettuato la dichiarazione di rito - le spese di giudizio: le ragioni della pronuncia risiedono nella considerazione che, a parere dell'organo giudicante, il terzo abbia colpevolmente omesso, nella persona del direttore della filiale, di accettare la notifica del pignoramento e rendere la dichiarazione, e questa omissione sia risultata da sola la causa dell'instaurazione del giudizio di accertamento e del conseguente, evitabilissimo, aggravio delle spese procedimentali. Le considerazioni della banca - la quale ha opposto la non conoscenza del procedimento di esecuzione per mancata citazione del legale rappresentante nell'atto di pignoramento – sono apparse al Tribunale del tutto pretestuose. In casi analoghi, infatti, la giurisprudenza si è sempre pronunciata ritenendo possibile (e doverosa) la ricezione dell’atto da parte del direttore della filiale, qualificandosi quest’ultimo, quale institore ai sensi dell'art. 2203 c.c. e dunque nel pieno possesso della facoltà di rendere dichiarazioni per consto dell’Istituto in base al secondo comma del successivo art. 2204 (al riguardo il Giudice ha segnalato la sentenza Cass. 2-8-65, n. 1863, rv. 313546, con riferimento alla legittimazione processuale nei giudizi di esecuzione)....

ESECUZIONE FORZATA: fondo patrimoniale e tutela dei creditori

Mar, 20/05/2014 - 09:33
In allegato il testo dell'articolo oggetto di pubblicazione sull'inserto Legalmente de Il Mattino, in tema di esecuzione forzata e tutela dei creditori....

ISCRIZIONE IPOTECARIA - MANCATO RINNOVO - PERDITA EFFICACIA

Mar, 20/05/2014 - 08:22
La pendenza di un processo esecutivo non incide sul decorso del termine ventennale durante il quale l’iscrizione di ipoteca conserva il suo effetto, pertanto, in caso di mancata rinnovazione, il titolare perde il privilegio rispetto agli altri creditori anche se il procedimento è in corso. E’ questo quanto ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza n. 10632  depositata il 15 maggio 2014. Nel caso de quo, la Corte di Cassazione si è trovata a decidere su tre motivi sviluppati dalla ricorrente, una società finanziaria intervenuta in una procedura esecutiva immobiliare promossa da alcune banche nei confronti di una coppia di coniugi,  e precisamente: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 2808 e 2847 c.c.  contestando la conclusione del Tribunale sulla estensione della valenza costitutiva dell’iscrizione ipotecaria e della sua rinnovazione alle cause di prelazione; 2) nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 c.p.c. e 2938 e 2969 c.c., sostenendo l’illegittimità del rilievo ufficioso, da parte oltretutto del CTU incaricato della redazione del progetto di distribuzione, della sopravvenuta carenza di operatività del privilegio correlato all’originaria iscrizione; 3) omissione di motivazione sulla qualificazione della natura giuridica dell’estinzione dell’ipoteca ai sensi degli artt. 2847 e 2878 n. 2 c.c. e sulla questione della necessità di una specifica eccezione delle controparti. Gli Ermellini hanno ritenuto i tre motivi infondati e in merito agli effetti della mancata rinnovazione dell’ipoteca in pendenza di processo esecutivo individuale hanno richiamato integralmente la sentenza della Cassazione n. 7489 del 14 maggio 2012, a mente della quale “l’efficacia dell’iscrizione di ipoteca, ai sensi dell’art. 2847 c.c., cessa se l’iscrizione non sia rinnovata entro vent’anni dalla sua data, a nulla rilevando che tale termine spiri in pendenza del processo di esecuzione, a meno che non sia già stato emesso, prima della scadenza di detto temine ventennale – il decreto di trasferimento del bene ipotecato”. Il termine ventennale dell’art. 2947 c.c. è un termine che regola l’efficacia dell’iscrizione ipotecaria non tanto e non solo nei rapporti tra il creditore ipotecario e il debitore originario, ma soprattutto nei rapporti tra il primo e gli altri creditori e gli aventi causa del debitore originario: il suo inutile decorso comporta però la postergazione del creditore ipotecario, che intenda continuare ad avvalersi della garanzia, ai creditori iscritti nel lasso tra l’originaria e la nuova iscrizione. Nello stesso senso vedasi la la sentenza n. 2610 del 5 febbraio 2014 pronunziata dalla Cassazione civile, sezione terza. Secondo i Supremi Giudici, la protrazione dell’efficacia propria dell’iscrizione, regolata dal sistema di pubblicità di cui agli artt. 2650 e seguenti del c.c., è una facoltà del creditore ipotecario, la quale, essendo una estrinsecazione del suo diritto di garanzia reale sul bene, gli permette di fruire dei benefici della formalità originaria per un ulteriore ventennio....

INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA: l’obbligo informativo non sussiste in presenza di operatore qualificato

Lun, 19/05/2014 - 15:04
In tema di intermediazione finanziaria, in mancanza di elementi contrari, emergenti dalla documentazione in possesso dell’intermediario in valori mobiliari, la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza e dell’esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari, pur non costituendo dichiarazione confessoria, esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Corte di Appello di Milano con sentenza pronunziata in data 07/09/2011 in materia di intermediazione finanziaria. Nel caso di specie, la pronunzia trae origine dall’appello proposto da una società avverso la sentenza del Tribunale di Milano che, in un giudizio avente ad oggetto valori mobiliari, aveva rigettato la domanda di risarcimento dalla stessa avanzata nei confronti di una Banca. Ed infatti, secondo il Giudice di primo grado, le doglianze della società circa la violazione dell’obbligo di informazione, da parte della Banca, al momento della stipula dei contratti swap, non potevano essere accolte atteso che il legale rappresentante della società aveva espressamente dichiarato di essere un operatore qualificato e, dunque, non poteva contestarsi alla Banca alcuna violazione dell'obbligo di fornire adeguate informazioni, previsto ex art. 31 II comma del Regolamento Consob n. 11522/1998 per i soli investitori non qualificati. Ebbene, la Corte di Appello, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha confermato la sentenza di primo grado, statuendo il principio secondo cui la dichiarazione del legale rappresentante della società è sufficiente ad attestare in capo al soggetto rappresentato la qualità di operatore qualificato, con applicazione del conseguente regime di legge che esclude la applicazione degli artt.27, 28 e 29 del regolamento. In conclusione, dunque, in caso di asserita discordanza tra il contenuto della dichiarazione del legale rappresentante e la situazione reale, grava sul deducente l’onere di provare le circostanze specifiche dalle quali possa desumersi la mancanza dei requisiti dell’operatore qualificato. Sul punto, si segnalano altresì alcune pronunzie già oggetto di approfondimento sulla rivista: 1.DERIVATI: LA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA ED ESPERIENZA È PROVA UNICA E SUFFICIENTE DELL’ADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI Sentenza Tribunale di Trieste, dott. Daniele Venier 17-03-2014 n.248 2.DERIVATI: REQUISITI DI VALIDITÀ DELLA DICHIARAZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO Sentenza Tribunale di Firenze, Pres.dott. Fiorenzo Zazzeri, G.Est. dott. Ludovico Delle Vergini 29-11-2013 n.3842 3.VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI DELL’INTERMEDIARIO FINANZIARIO – ONERE DELLA PROVA Sentenza Cassazione civile, sezione prima 19-10-2012 n.18039...

