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CONVEGNO: INTERESSI CORRISPETTIVI E MORATORI USURA NEI CONTRATTI DI MUTUO

Gio, 15/05/2014 - 15:01
Intervento Avv. Francesco Fiore del foro di Avellino La problematica sulla natura usuraria del tasso di interesse moratorio è da poco divenuta di grande attualità. Questa problematica è stata sollevata dalla lettura della sentenza n. 350/2013 della Suprema Corte di Cassazione che afferma il seguente principio: ” ai fini dell’applicazione dell’art.1815 c.c. e dell’art. 644 c.p. si considerano usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo e quindi anche a titolo di interessi moratori”. Se a qualunque titolo– osserva la Cassazione – allora anche a titolo di mora. Alla luce di questo principio, una corrente di pensiero sostiene che per la verifica del superamento del c.d tasso soglia occorre sommare il tasso degli interessi corrispettivi con il tasso degli interessi moratori. E’ quindi sufficiente compiere “l’operazione aritmetica di sommare la cifra che indica il tasso di mora con la cifra che indica il tasso corrispettivo, confrontare tale somma aritmetica con il tasso soglia del periodo e, da tale confronto, ricavare l’effetto giudico dell’azzeramento di entrambi gli interessi”. Poiché tale somma è normalmente superiore al limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è palese l’effetto concreto di questo principio:  - la clausola sarebbe nulla;  - non dovrebbero applicarsi interessi di alcun tipo;  - quelli già versati  andrebbero restituiti, mentre quelli ancora da corrispondere non sarebbero più dovuti; - il mutuante deve restituire gli interessi ricevuti ed il mutuatario deve pagare  solo la quota capitale. Invero l’art.1815 c.c. comma 2 prevede la sanzione della riduzione a zero degli interessi: “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” così dispone la norma. Quindi, questa corrente di pensiero consente di aprire un filone contro il ceto bancario; tutti gli avvocati si attivano per iniziare il giudizio previo una consulenza tecnica che calcoli gli interessi pagati e che vanno restituiti.    Consentitemi di dire che ragionando così si crea un danno al cliente e lo si espone ad una condanna alle spese che può essere rilevante e non sostenibile. Il Tribunale di Trani, ad esempio, con una decisione che riprenderemo infra, ha condannato il mutuatario a pagare la somma di € 10.000,00. A mio avviso è onere dell’avvocato esporre le motivazioni in diritto del suo agire; non è ammissibile dire che gli interessi corrispettivi vanno sommati agli interessi moratori; occorre anche formulare le motivazioni; non è sufficiente richiamare la sentenza 350/13; “nell’ attuale sistema processuale ciò che si richiede alla parte è di spiegare gli argomenti di fatto, logici e giuridici della propria pretesa al fine di far valutare la propria domanda; e tanto non si realizza con la sola invocazione di una autorevole pronuncia” ( Tribunale di Trani del  10.3.2014). Comunque prima di questa sentenza 350/2013, era opinione pacifica che, al fine di accertare se il tasso soglia fosse stato superato, il tasso convenzionale degli interessi moratori non doveva essere sommato a quello degli interessi corrispettivi. Dopo questa sentenza 350/13 una corrente di pensiero giunge a conclusione opposta e sostiene che al fine di verificare se il tasso degli interessi di mora sia superiore al tasso soglia e quindi ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 co. 2, gli interessi moratori vanno sommati a quelli corrispettivi. Questa opinione non mi convince. E non mi convince per diversi motivi. PRIMA RIFLESSIONE In verità la sentenza richiamata (la n.350/13) non ha affermato quanto auspicato ed invocato da qualcuno: non ha parlato di sommatoria di interessi con riguardo all’ usura.  La sentenza invocata altro non fa che ribadire un principio interpretativo da tempo affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. 5286/2000; Cass. 5324/2003; Cass. 16992/2007), cioè che la regola ex art. 1815 c.c. si applica alla pattuizione di interessi a qualunque titolo convenuti, cioè a quelli corrispettivi come a quelli moratori. Non vi è alcun cenno al fatto che gli interessi corrispettivi e quelli moratori vadano sommati tra loro, dando vita ad un presunto tasso sommatorio. La Cassazione si è limitata solo a ribadire il proprio orientamento in virtù del quale “pure gli interessi moratori debbono essere sottoposti al vaglio di usurarietà al pari di quelli corrispettivi” (cfr Cass. 5286/2000). SECONDA RIFLESSIONE Gli interessi moratori e corrispettivi non possono essere posti sullo stesso piano. Le parti pattuiscono un tasso diverso e alternativo per due differenti tipologie di interessi applicabili in ipotesi distinte e alternative. In un caso è fissato il tasso degli interessi corrispettivi del mutuo cioè quelli che rappresentano il prezzo dell’ operazione mutuo e il vantaggio che il mutuante riceve nel sinallagma. Nell’ altro caso si fissa la misura dell’ interesse dovuto ove il rapporto entri nella patologia, cioè ove la parte mutuataria non paghi quanto dovuto per la restituzione del denaro ricevuto in prestito. Le ragioni principali di questa differenziazione si rinvengono quindi, in primo luogo, nella funzione degli interessi moratori. Questi configurano una sorta di liquidazione presuntiva e forfettaria del danno causato dal mancato o dal ritardato pagamento di un’ obbligazione pecuniaria ( art.1224 co.1 c.c.). In una pronuncia del Collegio dell’ ABF così si legge: “Il carattere risarcitorio degli interessi moratori pone questi ultimi su di un piano profondamente diverso dagli interessi corrispettivi. E soprattutto in situazioni patologiche li rende riequilibrabili attraverso il rimedio di salvaguardia dettato dall’art.1384 c.c.”