DERIVATI: la dichiarazione di “operatore qualificato” esonera l'intermediario dall'obbligo di ulteriori verifiche

Lun, 19/05/2014 - 13:20
La qualità di operatore qualificato esclude l'operatività delle regole di salvaguardia ex TUF e Reg. Consob di attuazione e deve ritenersi che la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante di una società che ha compiuto un'operazione di "SWAP", secondo cui quest'ultima dispone della competenza ed esperienza richiesta in materia di operazioni in valori mobiliari, in assenza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell'intermediario finanziario, esonera l'intermediario stesso dall'obbligo di ulteriori verifiche sul punto e costituisce argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, in ordine al riconoscimento della natura di operatore qualificato e all'accertamento della diligenza prestata dall'intermediario. Ne deriva l’inapplicabilità all'operatore qualificato delle norme di protezione di cui alle disposizioni della L. 58/1998 e l’infondatezza di ogni censura sulla effettività delle competenze e conoscenze dichiarate e sulla correttezza ed esaustività delle informazioni ricevute dalla banca. Così si è espresso il Tribunale di Bologna, in persona della dott.ssa Silvia Romagnoli, con la sentenza n.1171 dell’8 aprile 2014, pronunciandosi nel giudizio incardinato dal cliente di una banca, al fine di sentire accogliere la domanda di nullità (o, in subordine, di annullamento) di un contratto di INTEREST RATE SWAP, sul presupposto della assoluta ignoranza del tipo di strumento derivato oggetto di sottoscrizione, deducendo di essere addivenuto alla stipulazione di quest’ultimo al solo fine di proseguire gli altri rapporti bancari in essere con la convenuta. Dal canto suo, la Banca ha contestato gli addebiti, affermato la correttezza del proprio contegno e dedotto la piena validità della dichiarazione di “operatore qualificato” resa dal legale rappresentante della società. Trattasi, in buona sostanza, del tema – di grande attualità sia per la vicenda, sia per i risvolti interpretativi della normativa di riferimento – della validità e degli effetti della dichiarazione di “operatore qualificato”, la quale costituisce, de jure condito, lo “spartiacque” tra due tipi di tutela per il cliente e tra i differenti contegni dell’intermediario in un rapporto contrattuale, avente ad oggetto strumenti finanziari. Va da sé che, nel caso di strumenti finanziari derivati, per definizione comportanti un grande rischio di perdite per il cliente, il tema assume ancora maggiore rilievo. Nel caso di specie, svolti gli accertamenti in punto di fatto e verificata la piena validità della dichiarazione resa dalla società, atteso anche il mancato (e/o tardivo) disconoscimento dei contratti in originale prodotti dalla Banca convenuta, il Giudice bolognese ha avuto “gioco facile” nel confermare i principi affermati dalla giurisprudenza in casi analoghi. In particolare, il Tribunale ha ribadito, in buona sostanza, che la dichiarazione – effettuata dal legale rappresentante della società – che l’ente dispone della competenza ed esperienza richiesta in materia di operazioni in valori mobiliari, esonera l’intermediario da ulteriori verifiche circa la conformità tra tale asserzione e la situazione di fatto in cui il cliente, effettivamente, versi. Ciò, ovviamente, sempre che non emergano in maniera evidente altri elementi – tra i dati a disposizione della banca – che facciano pensare, in realtà, ad una situazione di fatto divergente. Un tale principio ha delle precise conseguenze sulla ripartizione in giudizio dell’onere della prova. Infatti – sottolinea il Giudice – la dichiarazione [di operatore qualificato, validamente espressa] costituisce argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, in ordine al riconoscimento della natura di operatore qualificato e all'accertamento della diligenza prestata dall'intermediario. Con l’applicazione di tale principio, il Tribunale ha disatteso ogni domanda attorea, anche quella subordinata di annullamento per vizio del consenso (per la mancata prova di qualunque profilo di malafede nel comportamento dell’intermediario), nonché quella di risarcimento dei danni patrimoniali, pronunciandosi in maniera del tutto conforme all’orientamento dominante in giurisprudenza – e più volte oggetto di commento su questa rivista. Peraltro, incidentalmente, il Giudice si è pronunciato anche sulla validità, in sé, del contratto di INTEREST RATE SWAP, che ha natura aleatoria (peraltro specificamente indicata nel contratto ed accettata dal cliente) e struttura caratterizzata dallo scambio di somme di denaro calcolate secondo parametri rapportati ad un capitale di riferimento con assoluta aleatorietà del risultato dell'operazione dato dalla differenza tra i pagamenti incrociati (assimilabile a vera e propria SCOMMESSA SUL SALDO POSITIVO). Tale precisazione risulta interessante, atteso che sul punto sussiste un ampio dibattito giurisprudenziale, di recente risolto, tra gli altri, dal Tribunale di Torino. Sul punto si segnalano, per approfondimenti, le seguenti decisioni: DERIVATI: LA DICHIARAZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO ESIME L’INTERMEDIARIO DAGLI OBBLIGHI INFORMATIVI L'INTERMEDIARIO NON È TENUTO A VERIFICARE LA CONGRUENZA SOSTANZIALE ALLA DICHIARAZIONE, SALVI CHIARI ELEMENTI DISCORDANTI. Altro | Tribunale di Torino, dott. Giovanni Liberati | 13-05-2014 | n.3462 DERIVATI - IRS: LA CAUSA DEL CONTRATTO È NELLO SCAMBIO DI FLUSSI CORRISPONDENTE AL DIFFERENZIALE IL CONTRATTO DI IRS, STIPULATO “A COPERTURA”, NON È AFFETTO DA NULLITÀ PER MANCANZA DI CAUSA. Sentenza | Tribunale di Torino Dott. Silvia Vitro | 24-04-2014 | n.2976 Autore: Avv. Maria Luigia Ienco DERIVATI: LA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA ED ESPERIENZA È PROVA UNICA E SUFFICIENTE DELL’ADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI OBBLIGO DI FORMA SCRITTA SOLO PER CONTRATTO-QUADRO E NON ANCHE PER I SINGOLI ORDINI DI INVESTIMENTO. Sentenza | Tribunale di Trieste, dott. Daniele Venier | 17-03-2014 | n.248 DERIVATI: VALIDI ANCHE SE L’ALEA È SOLTANTO A CARICO DELL’INVESTITORE NESSUN OBBLIGO DELLA BANCA DI FAR CONOSCERE GLI “SCENARI PROBABILISTICI” DELLA SCOMMESSA. Sentenza | Tribunale di Milano, dott. Francesco Ferrari | 28-01-2014 | n.978 DERIVATI: REQUISITI DI VALIDITÀ DELLA DICHIARAZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO GRAVA SUL CLIENTE L’ONERE DI DIMOSTRARE LA NON CONFORMITÀ. Sentenza | Tribunale di Firenze, Pres.dott. Fiorenzo Zazzeri, G.Est. dott. Ludovico Delle Vergini | 29-11-2013 | n.3842...

PRELIMINARE: NECESSARIA L'INTESA SUGLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL'ACCORDO

Lun, 19/05/2014 - 09:10
Considerato che il contratto preliminare di una compravendita deve necessariamente rivestire la forma scritta ad substantiam ai sensi dell'art. 1351 cc, in mancanza di un atto scritto contenente una vera e propria accettazione, la mera ricezione di una somma consegnata a titolo di caparra non pare sufficiente a determinare la stipulazione del contratto preliminare ma solo a dimostrare l'avvenuta percezione della somma medesima. L'intesa su alcuni punti del contratto non esaurisce la fase delle trattative, perché al fine di perfezionare il vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa sugli elementi costitutivi – sia principali sia secondari – dell'accordo. Ai fini della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare – anche se solo preliminare - è dunque indispensabile l'esatta individuazione del suo oggetto. In mancanza di un contratto concluso ed in ragione della conseguente inesistenza di un vincolo obbligatorio, i doveri di correttezza, buona fede e diligenza che il venditore deve osservare nel corso delle trattative debbono ritenersi estesi anche agli obblighi collaterali di protezione, informazione e collaborazione nei confronti dell'acquirente con particolare riferimento alle caratteristiche del bene oggetto della compravendita, dovendo essere garantita la corretta formazione della volontà contrattuale. Sono questi i principi sapientemente illustrati dal Tribunale di Perugia chiamato a pronunciarsi su di una complessa controversia avente ad oggetto la mancata stipulazione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare. Il caso ha visto il proprietario di un immobile (parte venditrice) citare in giudizio avanti al Giudice di Pace di Perugia la convenuta (parte proponente) per ivi vederla condannata al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta illegittima da quest'ultima tenuta nel corso dello svolgimento delle trattative svolte nell'ambito di una operazione di compravendita immobiliare. La parte venditrice si doleva infatti che la proponente aveva presentato una offerta per l'acquisto di un immobile accompagnata da un assegno consegnato in garanzia a titolo di caparra, ma successivamente aveva sollevato una serie di contestazioni in merito all'operazione. La convenuta aveva eccepito che l'immobile era in leasing e non in proprietà, era gravata da debiti condominiali mai rappresentati ed aveva una differente destinazione urbanistica. Nonostante i chiarimenti forniti dal venditore, la parte proponente aveva pertanto manifestato la propria volontà di chiudere la trattativa, Il proprietario concludeva pertanto chiedendo il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni patiti nonché il diritto a trattenere la somma consegnata a titolo di caparra. La convenuta si difendeva eccependo che, durante le trattative, la parte venditrice le aveva comunicato che l'unità immobiliare aveva destinazione d'uso “direzionale” solo dopo aver accettato la proposta di acquisto relativa all'immobile “ad uso negozio”. Solamente in detta occasione, il venditore aveva altresì informato la controparte della necessità di subentrare in un contratto di leasing, al fine di definire l'acquisto dell'immobile. La parte proponente contestava altresì che il venditore l'aveva dapprima invitata a stipulare il contratto e successivamente le aveva inviato la bozza di un contratto preliminare non concordato che la convenuta aveva tuttavia rifiutato. La proponente eccepiva inoltre che nella bozza del preliminare l'immobile aveva nuovamente destinazione “commerciale”, mentre erano frattanto emersi anche rilevanti debiti condominiali mai dichiarati, donde aveva dichiarato chiusa la trattativa. La convenuta non solo evidenziava che la condotta tenuta dal venditore era stata caratterizzata da malafede precontrattuale con riferimento alla violazione del dovere di informazione (mancata comunicazione dei debiti condominiali e dei problemi di infiltrazione d'acqua all'interno dell'immobile), ma contestava altresì il diritto vantato da controparte a trattenere la caparra e a richiedere il risarcimento dei danni. La parte proponente chiedeva infine – in via riconvenzionale e previa rimessione della causa al Tribunale per competenza per valore – il trasferimento coattivo dell'immobile previa riduzione del prezzo in ragione dei costi da sostenere per il cambiamento della destinazione d'uso e la mancanza delle qualità promesse dell'unità immobiliare oltre al risarcimento dei danni. La causa veniva riassunta avanti al Tribunale di Perugia dalla proponente, la quale chiese la condanna del venditore al risarcimento dei danni ed all'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare ad un prezzo comunque inferiore rispetto a quello originariamente concordato. Il venditore si costituiva in giudizio e si difendeva, chiedendo – da un lato – il rigetto delle pretese avanzate da controparte e – dall'altro – la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale formulata dalla parte proponente. Nell'esaminare la complessa vicenda sopra descritta, il Tribunale di Perugia si è – innanzitutto - concentrato sul quesito riguardante la domanda riconvenzionale di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di vendita formulata dalla proponente. Alla luce degli elementi di fatto e di diritto accertati, il Giudice ha tuttavia escluso che le parti avessero effettivamente stipulato un preliminare di vendita....

REVOCATORIA FALLIMENTARE: i termini ex art. 69 bis lf sono di decadenza e non di prescrizione

Lun, 19/05/2014 - 08:59
 Il termine triennale fissato dall’art. 69 bis, primo comma, L.F. è un termine di decadenza sia che si verta in tema di azione revocatoria ordinaria ex art. 66 L.F., sia che si verta in tema di azione revocatoria fallimentare ex artt. 67, 69 e 69 bis, secondo comma, L.F..  I termini ex art. 69 bis L.F. sono termini alternativi che sanciscono una decadenza dall’azione revocatoria fallimentare in capo al curatore, che però non può essere rilevata d’ufficio dal Giudice. L’atto necessario e sufficiente per interrompere la decadenza dall’azione revocatoria ex art. 69 bis L.F., può essere individuato nel compimento da parte dell’attore, entro il termine previsto per l’esercizio dell’azione, di tutto quanto è in suo potere e ricada sotto la sua responsabilità per iniziare il giudizio. Questi i principi pronunciati dal Tribunale di Napoli, VII Sezione, giudice dott. Angelo Napolitano, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf, ove la curatela aveva notificato l’atto introduttivo oltre il termine di tre anni dalla dichiarazione di fallimento, se pure consegnato all’ufficiale  giudiziario entro detto termine e la convenuta era rimasta contumace. Con la sentenza in esame, il Tribunale di Napoli affronta nuovamente la questione  concernente la natura del termine triennale previsto dal primo comma dell’art. 69 bis al fine di stabilire se trattasi di un termine di decadenza o di prescrizione. Ciò anche in considerazione dell’ulteriore profilo, concretamente rilevante nel giudizio in esame, della rilevabilità d’ufficio della maturazione del termine, considerato che, se il termine triennale fosse un termine di prescrizione, l’eventuale sua maturazione non sarebbe certamente rilevabile d’ufficio, dal Giudice, stante la contumacia della convenuta, l’unica legittimata ad eccepirla. Se fosse, invece, un termine di decadenza, sarebbe necessario, in primis, verificare se si si verta in materia disponibile o meno dalle parti, al fine di valutare poi se l’eventuale improponibilità dell’azione (art. 2969 c.c.), per essere stata essa esercitata a termine già scaduto, sia rilevabile o meno d’ufficio dal Giudice. Impostati così i termini della questione, il Giudice muove il ragionamento dall’argomento di cui alle espressioni letterali della norma in esame, rilevando come non solo la rubrica del richiamato articolo della legge fallimentare, che parla espressamente di “decadenza”, (a parte la singolarità del termine triennale come ipotetico termine di prescrizione), ma anche l’espressione usata dalla norma convergano, nel senso della natura decadenziale di quel termine: “le azioni revocatorie…non possono essere promosse…”  Si osserva, poi, come non solo i canoni letterale e teleologico d’interpretazione, ma anche la ricostruzione sistematica dell’impatto del richiamato primo comma dell’art. 69 bis L.F. sulle condizioni e modalità di esperimento delle azioni revocatorie previste nella sezione terza del capo terzo del titolo secondo della legge fallimentare, inducano a ritenere che ci si trovi davanti ad un termine di decadenza. Il Tribunale, a questo punto, procede ad una analitica disamina degli argomenti e dei motivi sulla base dei quali giunge alla indicata conclusione, muovendo dall’esame degli atti revocabili per i quali il quinquennio dal compimento di essi cada prima del decorso del triennio dalla dichiarazione di fallimento e cioè quelli per lo più conclusi prima dell’inizio dei periodi cc.dd. “sopsetti” ex art. 67 L.F.. Trattasi degli atti revocabili ex art. 66 L.F. nel termine prescrizionale dell’art. 2903 cc ed, in particolare, vengono illustrate le conseguenze rinvenienti dall’incrocio tra il termine e il regime della prescrizione dell’azione revocatoria ordinaria nel fallimento ex artt. 66 L.F. e 2903 c.c. e detto termine triennale se quest’ultimo fosse, in ipotesi, qualificato come prescrizionale. In questi casi – si osserva - i due termini non assolvono alla medesima funzione: l’azione del curatore è ancora promuovibile in quanto non ancora spirato il termine massimo per il suo esercizio; tuttavia l’avvenuto decorso del termine quinquennale di prescrizione ex artt. 66 L.F. e 2903 c.c. espone il curatore al rischio che il convenuto, costituendosi tempestivamente, eccepisca la prescrizione estintiva ed eviti che il Giudice si pronunci sul merito della fondatezza dell’azione revocatoria ordinaria. Si rileva, pertanto, che in tali ipotesi, se si qualificasse come prescrizionale (anche) il termine di tre anni dalla data della dichiarazione di fallimento, esso non avrebbe alcuna portata applicativa, nemmeno teorica, in quanto sarebbe di fatto assorbito dalla prescrizione estintiva quinquennale (a decorrere dal compimento dell’atto revocabile concluso prima del periodo sospetto), sicché, anche se si fossero compiuti entrambi i termini prescrizionali al momento dell’esercizio dell’azione, l’eventuale eccezione di prescrizione sarebbe scrutinata già in ragione dell’avvenuto decorso del quinquennio dalla data dell’atto. Il Tribunale valuta, poi, il caso in cui il termine di prescrizione dell’atto revocabile ex art. 66 L.F., compiuto appena prima dell’inizio del periodo sospetto, si compia dopo la scadenza del detto termine triennale, rilevando come anche in tale ipotesi non sarebbe comprensibile qualificare il termine triennale dalla data di dichiarazione di fallimento come termine prescrizionale, non comprendendosi, infatti, le modalità in cui possono operare, sovrapponendosi l’un l’altro, due termini prescrizionali di durata diversa ed ancorati a diversi dies a quibus. In altri termini, ad avviso del Tribunale, la soluzione più appagante, allora, è che all’originario termine quinquennale di prescrizione ex art. 2903 c.c. decorrente dalla data di compimento dell’atto, compiuto poco prima dell’inizio del periodo sospetto e destinato, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, a spirare oltre il triennio dalla data del fallimento, si affianchi un nuovo e diverso termine, decadenziale, decorrente dalla data della dichiarazione di fallimento, destinato a compiersi nel triennio dalla dichiarazione stessa, entro il quale il curatore ha, a prescindere dal più lungo termine prescrizionale, il cui rispetto è comunque rimesso all’atteggiamento difensivo del convenuto, l’onere di promuovere l’azione revocatoria ex art. 66 L.F. Si osserva, poi, come l’approdo interpretativo non muti se si analizza il rapporto tra questo termine triennale e quello, destinato a compiersi prima, di cinque anni dalla data della loro conclusione con riferimento agli atti passibili di azione revocatoria fallimentare ex art. 69 (con riferimento esclusivamente agli atti gratuiti compiuti tra coniugi più di due anni prima della dichiarazione di fallimento) ed art. 69 bis, secondo comma, L.F., essendo impossibile, invece, che per quelli compiuti nei periodi sospetti dell’art. 67 L.F. i cinque anni dalla data degli atti ivi contemplati vadano a scadere in epoca antecedente rispetto alla scadenza del triennio dalla dichiarazione di fallimento. Il Tribunale afferma che anche il termine quinquennale previsto dal primo comma dell’art. 69 bis L.F. è, con riferimento alle sole azioni revocatorie fallimentari, un termine di decadenza e non di prescrizione, per i seguenti motivi. In primis, la prescrizione estintiva ha come presupposto l’inerzia del titolare e, dunque, se il termine di cinque anni dalla data dell’atto passibile di revocatoria fallimentare, fissato dal primo comma dell’art. 69 bis L.F., fosse un termine di prescrizione, si dovrebbe concludere che alla data dell’atto esisterebbe già un diritto da far valere e un soggetto che possa farlo valere. Si osserva che, invece, prima della dichiarazione di fallimento non esiste un tale diritto, né chi lo esercita, con la conseguenza che nel termine quinquennale dell’art. 69 bis, primo comma, L.F. non viene in rilievo una inerzia del curatore, perdurando la quale si giunge alla prescrizione delle azioni revocatorie fallimentari, in quanto tra la data del compimento dell’atto revocabile e la dichiarazione di fallimento (tra cui potrebbero intercorrere anche più di due anni, ex art. 69 L.F.) non vi è un curatore che possa esercitare l’azione, e di cui si possa predicare l’inerzia. Sulla base di tali argomenti, il Giudice partenopeo conclude affermando che il termine quinquennale di cui al primo comma dell’art. 69 bis L.F., con riferimento alle azioni revocatorie fallimentari, sia, anch’esso, al pari di quello triennale, un termine di decadenza. In definitiva, il curatore decade dall’azione revocatoria, sia essa ordinaria ex art. 66 L.F., sia essa fallimentare ex artt. 67, 69 e 69 bis, secondo comma, L.F., se essa non sia esercitata entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento, sempre che, con riferimento alla sola azione revocatoria fallimentare (per la quale non vale il termine di prescrizione previsto dagli artt. 66 L.F. e 2903 c.c.), non sia già decorso il termine di cinque anni dalla data dell’atto da revocare, perché altrimenti sarà questo termine che segnerà la decadenza dall’azione. Viene, a questo punto affrontata l’ulteriore questione di quale sia l’atto che impedisca il verificarsi della decadenza. Con riferimento alla prescrizione e ai diritti potestativi ad esclusivo esercizio giudiziale, che in campo processuale danno vita alle azioni costitutive c.d. necessarie, e che sono nominalmente assoggettati a prescrizione (azione di annullamento, azione di rescissione, azione di risoluzione del contratto, azione di riduzione, etc.), il Tribunale ritiene che essa sia interrotta solo con la proposizione della domanda che costituisce la modalità di esercizio dell’azione (art. 99 c.p.c.). Ciò in quanto, se in alcuni casi (es. azione di annullamento, di rescissione, revocatoria ordinaria, revocatoria fallimentare, riduzione, garanzia per vizi nella compravendita, risoluzione giudiziale del contratto) solo l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici (art. 2908 c.c.), è consequenziale ritenere che la prescrizione delle azioni costitutive che riflettono sul piano processuale i diritti potestativi ad esclusivo esercizio giudiziale sia interrotta solo dal compimento da parte dell’attore delle formalità necessarie ad adire l’autorità giudiziaria, mentre le formalità necessarie a garantire al convenuto la conoscenza effettiva o legale della domanda proposta al giudice appartengono alla diversa sfera degli atti tesi ad instaurare il contraddittorio con il convenuto (art. 101 c.p.c.; artt. 24, II comma e 111, II comma Cost.), il rispetto del cui principio è un vero e proprio requisito di legalità costituzionale del processo. Né, a parere di questo Giudice, la conclusione che il termine posto all’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari dall’art. 69 bis, primo comma, L.F. sia un termine di decadenza può ritenersi smentita dal disposto del primo comma dell’art. 95 L.F. (“…il curatore può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione”), riferendosi la norma, quando parla di prescrizione, al termine di prescrizione ex art. 2903 cc di cinque anni dell’azione revocatoria ordinaria ex art. 66 L.F. decorrente dalla data dell’atto. Ciò che poi rileva, secondo il Tribunale, è la circostanza che è stata posta la regola per la quale la consunzione del potere di agire in revocatoria ordinaria o fallimentare non impedisce al curatore di far valere l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione. Sicché, il fatto che il curatore possa sempre eccepire l’inefficacia del titolo su cui si basano le richieste del creditore in sede di verifica del passivo, anche se il potere di agire in revocatoria si sia consumato per il decorrere dei termini di cui all’art. 69 bis L.F., lascia concludere che quel potere di azione, seppur non modificabile pattiziamente quanto alle condizioni temporali del suo esercizio, non riguardi una materia di diritto sostanziale sottratta alla disponibilità delle parti ai sensi e per gli effetti dell’art. 2969 c.c., ditalché la decadenza dall’azione revocatoria del curatore non può essere rilevata d’ufficio dal Giudice (cfr., analogamente, in tema di impugnazione delle delibere condominiali, Cass. civ., sez. II, 28 novembre 2001, n. 15131, Cecconi  c.  Cond.  Via  Spartaco  24,  Milano). Ne deriva che i termini ex art. 69 bis L.F. sono termini alternativi che sanciscono una decadenza dall’azione revocatoria fallimentare in capo al curatore, che però non può essere rilevata d’ufficio dal Giudice. Quanto all’atto necessario e sufficiente per interrompere la decadenza dall’azione revocatoria ex art. 69 bis L.F., ritiene il Tribunale che esso possa essere individuato nel compimento da parte dell’attore, entro il termine previsto per l’esercizio dell’azione, di tutto quanto è in suo potere e ricada sotto la sua responsabilità per iniziare il giudizio. In altri termini, la decadenza dall’azione revocatoria ex art. 69 bis L.F. è impedita con il compimento dell’atto che determina la litispendenza. In conclusione, il Tribunale, sulla base di questo articolato iter motivazionale, giunge ad affermare come, nel caso in esame, essendosi ricostruito il termine triennale ex art. 69 bis L.F. come termine di decadenza, vista la contumacia della convenuta, la decadenza dall’azione costitutiva necessaria esperita non possa essere rilevata d’ufficio dal Giudice, pur essendo stato l’atto introduttivo di citazione consegnato all’ufficiale giudiziario, non scusabilmente, oltre i tre anni dalla dichiarazione di fallimento, per cui, esaminato il merito della controversia e ritenuta la stessa fondata, il Tribunale ha accolto la domanda. Con la sentenza in esame, il Tribunale di Napoli è ritornato sulla questione interpretativa concernente la natura del termine triennale previsto dal primo comma dell’art. 69 bis, giungendo ad affermare, con una ricchezza di complessi argomenti logici e di diritto, trattarsi di un termine di decadenza. Si segnala che la questione, in alcun modo pacifica, è stata recentemente affrontata da altra pronuncia del Tribunale di Napoli (Tribunale di Napoli, sezione fallimentare, dott. Stanislao De Matteis - 30 Aprile 2013 -) che, sulla base di un diverso iter argomentativo, è giunta a conclusioni di segno opposto....