. Gli interessi corrispettivi invece svolgono la funzione di pagamento per l’ uso di un bene, sono il corrispettivo che si paga per il godimento di un bene altrui ed entrano in gioco per così dire al momento della conclusione del contratto. Non va trascurato un altro elemento differenziale. A differenza degli interessi corrispettivi, nessun ruolo ha l’ interesse moratorio  nella concessione del credito.  L’interesse moratorio, dal punto di vista  del debitore, assolve ad un ruolo essenzialmente dissuasivo ricordandogli che l’inadempimento comporta per lui un aggravio dell’onere, mentre dal punto di vista del creditore, assume un ruolo puramente risarcitorio, non rappresentando un vero e proprio corrispettivo del credito erogato. Queste riflessioni inducono ad escludere in linea di principio gli interessi moratori dalla valutazione dell’ usura. Con ordinanza del 28.1.2014 il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda formulata sulla sommatoria degli interessi corrispettivi e moratori con la seguente motivazione:  “Gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori sono alternativi, nel senso che se si applicano i primi non si applicano i secondi”. Questa distinzione è stata pure ripresa dal Tribunale di Trani nella sentenza del 10.3.2014. Leggo alcuni passaggi di questa sentenza, dove si affermano i seguenti principi: 1) “Interessi corrispettivi ed interessi moratori, pattuiti come tassi diversi alternativi, applicabili in ipotesi distinte e alternative, non possono essere cumulativamente valutati ai fini del raffronto con il tasso soglia ex legge 108/96”. 2) Sostenere che il tasso soglia ex legge 108/96 sarebbe superato per effetto della sommatoria fra il tasso debitore del mutuo e quello moratorio è un errore di carattere logico oltre che giuridico”. 3) Pur in ipotesi di superamento della soglia antiusura per effetto della sommatoria dei due tassi si determinerebbe che non sono dovuti gli interessi moratori e non che non siano dovuti anche gli interessi corrispettivi che in ogni caso siano stati pattuiti entro la soglia. Questo ultimo principio era già stato enunciato nell’ordinanza emessa in data 28.1.2014 dal dott. Ardituro del Tribunale di Napoli, il quale così si esprime: ad essere sanzionata con la nullità totale della clausola che determina la misura degli interessi è solo la previsione relativa al tasso da applicare per gli interessi moratori, ma non anche quella per gli interessi corrispettivi che comunque sono dovuti.  TERZA RIFLESSIONE Questa riflessione riguarda la necessità di confrontare due entità omogenee, vale a dire il metodo di verifica. L’art.1 della L. 108/96 afferma, fra l’altro: “Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”.  L’art.2, comma 1, afferma poi: “Il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, ….” Entrambi gli articoli non danno alcuna indicazione circa il modo con cui si debba tener conto di “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese ….”, non riportano, cioè, la “formula” da utilizzare per tradurre in due numeri (da confrontare) il tasso applicato al singolo rapporto e il tasso medio (da incrementare secondo le previsioni) per fissare il tasso soglia.  La perfetta identità dei termini riportati negli artt. 1 e 2 comporta, come ovvio corollario, che devono coincidere sia il criterio con cui sono rilevati i tassi soglia sia il criterio con cui viene calcolato l’eventuale tasso usurario; in particolare va ritenuto che: a) la formula da utilizzare per determinare il tasso praticato per un singolo rapporto deve coincidere con quella utilizzata per determinare il tasso medio; b) ai termini che compaiono in tali formule deve essere attribuito lo stesso significato.  Infatti valutare un eventuale superamento del tasso soglia confrontando due numeri ottenuti con metodologie diverse da quelle esposte ai punti a) e b) comporta inevitabilmente una violazione dell’omogeneità di indicazioni contenute negli artt. 1 e 2 della 108/96. Queste considerazioni trovano conferma in una recente pronuncia del Collegio dell’ABF. Il ragionamento del Collegio è il seguente. Non esiste una nozione civilistica di usura per cui occorre far riferimento a quella offerta dall’ art. 644 c.p. Ma è questa una norma in bianco nel senso che non contiene tutti gli elementi costitutivi della fattispecie reato e rimette alla legge la concreta individuazione del c.d. tasso soglia mediante le rilevazioni trimestrali di cui alla legge 108/96. Ma neanche la legge speciale fissa un tasso usuraio, ma istituisce un procedimento per determinare con scadenza trimestrale quale sia il tasso usuraio in relazione alle diverse tipologie di operazioni di credito. L’ esito finale di questo procedimento, vale a dire la determinazione del tasso soglia, è effettuata dal Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d’ Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, in considerazione del tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, spese, remunerazioni etc. I valori medi sono pubblicati e si applica la previsione incrementativa da ultimo stabilita dal D.L. 13.5.2011 n. 70, vale a dire il tasso medio aumentato di un quarto + 4 punti. Quindi la nozione di interesse usuraio dipende dall’ esito di un procedimento nel quale assumono rilevanza le basi di calcolo che conducono ad individuare detta misura. In queste basi di calcolo sono incluse: le spese di istruttoria, le spese di chiusura della pratica, le spese di riscossione, il costo dell’attività di mediazione, le spese di assicurazione, le sepe per i servizi accessori, ogni altra spesa connessa con l’operazione di finanziamento, escluse le imposte e tasse, le spese notarili, gli interessi di mora, gli oneri assimilabili.  L’ esclusione dalle segnalazione degli interessi di mora è stata ribadita dal decreto ministeriale del 25.3.2011 relativo ai tassi soglia trimestrali. Le istruzioni della Banca d’Italia sulla rilevazione dei tassi medi ai fini dell’usura hanno sempre precisato che gli interessi moratori sono esclusi dal calcolo del TEGM che costituisce la base del c.d. tasso soglia. Nei chiarimenti del 3.7.2013 la Banca d’ Italia precisa che gli interessi moratori non vanno presi in considerazione “perché non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito, ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parte del cliente”. Da ciò possiamo convenire che il confronto tra il tasso soglia ed il tasso applicato in concreto è un confronto tra voci predefinite che attengono al costo del credito convenuto tra le parti con l’insieme delle stesse voci di costo medio rilevate trimestralmente. Se quindi il tasso di mora non è parte delle rilevazione trimestrali non è corretto confrontare due entità diverse.  E’ stato affermato che tra i due insiemi, quello pattuito tra le parti e quello rilevato al fine di identificare il tasso soglia, vi deve essere perfetta simmetria. E’ palesemente errato confrontare gli interessi convenuti per un conto corrente con il tasso soglia previsto per operazione di leasing, come è pure errato calcolare nel costo del credito le spese per imposte e tasse. In applicazione del medesimo principio di simmetria è errato calcolare nel costo del credito pattuito i tassi moratori che non sono presi in considerazione nel procedimento di rilevazione . QUARTA RIFLESSIONE Le considerazioni innanzi svolte non escludono che la questione dello sforamento del limite possa in concreto proporsi. Di regola nel contratto di mutuo le parti pattuiscono che “su tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dal cliente” dal momento dell’inadempimento decorrono gli interessi moratori. Ciò significa che la rata non riscossa verrà gravata dagli interessi moratori; in altri termini gli interessi moratori si applicano sulla rata non riscossa che comprende sia il capitale sia gli interessi; sicchè diviene inevitabile chiedersi se quest’applicazione di interessi moratori su interessi corrispettivi sia legittima e se tale sommatoria consente di superare il tasso soglia. Al riguardo vanno distinte due questioni: il carattere usurario e l’anatocismo. La rata non è un’obbligazione, ma solo la modalità di adempimento di un’obbligazione pecuniaria (art.1819 c.c.); essa risulta composta generalmente da una quota capitale e da una quota di interessi. Queste due quote sono separate nella fase genetica e durante il corso del rapporto, non lo sono nella fase patologica. Al momento dell’inadempimento ci si trova al cospetto di una sola obbligazione che il debitore è tenuto soddisfare per capitale ed interessi. Questa unitarietà risulta confermata, ad esempio, dalle regole in tema di imputazione, che non lasciano spazio al debitore di scegliere tra l’una o l’altra obbligazione all’atto del pagamento; ed è pure dimostrata dal modo di operare degli interessi moratori che si applicano all’intero debito inadempiuto senza dare rilievo a capitale e interessi.In sostanza l’inadempimento della rata non può che trasformare le due obbligazioni, seppure originariamente distinguibili, in un unico debito (Cass.8.7.1986 n. 4451). In definitiva non si viene concretizzare alcuna sommatoria di interessi dato che gli interessi moratori operano sull’ unico debito esistente (Cass. 21.10.2005 n.20449; 31.1.2006 n. 2140; contra Cass.20.2.2003 n. 2593). Se l’obbligazione è unitaria ed inscindibile al momento dell’inadempimento il problema viene risolto in radice perché non si crea un fenomeno anatocistico. A supporto va ricordato che la delibera CICR del 9.2.200 ha previsto espressamente che nei rimborsi rateali dei finanziamenti non regolati in conto corrente (art.3), in caso di inadempimento all’obbligo di pagamento delle rate scadute, sono dovuti, se contrattualmente previsti, gli interessi moratori sull’ importo complessivamente dovuto e quindi sulla parte di rata comprendete capitale ed interessi corrispettivi. La stessa delibera precisa che per gli interessi moratori non è consentita la capitalizzazione periodica. In diverse occasioni l’Arbitro Bancario Finanziario si è pronunciato sulla problematica ed ha confermato alcuni principi: a) In caso di inadempimento ci è una sola obbligazione; l’inadempimento trasforma le due obbligazioni della rata in un unico debito ( dec. 125/14 del Collegio di Napoli); b) L’ interesse moratorio è previsto come sostitutivo e non additivo dell’interesse corrispettivo ( dec. N. 21/14 del Collegio di Napoli). Ora qualcuno potrebbe dire che l’Arbitro Bancario Finanziario è di parte, ma a me sembra che in queste decisioni sono richiamati principi pacifici in giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.   