ANATOCISMO: l’azione di mero accertamento del saldo e l’immutabilità della natura “ripristinatoria” o “solutoria” delle rimesse

Ven, 16/05/2014 - 17:07
A seguito del noto e dirompente intervento interpretativo della Suprema Corte di cui alla sentenza 24418/2010, i clienti delle Banche che intendono contestare, in relazione a rapporti di conto corrente,  l’applicazione di interessi anatocistici o altre condizioni contrattuali reputate illegittime, formulano oggi ricorrentemente una domanda diversa da quella di ripetizione dell’indebito in senso stretto (domanda di condanna): chiedono, cioè, la ri-quantificazione del saldo del rapporto (domanda di accertamento, cioè “ripristinatoria” e non “ripetitoria”), epurato da tutti gli addebiti ritenuti illegittimi, formulando, però, spesso contestualmente una domanda di condanna della Banca alla restituzione dell’eventuale saldo a credito derivante dalla ri-quantificazione. Tale tipo di domanda, per la stessa citata sentenza della Corte di Cassazione, non sarebbe soggetta a limiti prescrizionali. Non è pertanto ardimentoso affermare che, attraverso la sua proposizione, i clienti mirano ad aggirare gli oneri allegatori e probatori e le pesanti limitazioni temporali che potrebbero derivare dalla proposizione, ormai nettamente desueta, della diversa domanda di ripetizione. Quest’ultima domanda dovrebbe oggi necessariamente dirigersi verso i pagamenti avvenuti in conto degli interessi contestati, non essendo più proponibile e coltivabile, come noto, una richiesta di ripetizione riguardante gli addebiti sul conto conseguenti alle condizioni contestate.   Gli attori potrebbero però andare incontro al rischio processuale di vedersi eccepire la prescrizione in relazione ai pagamenti di cui non fosse dimostrata la natura “ripristinatoria”; al contempo, qualora venisse appurata processualmente l’esistenza di un affidamento, potrebbero sentirsi contestare che, in relazione alle rimesse intervenute a fronte di una esposizione non demarginante il limite dell’affidamento, nessun diritto alla relativa ripetizione potrebbe esser loro riconosciuto, difettando tali rimesse del requisito della “solutorietà” e non essendo quindi le stesse qualificabili come pagamenti. Sono concetti questi ampiamente e chiaramente illustrati dalla Corte di legittimità con la sentenza in commento, così sinteticamente riassumibili: a).gli addebiti per interessi e commissioni indebitamente effettuati non sono ripetibili, comportando semplicemente un incremento del debito del correntistia o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone; b).solo le rimesse che hanno pagato tali addebiti sono ripetibili, a condizione che le stesse abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale a favore della banca; non lo sarebbero, pertanto, i versamenti intervenuti in un momento in cui il passivo del conto non superava  il limite dell’affidamento concesso al cliente (rimessa “ripristinatoria”, diversa da quella “solutoria”); c).in presenza di rimesse meramente “ripristinatorie” il cliente è legittimato esclusivamente a contestare il saldo finale del conto, nella misura in cui lo stesso sia viziato da interessi non dovuti, e nel caso in cui lo abbia già saldato, la prescrizione decorrerà dal relativo pagamento; d).la differenziazione tra rimesse “solutorie” e “ripristinatorie”, pertanto, rileva non solo ai fini della decorrenza del termine prescrizionale della relativa azione di ripetizione (dalla effettuazione della rimessa nel primo caso, dal pagamento del saldo finale di chiusura del conto nel secondo caso) ma ancor prima al fine degli effetti ripetitori della domanda: la rimessa “solutoria”, rappresentando un atto dispositivo,  è ripetibile per l’intero, quella “ripristinatoria” non è ripetibile se non entro il limite (del pagamento) del saldo finale del conto. Il concetto di cui ai punti c) e d), per quanto chiaramente illustrato dalla Suprema Corte, non pare correttamente interpretato nella prassi o, comunque, non ne risultano colte appieno tutte le implicazioni. Vediamo, in primo luogo, perché lo stesso sia agevolmente enucleabile dalla sentenza 24418/2010 della Corte di Cassazione. Appare sufficiente, a tal fine, la lettura delle pagg. 13 e 14 della sentenza:  “Un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà d’indebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”. Da notare che la Corte, avendo ovviamente ben presente che l’accertamento della eventuale natura indebita della esazione del saldo finale del conto presuppone la preventiva ri-quantificazione di quest’ultimo, ha testualmente limitato il diritto di ripetizione del correntista al saldo risultante dalla contabilità della banca, ignorando l’ipotesi che dalla ri-quantificazione possa scaturire, anziché un minor debito, un saldo a credito a favore del cliente. Le rimesse “ripristinatorie”, pertanto, come cercheremo di spiegare in seguito, non divengono “solutorie” e, quindi, ripetibili, per effetto della chiusura del conto, il cui saldo finale fornisce la misura massima dell’indebito accertabile. La situazione, ovviamente, non dovrebbe mutare ove il cliente, vistosi richiedere il pagamento del saldo, anziché pagarlo e poi promuovere azione per ripeterlo, formuli domanda finalizzata all’accertamento della sua legittimità (cioè una domanda di “ri-quantificazione” nel senso sopra descritto): anche in tal caso, per logica coerenza con quanto affermato dalla Corte a proposito dell’ipotesi in cui lo abbia già pagato, l’attore dovrebbe poter beneficiare al massimo del suo azzeramento. Il concetto, dunque, discente de plano dalla stessa linea argomentativa tracciata dalla Suprema Corte. La sua applicazione, tuttavia, non preoccupa apparentemente i “contendenti” nelle cause per interessi e anatocismo, oggi assorbite, come detto, dalla diversa questione della rideterminazione del saldo finale del rapporto epurato dagli addebiti non legittimi. Infatti, la sensazione diffusa è che non abbia senso apparente preoccuparsi dei limiti ripetitori di un versamento quando a esser posto in discussione non è il versamento stesso, ma l’addebito (di cui si invoca l’illegittimità) che vi ha dato causa. Alla luce di quanto illustrato, tuttavia, tale interpretazione parrebbe in contrasto con il lucido e chiaro insegnamento della Corte, oltre che con le regole dell’Ordinamento e della stessa logica. Sul piano delle regole,  è principio a dir poco pacifico che tra la valutazione della validità di una obbligazione e la verifica della ripetibilità del relativo adempimento esiste una interdipendenza solo funzionale nel senso che, se è vero che l’invalidità della obbligazione può essere causa della ripetizione dell’adempimento (facendolo divenire indebito) è altrettanto indubbio che la ripetibilità di quest’ultimo soggiace a regole sue proprie e non discende automaticamente dall’accertamento della invalidità della obbligazione. Una evidente applicazione di questo concetto è data dall’art. 1422 c.c. che scinde appunto la prescrizione dell’azione di nullità da quella relativa all’azione di ripetizione dell’indebito (l’imprescrittibilità della prima non condiziona la prescrizione dell’altra). Del resto, come detto, è la stessa Suprema Corte, nella sentenza più volte richiamata, a porre in evidenza tale concetto: “Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto alla ripetizione. Né tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicché questa Corte ha già in passato chiarito che, con riferimento a quest’ultima domanda, il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso: Cass. 13 aprile 2005, n. 7651”. La ripetizione dell’adempimento, pertanto, soggiace a regole sue proprie e non è condizionata – se non in rapporto di causa/effetto – dall’accertamento della nullità della obbligazione che le ha dato causa. Scendendo sullo specifico campo del conto corrente, non si comprende allora, perché, se una rimessa bancaria è, per motivi giuridici suoi propri, non ripetibile (ad esempio perché non “solutoria”), lo debba divenire a seguito dell’accertamento della invalidità del relativo titolo giustificativo. In tema di prescrizione, per esempio, la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza 9/4/2003 n. 5575, ha stabilito espressamente: “in materia contrattuale, deve escludersi la permanenza di un interesse all’accertamento e alla declaratoria di nullità di un contratto quando risulti ormai prescritta l’azione di ripetizione della prestazione in base ad esso eseguita”. Ciò dimostra intanto la giuridica fondatezza dell’eccezione di prescrizione che le banche formulano a fronte delle domande di ri-quantificazione avanzate dai clienti, tesa ad evitarne gli effetti in relazione agli addebiti illegittimi saldati con rimesse prescritte (salvo verificare, ma non è questa la sede, su chi gravi il relativo onere probatorio). La portata dirompente, ma assolutamente logica, dell’enunciato principio, dovrebbe però cogliersi in rapporto all’eccezione, che quasi sempre gli attori fanno per aggirare l’eccezione di prescrizione della banca, della natura affidata del rapporto e della conseguente efficacia meramente “ripristinatoria” di tutte le rimesse, onerando della prova contraria la convenuta (di impossibile assolvimento nel caso in cui nessun affidamento fosse stato contrattualizzato). Non è infrequente, in proposito, che il Giudice qualifichi assurdamente il rapporto come assistito da un “fido di fatto” giuridicamente opponibile e ridetermini il saldo sulla base delle risultanze della CTU fondate sulla natura “ripristinatoria” di tutte le rimesse intercorse sul conto. Poiché, quasi sempre, da questa rideterminazione discende l’accertamento di un saldo creditore del conto – spesso rilevantissimo, stante l’inoperatività della prescrizione – a favore del cliente, vi è legittimamente da domandarsi se questo ragionamento non contrasti con i principi appena illustrati. Abbiamo visto, infatti, che l’unico oggettivo parametro di contestazione nel caso di rimesse meramente “ripristinatorie” dovrebbe essere il saldo finale del conto risultante dalla contabilità della banca che, se pagato, fonderebbe un corrispondente diritto ripetitorio in capo al cliente (nella misura in cui, ovviamente, quel saldo fosse viziato da addebiti illegittimi). Si è inoltre dimostrato che la situazione non muta nel caso in cui il cliente eviti di pagare e proponga anticipatamente una azione volta ad accertare la legittimità del saldo del conto. E’ opportuno precisare che gli effetti sarebbero gli stessi nel caso in cui tale azione di accertamento fosse proposta in costanza di rapporto e, quindi, prima della sua chiusura; anche su questo specifico punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la più volte richiamata sentenza 24418/2010, ha stabilito: “Sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede un’apertura di credito, allo scopo di recuperare una maggior disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo”.  Abbiamo altresì visto che un versamento, se irripetibile per ragioni giuridiche sue proprie, non diviene ripetibile per effetto dell’accertamento della invalidità del suo titolo giustificativo; se quindi, il versamento era “ripristinatorio” e, quindi, privo del carattere della “solutorietà”, nessuna utilità giuridica dovrebbe avere l’eventuale accertamento della sua non debenza, stante la sua innata e originaria irripetibilità. Ciò perché appare priva di senso logico e giuridico una azione finalizzata all’accertamento del fondamento indebito di un versamento privo di natura “solutoria”. Conseguentemente, sarebbe illogica una condanna della banca di retrocessione al cliente dell’eventuale saldo divenuto creditore a seguito del ricalcolo, poiché tale inversione di segno (da – a +) del saldo sarebbe esclusivamente dovuta alle rimesse intercorse in costanza di fido nel corso del rapporto, che si “bilanciavano” con gli addebiti per interessi accertati come illegittimi e che diventerebbero “solutorie” solo ex post; il rischio massimo per la banca dovrebbe essere rappresentato esclusivamente dall’azzeramento integrale del saldo debitore del conto. Giova, in proposito, il richiamo ai principi enucleati negli anni dalla giurisprudenza in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. Sappiamo in proposito che, se una rimessa non è revocabile perché intercorsa in pendenza di fido, non lo è mai, neppure all’esito della chiusura del rapporto; traslando il principio nella fattispecie in esame, sarà il saldo finale del conto a rappresentare la misura massima del beneficio fruibile dal cliente con l’azione di ri-quantificazione, con un duplice ordine di conseguenze: 1).se il conto non è stato ancora saldato alla data di notifica della citazione, la domanda di accertamento tendente alla ri-quantificazione non potrebbe spingersi oltre l’azzeramento di quel saldo;  2).se, viceversa, il conto è chiuso ed è stato già saldato prima della introduzione della causa, gli effetti restitutori della ri-quantificazione non potrebbero sopravanzare detto saldo. Potrebbe essere obiettato, in proposito, che la valutazione della pertinenza delle rimesse va fatta solo all’esito della declaratoria di nullità con la conseguenza che, tolto il titolo che aveva dato causa alla rimessa - rendendola al tempo stesso non ripetibile perché “ripristinatoria” - questa va a comporre una frazione della disponibilità del correntista che, pertanto, all’esito dell’accertamento della nullità, potrà disporne nei limiti del saldo creditore ri-quantificato. Questa obiezione non convince, se non altro perché urta contro il pacifico orientamento giurisprudenziale – recepito, come visto, anche da Cass. 24418/2010 – in base al quale la prescrizione dell’azione di ripetizione non decorre dalla sentenza accertativa della nullità ma dalla data di effettuazione della rimessa, se “solutoria” e, quindi, dal pagamento effettuato. E’ quindi il momento dell’effettuazione della rimessa e del relativo contesto contabile quello da prendere a riferimento per verificare la ripetibilità della stessa.  Il ragionamento contrario, peraltro, dimostra proprio la correttezza logica della tesi fin qui illustrata.  Chi sostiene infatti la necessità della preventiva sottrazione dal conto degli addebiti illegittimi lo fa al fine di dimostrare che la prescrizione non è maturata, perché le rimesse sarebbero state solo formalmente “solutorie” ma effettivamente “ripristinatorie”: ma allora esse non sarebbero pagamenti e la loro conseguente “irripetibilità” impedirebbe alle stesse di andare a comporre il saldo finale creditore del conto ri-quantificato. In pratica - e conclusivamente - tutto a nostro avviso si spiega sulla base del chiaro e semplice sillogismo sotteso alla sentenza 24418/2010 della Suprema Corte, confermato dalle sentenze successive, tra cui la n. 4518/2014: a).non può darsi ripetizione di ciò che non è “solutorio”; b).solo ciò che è “solutorio” si prescrive; c).ciò che non si prescrive non è ripetibile. Pertanto, traslando la regola sul piano del processo, non si potrà escludere la “solutorietà” delle rimesse per sostenere l’imprescrittibilità dell’azione e subito dopo riaffermarla per ottenerne la ripetizione, sia pure in modo indiretto  attraverso la ri-quantificazione a credito (o a maggior credito) del saldo del conto. Avv. Daniele Peccianti                                                         Avv. Fausto Magi...