In conclusione, le pronunce dei giudici di legittimità e di merito, come sopra richiamate, consigliano una ponderata riflessione prima di iniziare un giudizio sulla usurarietà del tasso di mora.  Avv. Francesco Fiore ...

OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO: grava sul creditore l’onere della prova a sostegno della propria pretesa

Gio, 15/05/2014 - 14:10
Il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo si configura come giudizio ordinario di cognizione e “si svolge secondo le norme del procedimento ordinario nel quale incombe, secondo i principi generali in tema di onere della prova, a chi fa valere un diritto in giudizio il compito di fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa. Nel giudizio di opposizione tornano, dunque, ad avere vigore quelle medesime norme sull'ammissibilità e rilevanza dei singoli mezzi di prova che sarebbero state applicabili se l'azione di condanna, anziché attraverso lo speciale procedimento monitorio, fosse stata esercitata subito in forma di citazione.” Così ha stabilito il Tribunale di Bari, nella persona del Dott. Francesco Agnino, che con la sentenza del 27 marzo 2014, è intervenuto sul tema della distribuzione dell’onere della prova nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Il caso di specie ha ad oggetto l’ingiunzione di pagamento di crediti per la prestazione di opera professionale, da parte di due ingegneri che assumevano di aver ricevuto e svolto un incarico professionale in maniera collegiale. Proponevano, pertanto, opposizione al decreto ingiuntivo le società debitrici sulla base della doglianza per cui spettasse al creditore fornire sufficiente prova della fonte del credito. Ebbene, il Tribunale di merito ha richiamato la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione secondo cui il creditore che agisca in giudizio per l'inadempimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, posto che incombe sul debitore convenuto l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento dell'obbligazione. Pertanto, il Tribunale chiarisce che, nel caso di specie – riguardante il credito di un professionista per l’espletamento di un incarico - come, peraltro, statuito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Corte Cass. Sent. 27 gennaio 2010, n. 1741), il creditore ingiungente e, dunque, attore in senso sostanziale, ha l’onere di provare l'avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma, da parte del cliente convenuto per il pagamento del compenso. Sul debitore opponente e convenuto in senso sostanziale, invece, incombe l’onere di provare di aver esattamente adempiuto.  La natura del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e la distribuzione dell’onere della prova sono, probabilmente, due delle questioni più dibattute dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento al procedimento monitorio. Dalla corretta instaurazione del giudizio di opposizione e dall’adempimento dell’onere della prova dipende, Infatti, il destino del decreto ingiuntivo e, dunque, del titolo esecutivo essenziale ai fini del recupero del credito. La fase dell’opposizione al decreto ingiuntivo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, costituisce un giudizio ordinario di merito avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente. Pertanto, il Giudice, nel corso di tale giudizio, non deve limitarsi a stabilire se l'ingiunzione sia stata emessa legittimamente, in relazione alle condizioni previste dalla legge per l'emanazione del provvedimento monitorio, ma deve accertare il fondamento della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione. In altri termini, deve valutare l'an ed il quantum della pretesa creditoria.  Ne consegue che la struttura del giudizio è tale per cui non vi è corrispondenza tra le parti intese in senso formale e in senso sostanziale. Infatti, formalmente, l’opposizione è proposta dal debitore ingiunto che, dunque, è attore in senso formale, contro il creditore ingiungente, che è convenuto. Tuttavia, atteso che la pretesa, a seguito di sommario accertamento, risulta cristallizzata nel decreto ingiuntivo, il debitore opponente agisce al fine di contestarla e, dunque, è convenuto in senso sostanziale mentre il creditore ingiungente è attore. La distribuzione dell’onere della prova tiene conto di tale particolare struttura dell’opposizione. Alla luce di tali considerazioni, dunque, il Tribunale di Bari ha accolto l’opposizione, revocando i decreti ingiuntivi in oggetto e compensando le spese di giudizio....

OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO - REVOCA DEL PROVVEDIMENTO E RICALCOLO DELL'ESPOSIZIONE DEBITORIA

Mer, 14/05/2014 - 17:13
Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha ad oggetto l’intera situazione giuridica controversa, sicché è al momento della decisione che occorre avere riguardo per la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti di fatto e di diritto per l’accoglimento della domanda di condanna del debitore. Ne consegue che la riscontrata insussistenza, anche parziale, dei suddetti presupposti, pur non escludendo il debito dell’originario ingiunto, comporta l’impossibilità di confermarne la condanna nell’importo indicato nel decreto ingiuntivo, che dunque va sempre integralmente revocato.   E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4436 depositata il 25 febbraio 2014, con la quale i Giudici di Legittimità hanno deciso sul ricorso proposto da una società avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che rigettava la propria opposizione a decreto ingiuntivo promossa nei confronti di tre eredi. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Venezia, postasi nella logica di riformare la sentenza di primo grado che accoglieva l’opposizione, dopo aver dato corso alla decisione di rigetto della stessa, con riguardo alla sussistenza del credito in conto capitale, non stabiliva se gli interessi erano stati liquidati correttamente con riferimento al dies a quo. Ebbene, la Cassazione ha ritenuto che in questo caso gli interessi, ai sensi dell’art. 2033 c.c., non avrebbero dovuto essere riconosciuti nel decreto ingiuntivo dalla data del pagamento indebito, poiché difettava il presupposto della mala fede. Infatti, seguendo l’orientamento della sentenza n. 17558 del 2006, i Supremi Giudici hanno ritenuto che” in materia di indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 c.c. il debito dell’”accipiens” – a meno che questi sia in mala fede – produce interessi solo a seguito della proposizione di un’apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, perché trova qui applicazione la tutela prevista per il possessore di buona fede – in senso oggettivo – dall’art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, alla cui data di proposizione retroagiscono gli effetti della sentenza.” La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ha esercitato i poteri di giudice del merito sull’appello, ritenendo che lo stesso sarebbe stato parzialmente accoglibile ed in particolare limitatamente al riconoscimento nel decreto ingiuntivo degli interessi dalla data del pagamento indebito invece che da quella della sua notificazione. Gli Ermellini hanno, inoltre, fatto applicazione del principio secondo il quale l’opposizione a decreto ingiuntivo, avendo come oggetto l’intera situazione giuridica controversa, individua al momento della decisione, la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti di fatto e di diritto per l’accoglimento della domanda di condanna del debitore. La conclusione a cui arriva la Cassazione è che l’insussistenza, anche parziale, dei suddetti presupposti, pur non escludendo il debito dell’originario ingiunto, comporta l’impossibilità di confermare la condanna nell’importo indicato nel decreto ingiuntivo (che andrà ricalcolata dal giudice), che dunque va sempre integralmente revocato. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha accolto parzialmente il ricorso, cassando la sentenza impugnata....

CONVEGNO: Pesi e vincoli gravanti sull'immobile pignorato

Mar, 13/05/2014 - 18:12
la partecipazione all’evento attribuirà fino a n. 4 crediti formativi validi per la formazione professionale continua del dottore commercialista ed esperto contabile...