ANATOCISMO: solo i versamenti solutori sono da considerarsi pagamenti suscettibili di ripetizione

Ven, 16/05/2014 - 16:45
Se le rimesse sono ripristinatorie la banca non può eccepire la prescrizione ma la domanda di ripetizione – anche se del saldo creditore riquantificato dal CTU a seguito della espunzione degli addebiti illegittimi – non può essere accolta. Lo afferma il Tribunale di Lucca con la sentenza 542 del 7/04/2014(Giudice Dott. Mondini) sul presupposto, peraltro pacifico in base a Cass.SS.UU. 24418/2010, che i versamenti ripristinatori, cioè intercorsi in presenza di una esposizione coperta da affidamento, non sono pagamenti. La pronuncia, che appare perfettamente coerente con l’insegnamento delle SS.UU.  e con i successivi interventi interpretativi della Corte di Cassazione (in particolare sentenza  798/2013), introduce un principio innovativo in campo giurisprudenziale, ove il dibattito sulla individuazione del soggetto onerato della prova della natura “solutoria” dei versamenti ha portato a dimenticare che la differenziazione tra rimesse “solutorie” e rimesse “ripristinatorie” rileva, ancor prima che sul piano della prescrizione dell’actio indebiti, su quello della ripetibilità dei versamenti stessi. L’esempio più eclatante di ciò è dato proprio da Cass. 4518/2014 che, cassando per l’appunto una sentenza del Tribunale di Lucca (la n. 89/2007), è intervenuta proprio sullo specifico ambito della decorrenza della prescrizione dell’actio indebiti precisando che, in applicazione di Cass. SS.UU. 24418/2010, in assenza di prova contraria da parte della banca convenuta, i versamenti debbono intendersi come tutti ripristinatori (con la conseguente decorrenza della prescrizione dalla esazione del saldo finale del conto da parte della Banca). Tale intervento interpretativo (motivato, come detto, solo dalla esigenza di individuare il dies a quo della prescrizione) è utilizzato nella prassi dagli attori per respingere l’eccezione di prescrizione della Banca, assumendo la natura affidata del rapporto e sostenendo essere gravata la convenuta dell’onere di dimostrare l’intervenuto pagamento - mediante rimesse “solutorie” intercorse prima del decennio antecedente l’atto interruttivo della prescrizione -  degli addebiti per interessi illegittimi. La sentenza in commento del Tribunale di Lucca ha ricondotto la questione entro il corretto quadro interpretativo tracciato dalle SS.UU., alle quali, peraltro, anche la sentenza  4518/2014 si ispira. Se, per effetto degli accertamenti processuali e delle conseguenze applicative delle regole sull’onere della prova, le rimesse debbono qualificarsi come “ripristinatorie” (peraltro in conformità a quanto affermato da parte attrice), non potrà esservi spazio per una azione ripetitoria giuridicamente intesa. E tale è anche quella finalizzata, come nel caso esaminato dal Tribunale di Lucca, a ripetere il saldo creditore derivante dalla riquantificazione operata dal CTU (o la differenza tra il saldo ricalcolato e quello antecedente al ricalcolo, se già creditore). Quindi, in presenza di rimesse accertate come tutte “ripristinatorie” dovrebbe essere inaccoglibile una richiesta di condanna della banca alla retrocessione del saldo divenuto creditore a seguito del ricalcolo chiesto al CTU (o della differenza tra il saldo ricalcolato e quello eventualmente creditore precedente al ricalcolo), poiché l’ inversione di segno (da – a +) o l’incremento del saldo sarebbero dovuti esclusivamente ai versamenti ripristinatori intercorsi in costanza di fido nel corso del rapporto, che diverrebbero “solutori” (cioè ripetibili) solo ex post, proprio a seguito del ricalcolo. In pratica, la sentenza in commenti del Tribunale di Lucca sembra operare un una corretta applicazione del sillogismo sotteso alla sentenza 24418/2010 della Suprema Corte, confermato dalle sentenze successive, tra cui la n. 4518/2014: a)non può darsi ripetizione di ciò che non è “solutorio”; b)solo ciò che è “solutorio” si prescrive; c)ciò che non si prescrive non è ripetibile....