ESECUZIONE FORZATA: ERRONEA IDENTIFICAZIONE DEL BENE PIGNORATO

Mar, 13/05/2014 - 13:50
“Gli errori o le improprietà di identificazione del bene negli atti di provenienza non potrebbero giammai essere opponibili, di per sè soli considerati, ai terzi di buona fede che abbiano diligentemente compulsato i registri immobiliari, i quali pignorano in modo corretto ciò che in testa al debitore risulta da questi al momento del pignoramento”. Così si è pronunziata la Corte di Cassazione, sez. civ. sez. III, con la sentenza n. 25055 del 7/11/2013, che ha ribadito il principio della inopponibilità degli errori o delle improprietà di identificazione del bene negli atti di provenienza ai terzi in buona fede che, verificando i registri immobiliari, hanno pignorato in modo corretto ciò che risultava in capo al debitore. Nel caso in esame, viene, quindi, affrontata nuovamente la funzione della trascrizione, che è quella di rendere pubblici determinati eventi giuridici in modo da consentire agli interessati, in base alle opportune ricerche ed alla lettura dei registri immobiliari, di conoscere l’appartenenza dei beni immobili e dei pesi e vincoli di natura reale sugli stessi, per cui il terzo che è rimasto estraneo all’atto trascritto, per individuare l’oggetto cui l’atto si riferisce attraverso la notizia che ne dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto con cui la notizia dell’intervento dell’atto è riferita nei registri immobiliari, non incombendo alcun onere di controllo ulteriore.  Nella nota devono essere contenuti tutti gli elementi necessari ad individuare senza incertezze gli estremi del negozio, i beni ai quali esso si riferisce e il diritto che si è voluto sottoporre ad esecuzione.  L’omissione o l’inesattezza di alcuna delle indicazioni richieste nelle note non nuoce alla validità della trascrizione se non induce incertezza sui soggetti, sui beni o sul rapporto cui essa si inerisce e consente di identificare senza possibilità di equivoci gli elementi essenziali del rapporto (cfr. Cass. 11/4/2006 n. 264). Per stabilire se in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire d’individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo e senza alcuna possibilità di supplire le omissioni od inesattezze merce il ricorso ad elementi esterni alla nota stessa, cioè desumibili aliunde, in quanto ciò sarebbe in palese contraddizione con il sistema formale di pubblicità notizia vigente nel ns. ordinamento (cfr. Cass. Civ. 10/4/1986 n. 2051; Cass. Civ. 14/10/1991 n. 10774). La ratio di tale principio è insita nella circostanza che nel nostro ordinamento la pubblicità immobiliare, che si attua con il sistema della trascrizione, è imperniata su principi formali, per cui il terzo, che è rimasto estraneo all’atto trascritto per individuare l’oggetto cui l’atto si riferisce, è tenuto a fare affidamento sul contenuto della trascrizione e non ha alcun onere di controllo ulteriore (cd.autosufficenza della nota). Viceversa, se l’inesattezza della nota è tale da incidere sulla identificazione del bene e ciò comporta una incertezza assoluta sul bene pignorato la trascrizione è inopponibile nei confronti del terzo di buona fede (cfr. Cass. 8/3/2005 n.5002), posto che il legislatore ha inteso dare rilievo invalidante a tali inesattezze solo laddove esse “determinino un’inidoneità della nota all’individuazione dell’atto da trascriversi (cioè della notizia da pubblicizzare) nei suoi profili personali ed oggettivi” (cfr. Cass. Civ. 08/03/1950 n. 5002). Del medesimo orientamento si segnala sentenza Cassazione civile, sezione terza dell’08-02-2013 n. 3075...

VINCOLO DI DESTINAZIONE EX ART. 2645 TER C.C.: interpretazione restrittiva

Mar, 13/05/2014 - 09:13
Il vincolo di cui all’art. 2645 ter c.c., norma da interpretare restrittivamente per non svuotare di significato il principio della responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c., non può essere unilateralmente autodestinato su di un bene già in proprietà con un negozio destinatorio puro, ma può unicamente collegarsi ad altra fattispecie negoziale tipica od atipica dotata di autonoma causa. In ogni caso, anche ipotizzando l’ammissibilità di un negozio destinatorio puro, gli interessi meritevoli di tutela che legittimano il vincolo devono essere esplicitati nell’atto di costituzione, devono essere valutati in modo stringente e devono essere prevalenti rispetto agli interessi sacrificati dei creditori del disponente estranei al vincolo. È quanto stabilito dal Tribunale di Reggio Emilia, Giudice estensore Dott. Gianluigi Morlini, con l’ordinanza emessa il 12/05/2014 nell’ambito di una opposizione all’esecuzione. Nel caso di specie, una banca faceva valere il titolo esecutivo dalla stessa vantato, promuovendo nei confronti di un debitore una esecuzione immobiliare.  