SRL: NON PUÒ ESSERE CANCELLATA D'UFFICIO DAL REGISTRO DELLE IMPRESE

Ven, 16/05/2014 - 16:45
L'istituto della cancellazione d'ufficio dal registro delle imprese non è alfine utilmente invocabile quando si discorra dell'adempimento pubblicitario della cancellazione della società ai sensi dell'art. 2495 cc, perché questo adempimento, legato all'approvazione del bilancio di liquidazione, rappresenta l'epilogo della vicenda societaria e segna di questa il momento estintivo. Un simile adempimento è rimesso unicamente ai liquidatori, per l'ovvia ragione che da tale momento, per le obbligazioni sociali insoddisfatte, risponderanno i soci, o i liquidatori stessi, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9007 del 18 aprile 2014 in merito alla sussistenza o meno dell'obbligo di pagamento del tributo annualmente dovuto per l'iscrizione nel registro delle imprese. Nel caso di specie, una società a responsabilità limitata aveva infatti proposto opposizione avverso una cartella di pagamento con cui la Camera di Commercio di Bari aveva richiesto il versamento della somma dovuta a titolo di diritto camerale. L'opposizione fu accolta sia in prima che in seconda istanza dai giudici tributari poiché la ricorrente aveva - da tempo - provveduto a depositare il bilancio finale di liquidazione, sebbene non fosse stata disposta la cancellazione dal registro delle imprese. La Commissione tributaria regionale evidenziò tuttavia che la cancellazione dal registro delle imprese avrebbe comunque dovuto essere eseguita d'ufficio a fronte della messa in liquidazione della società.. L'ente creditore ha quindi proposto ricorso per cassazione contestando - in particolare - la violazione o la falsa applicazione dell'art. 2495 cc e dell'art. 2491 cc. Si rammenta che secondo quanto previsto dall'art. 2191 cc, il giudice del registro può ordinare la cancellazione d'ufficio in presenza di una iscrizione irregolare perché avvenuta in assenza della condizioni richieste dalla legge. A ciò si aggiunte il fatto che una iscrizione può essere disposta d'ufficio a norma dell'art. 2190 cc soltanto nel caso in cui si tratti di una iscrizione obbligatoria e venga disposta su ordine del giudice del registro. L'art. 2191 cc va però anche coordinato con quanto disposto dal DPR 23 luglio 2004 n. 247 che prevede un procedimento specifico per l'iscrizione d'ufficio della cancellazione dal registro delle imprese di determinate tipologie di imprenditori: imprenditori individuali, imprese artigiane e società di persone. Non si deve inoltre tralasciare il fatto che la cancellazione d'ufficio dal registro di dette imprese può essere disposto a norma del DPR 23 luglio 2004, n. 247 soltanto in presenza di specifiche condizioni. Per quanto concerne le imprese individuali, la cancellazione d'ufficio è infatti disposta per il decesso o l'irreperibilità dell'imprenditore o per il mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi oppure per la perdita dei titoli autorizzativi o abilitativi all'esercizio dell'attività dichiarata. La cancellazione d'ufficio delle società di persone può essere invece ordinata nel caso di irreperibilità presso la sede sociale, mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi, mancanza del codice fiscale, mancata ricostituzione dei soci nel termine di tre mesi o decorrenza del termine di durata in assenza di proroga tacita. I requisiti previsti per la cancellazione d'ufficio delle imprese individuali e delle società di persone trovano applicazione anche con riferimento alle imprese artigiane a seconda della propria forma giuridica. La disciplina prevista dal DPR 23 luglio 2004 n. 247 non può pertanto trovare applicazione per una tipologia indistinta di imprese. Alla luce del quadro normativo sopra richiamato, i giudici di legittimità hanno indi ritenuto errata l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il deposito del bilancio di liquidazione avrebbe dovuto determinare come conseguenza la cancellazione d'ufficio della società. La cancellazione della società così come regolata dall'art. 2495 cc non può dunque dirsi collegata all'istituto della cancellazione d'ufficio dal registro delle imprese ex art. 2191 cc. Ciò in ragione del fatto che la cancellazione della società ex art. 2495 cc è un adempimento che deve essere svolto dai liquidatori dopo aver approvato il bilancio finale di liquidazione, la cui deliberazione costituisce il momento estintivo della società stessa. Con la cancellazione della società infatti i creditori sociali non soddisfatti possono - a norma dell'art. 2495, comma 2, cc - far difatti valere i loro crediti sia nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione sia nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. La Corte di Cassazione ha pertanto evidenziato che nonostante la società avesse depositato il bilancio finale di liquidazione non era stata tuttavia cancellata dal registro delle imprese da parte dei liquidatori ai sensi dell'art. 2495 cc, donde la stessa non poteva essere cancellata d'ufficio e doveva ritenersi obbligata alla liquidazione del diritto camerale....

DERIVATI: la dichiarazione di operatore qualificato esime l’intermediario dagli obblighi informativi