Il bene oggetto di tale esecuzione, già di proprietà del debitore stesso, risultava sottoposto al vincolo di cui all’art.2645 ter c.c. e specificatamente al “soddisfacimento delle esigenze abitative ed in genere ai bisogni del nucleo familiare”. Ebbene sulla base di tale vincolo il debitore proponeva opposizione all’esecuzione dinnanzi al Tribunale di Reggio Emilia, formulando istanza di sospensione ex art. 624 c.p.c. Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul caso de quo, ha argomentato che “ in assenza di pronunce della Suprema Corte sul punto, la maggioritaria tesi giurisprudenziale di merito ha ritenuto che l’art. 2645 ter c.c. non riconosce la possibilità dell’autodestinazione unilaterale di un bene già di proprietà della parte, tramite un negozio destinatorio puro. Diversamente opinando, infatti, verrebbe scardinato dalle fondamenta il sistema fondato sul principio, codificato dall’art. 2740 c.c., della responsabilità patrimoniale illimitata e del carattere eccezionale delle fattispecie limitative di tale responsabilità, atteso che, in forza di una semplice volontà unilaterale del debitore, una porzione o financo l’integralità del suo patrimonio, sarebbero sottratti alla garanzia dei propri creditori.” Una più ampia applicazione dell’art. 2645 ter c.c., continuano i Giudici, è limitata alle sole ipotesi di destinazione traslativa collegata ad altra fattispecie negoziale tipica od atipica dotata di autonoma causa. Sulla meritevolezza del negozio, infine, è pacifico come, per affermare la legittimità del vincolo di destinazione, non si sufficente la liceità dello scopo, occorrendo anche il quid pluris della comparazione degli interessi in gioco, ed in particolare dalla prevalenza dell’interesse realizzato rispetto all’interesse sacrificato dei creditori del disponente estranei al vincolo (cfr. App. Trieste, sent. n. 1002/2013).  Tale riscontro di meritevolezza deve essere particolarmente penetrante, proprio in ragione delle potenzialità lesive, nei confronti dei creditori, del vincolo unilateralmente apposto. La parte avrebbe dovuto, perciò, chiaramente indicare, le ragioni che l’avevano indotta ad optare per quella specifica tipologia di vincolo, evidenziandone i motivi.  Pertanto, interpretando restrittivamente la norma in parola, i Giudici hanno rigettato il reclamo, ritenendo che il debitore reclamante abbia autoimposto un vincolo di destinazione ad un bene già in sua proprietà, tramite un negozio destinatorio puro, ciò che, come detto, non può ritenersi possibile....

MUTUI: valido l’ammortamento alla francese in quanto applica l’interesse semplice

Lun, 12/05/2014 - 17:09
In materia di contratto di mutuo, è legittimo il sistema di ammortamento c.d. alla francese, che garantisce il rispetto della regola dell’interesse semplice, non producendo interessi anatocistici. In caso di inadempimento, è lecito l’effetto anatocistico prodotto dal meccanismo per il quale gli interessi di mora vengono computati sulle rate impagate – comprensive di capitale ed interessi – in quanto espressamente consentito dall’art.3 della Delibera Cicr 9.2.2000. Questi i principi di diritto enucleabili dall’interessante sentenza del Tribunale di Milano, in persona della dott.ssa Laura Cosentini, in materia di contratti di mutuo e metodologia di sviluppo del c.d. “ammortamento alla francese”. La pronuncia – la n.5733 del 5 maggio 2014 – è stata resa nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, promosso sul presupposto che il contratto di mutuo alla base dell’ingiunzione prevedesse un ammortamento “ad interesse composto”, dunque in violazione del divieto di anatocismo, asseritamente violato anche dalla modalità di calcolo degli interessi di mora, computati sull’intera rata (comprensiva di capitale ed interessi corrispettivi). Analizzando il quadro normativo, il Giudice milanese fornisce, in parte motiva, una chiara spiegazione, non solo del perché il piano di ammortamento alla francese sia pienamente lecito, ma soprattutto del perché sia altrettanto lecito il c.d. “effetto anatocistico” che si verifica a seguito dell’inadempimento del mutuatario. Preliminarmente, il Tribunale si sofferma sul dato – accertato dal CTU – della corretta metodologia di calcolo del TAEG e TEG effettuata dalla banca e riportata nel contratto di mutuo, per poi entrare nel merito della questione relativa alla legittimità del piano di ammortamento previsto. Ebbene, premesso che, nella composizione di un piano di ammortamento – da rendere preventivamente noto al mutuatario – deve essere fissata a priori una regola (definita “condizione di chiusura”) che sancisca come si determini una delle tre grandezze (rata, quota capitale, quota interessi), di modo che, individuata una grandezza, se ne possano calcolare le restanti due, la dott.ssa Cosentini spiega – fatti brevi