Ven, 16/05/2014 - 08:57
In tema di contratti di intermediazione mobiliare, ai fini dell'appartenenza del soggetto, che stipula il contratto con l'intermediario finanziario, alla categoria degli operatori qualificati, è sufficiente l'espressa dichiarazione per iscritto da parte dello stesso di disporre della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari - ai sensi dell'art. 13 del regolamento Consob approvato con delibera 2 luglio 1991 n. 5387 - la quale esonera l'intermediario dall'obbligo di ulteriori verifiche, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in suo possesso. Salvo allegazioni contrarie in ordine alla discordanza tra contenuto della dichiarazione e situazione reale, tale dichiarazione può costituire argomento di prova che il giudice può porre alla base della propria decisione, art. 116 c.p.c., anche come unica fonte di prova, restando a carico di chi detta discordanza intenda dedurre l'onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza da parte dell'intermediario delle circostanze medesime o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro.  La ratio della normativa è quella di richiamare l’attenzione del cliente circa l'importanza della dichiarazione ed a svincolare l'intermediario dall'obbligo generalizzato di compiere uno specifico accertamento di fatto sul punto, tenuto anche conto che nella disposizione in esame non si rinviene alcun riferimento alla rispondenza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione di fatto effettiva e non è previsto a carico dell 'intermediario alcun onere di riscontro della veridicità della dichiarazione, riconducendo invece alla responsabilità di chi amministra e rappresenta la società dichiarante gli effetti di tale dichiarazione. Sono questi i principi di diritto ribaditi, sulla scorta di consolidata giurisprudenza, dal Tribunale di Torino, in persona del dott. Giovanni Liberati, con la sentenza n.3462 del 13 maggio 2014, intervenendo con argomentazioni ampie e precise su un tema di spiccata attualità, al centro di un vasto contenzioso tra clienti ed istituti di credito. Punto nevralgico della pronuncia, la questione circa la sussistenza, la veridicità e gli effetti della dichiarazione di “operatore qualificato”. L’attuale contesto normativo, infatti, è incentrato sul sistema della “graduazione della tutela”, tale che le regole di comportamento degli intermediari devono diversamente atteggiarsi, a seconda delle diverse esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale dei medesimi (art. 6, co. 2 del TUF). Sul punto, può essere utile ricordare il principio espresso dalla Corte di legittimità, nella prima pronuncia sulla questione del valore della dichiarazione di essere operatore qualificato rilasciata dal legale rappresentante della società o persona giuridica. Trattasi della sentenza n.12138 del 26 maggio 2009, richiamata espressamente dal Tribunale piemontese. In essa, gli Ermellini hanno chiarito che “la natura di operatore qualificato discende dalla contemporanea presenza di due requisiti: uno di natura sostanziale, vale a dire l'esistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari in capo al soggetto (società o persona giuridica); l'altro, di carattere formale, costituito dalla espressa dichiarazione di possedere la competenza ed esperienza richiesta, sottoscritta dal soggetto medesimo”. Quanto alla pronuncia qui in esame, la vicenda trae origine dalla domanda con la quale una società ha convenuto in giudizio la banca con la quale aveva stipulato (e successivamente rimodulato) contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari c.d. “derivati”, deducendone la nullità, in quanto strutturati in modo da generare sicuri vantaggi economici per la banca e sicure perdite per la attrice, nonché chiedendo la risoluzione ed il risarcimento dei danni, per violazione di tutti gli obblighi di comportamento posti a carico degli intermediari finanziari dalla normativa di settore e degli obblighi generali di correttezza e buona fede stabiliti dal codice civile, eccependo vieppiù l’inadeguatezza degli strumenti rispetto alle proprie esigenze. Dal proprio canto, la convenuta Banca, ha contestato tutti gli addebiti, ricostruendo diversamente i fatti ed avvalendosi delle dichiarazioni testimoniali dei propri funzionari, direttamente interessati nella vicenda. All’esito di una complessa istruttoria, il Tribunale si è soffermato, in parte motiva, preliminarmente sul concetto di “swap”, identificato come strumento derivato che consiste nello scambio di flussi di cassa tra due controparti. A tal riguardo, questione assai dibattuta è quella relativa al se tale contratto derivato sia o meno sorretto da una causa e se tale causa sia “meritevole” ex art.1322 cc.  In dottrina ed in giurisprudenza si è spesso sostenuto – anche di recente – la nullità per asserita mancanza dell’elemento causale, almeno ogniqualvolta l’alea che contraddistingue tale tipo di contrattazione manchi, ovvero sia soltanto “unilaterale”(*). A tale precisa contestazione, il Giudice torinese ha risposto, analizzata la situazione di fatto sulla base delle risultanze processuali, non ritenendo ravvisabile la dedotta nullità per mancanza di causa, per effetto della asserita (preventivata) assenza di rischio per la banca e, dunque, di alea, e rinvenendo nel contratto stipulato lo schema “tipico” dello SWAP, più volte ritenuto valido, lecito e ammissibile, consiste nello scambio fra le parti, in relazione ad un importo di riferimento dell'andamento dei due tassi (“il cui andamento non era noto a priori, con la conseguenza che non pare condivisibile l'affermazione della attrice circa l'insussistenza di alea o rischio per la banca”). Disattesa tale doglianza, il Giudice si è soffermato sulla veridicità ed effettività della dichiarazione di “operatore qualificato”, ritenendo provato il fatto che essa fosse stata resa consapevolmente (vale a dire previa idonea informativa da parte della Banca, nonché nell’assenza di ulteriori elementi dai quali potesse evincersi la natura “non qualificata” del cliente), validamente, per iscritto e, per di più, confermata a più riprese, nel corso delle varie rinegoziazioni del contratto originario, nonché dell’acquisto di ulteriori strumenti finanziari derivati. Una tale prova è stata raggiunta mediante le dichiarazioni degli stessi funzionari della Banca che avevano posto in essere materialmente le negoziazioni, smentendo – di fatto – la prospettazione di parte attrice e confermando la condotta ineccepibile dell’istituto di credito. Infatti, confermando l’orientamento giurisprudenziale dominante, tale dichiarazione esime l'intermediario finanziario dagli OBBLIGHI INFORMATIVI di cui agli articoli 27, 28, 29 e 30, comma 1, del regolamento Consob n.11522 del 1998 ("A eccezione di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge e salvo diverso accordo tra le parti, nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1, fatta eccezione per il servizio di gestione, e COMMI e 3, 32, commi 3 ,4 e 5, 37, fatta eccezione per il comma 1, lettera d), 38, 39, 40, 41, 42, 43, comma 5, lettera b), comma 6, primo periodo, comma 7, lettere b) e c), 44, 45, 47, comma 1, 60, 61 e 62.", così il primo comma dell'art. 31 del suddetto regolamento Consob”). Né sull’intermediario grava alcun obbligo di verificare la corrispondenza della situazione di fatto a quanto formalmente e consapevolmente dichiarato, spettando al cliente l’onere della prova contraria, a meno di eventuali discordanze emergenti ictu oculi dalle informazioni in possesso dell’istituto. Per tali ragioni, richiamando i principi di diritto sopra enucleati, il Tribunale ha disatteso la domanda di parte attrice, condannandola alla rifusione delle spese e ponendo così un chiaro limite ai tentativi di rivalersi nei confronti dell’istituto di credito, ogniqualvolta la contrattazione in strumenti derivati – effettuata nella piena consapevolezza del rischio assunto e con l’assistenza informativa dovuta dall’intermediario, nei limiti previsti dalla legge per ciascuna categoria di clienti – si risolva, per l’acquirente, in gravi perdite finanziarie, dovute all’andamento sfavorevole dei tassi o delle valute di riferimento. (*) Tale tesi è stata di recente smentita, tra gli altri, dal Tribunale di Torino, con un’interessante pronuncia già oggetto di commento su questa rivista (Sentenza - Tribunale di Torino, Dott.ssa Silvia Vitro - 24-04-2014 - n.2976  )....

BORSA: la consegna dei codici di accesso "on line" al promotore esclude la responsabilità della banca

Gio, 15/05/2014 - 17:09
La responsabilità solidale della società di intermediazione mobiliare per i danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, va esclusa allorquando la condotta del danneggiato presenti connotati di "anomalia", vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, palesata da elementi presuntivi.   La consegna, ad un consulente finanziario dei propri codici di accesso ai servizi di banca "on line", integra un comportamento anomalo.   Cosi si è pronunziata la Corte di Cassazione, prima sezione con la sentenza del 13-12-2013, n.27925, con la quale ha respinto il ricorso di un cliente il quale illegittimamente intendeva far ricadere sulla SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE il rapporto intercorso con il promotore finanziario.   Nel caso di specie, era accaduto che alcuni clienti avevano conferito mandato personale ad un promotore finanziario per operare sul proprio conto bancario in via esclusiva, al di fuori di ogni eventuale rapporto di questi con la SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE, e che, per questo fatto, gli era stato riconosciuto un compenso ad personam.   Tanto era avvenuto in quanto i clienti avevano consegnato i codici di accesso ai servizi on line, conferendo, in merito agli stessi, personalmente ed esclusivamente al promotore l'equivalente di un incondizionato mandato ad operare, il che significa che essi avevano trasferito al promotore il personale ed esclusivo potere di disporre del proprio denaro.   La Corte, accertata la consapevolezza da parte dei clienti della anomalia nella gestione del proprio conto, da essi stessi avallata, escludeva ogni concorrente responsabilità della SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE e dei suoi procacciatori.   In conclusione la consegna al promotore dei codici di accesso ai servizio banca on line rappresenta un comportamento anomalo che esclude la banca da qualsivoglia responsabilità.   Per approfondimenti in materia si veda: HOME BANKING: L’INTERMEDIARIO FINANZIARIO NON RISPONDE IN SOLIDO DELL’ILLECITO DEL PROMOTORE INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA – CASI DI RESPONSABILITÀ ESCLUSIVA DEL PROMOTORE Sentenza | Cassazione civile, sezione terza | 04-03-2014 | n.5020    ...

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