cenni alla definizione di “piano di ammortamento alla francese” (ovvero “a rata costante”) – che in tal caso la “condizione di chiusura” viene definita anche “CONDIZIONE INIZIALE” e – come chiarito dal CTU - la formula matematica “utilizza la legge di sconto composto”. Una tale metodologia di calcolo, che pure terminologicamente rimanda al fenomeno anatocistico(*), viene utilizzata tuttavia unicamente al fine di individuare la quota capitale da restituire in ciascuna delle rate prestabilite (criterio che in alcun modo si pone in danno del mutuatario, essendo assicurato – e agevolmente verificabile - che la somma di tali quote sia pari all’importo mutuato), mentre non va ad incidere sul separato conteggio degli interessi, che nel piano di ammortamento alla francese risponde alle regole dell’interesse semplice.  Regola dell’interesse semplice che, nel caso di specie, è risultata pienamente rispettata, senza alcuna capitalizzazione degli interessi nella definizione degli elementi del piano di ammortamento. Verificata, dunque, la piena liceità in sé del piano di ammortamento – nel fisiologico svolgersi del rapporto – il Giudice si sofferma sulla questione relativa all’inadempimento, ed al conseguente verificarsi dell’applicazione degli interessi di mora sulle rate impagate. Netta la posizione del Tribunale sul punto: “è il dettato normativo che consente l’anatocismo, prevedendosi, all’art.3 della Delibera Cicr 9.2.2000 (quale vigente all’epoca della stipulazione del rapporto di finanziamento in oggetto), che “nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso avvenga mediante pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente previsto, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”. Il previsto conteggio dell’interesse di mora sull’intero importo delle rate impagate comporterà quindi che tale interesse venga a maturare anche sulla parte di interessi in esse compresa, il che certamente dà luogo a un effetto anatocistico (prodursi di interessi sugli interessi), ma ciò è consentito per legge e si produce limitatamente alle rate impagate”. Verificato, dunque, che nella fattispecie in esame, il contratto espressamente prevedeva l’applicazione dell’interesse di mora “sull’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata”, il Giudice ha così disatteso ogni doglianza di parte attrice, circa le contestazioni di indebito anatocismo. La pronuncia in esame fa chiarezza sul fenomeno dell’anatocismo, smentendo quelle interpretazioni strumentali – e non specialistiche – che tendono a sottolineare l’illegittimità “tout court” di qualunque fattispecie di produzione di “interessi su interessi”, senza operare oculate distinzioni “caso per caso”.  È discutibile, in ogni caso, se possa parlarsi effettivamente di interesse composto (alias anatocistico), in quanto, in caso di inadempimento del mutuatario, dovrà tenersi conto del dettato dell’art.1224 cc che, nel disciplinare l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, si interpreta nel senso che - al momento della scadenza - capitale ed interessi perdono la loro identità per diventare un’unica obbligazione, sulla quale poi vanno applicati gli interessi moratori, senza che possa parlarsi di alcuna forma di capitalizzazione.  Tale unicità dell'obbligazione è confermata da due dati: 1. le regole dell'imputazione non lasciano spazio al debitore inadempiente di scegliere quale "quota" del debito estinguere all'atto del pagamento; 2. gli interessi moratori si applicano all'intero debito inadempiuto, senza dare rilievo a capitale ed interessi. Sul punto, si segnala per approfondimenti la pronuncia dell’Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Napoli, n.125/14 ), che peraltro richiama, a supporto di tale argomentazione, la sentenza n. 4451 dell'8 luglio 1986 della Corte di Cassazione. Tornando alla pronuncia in esame, questa conferma l’infondatezza della tesi - spesso assai pubblicizzata – dell’illiceità del meccanismo di ammortamento “alla francese” in sé considerato, smentita, peraltro, dall’evidenza normativa e dalla giurisprudenza più recente, di cui ci si è già occupati su questa rivista, come può rilevarsi dagli articoli che si segnalano di seguito. USURA BANCARIA: IL CLIENTE DEVE FORMULARE SPECIFICHE CONTESTAZIONI È ONERE DELLA PARTE ALLEGARE I MODI, I TEMPI E LA MISURA DEL SUPERAMENTO DEL TASSO SOGLIA Sentenza | Tribunale di Ferrara, dott.ssa Anna Ghedini | 05-12-2013 | n.1223 | Autore: Dott. Walter Giacomo Caturano MUTUI BANCARI: È LEGITTIMO IL PIANO DI AMMORTAMENTO ALLA FRANCESE IL METODO NON IMPLICA ALCUNA CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI, POICHÉ GLI STESSI VENGONO CALCOLATI UNICAMENTE SULLA QUOTA CAPITALE VIA VIA DECRESCENTE E PER IL PERIODO CORRISPONDENTE A QUELLO DI CIASCUNA RATA Sentenza | Tribunale di Benevento, Giudice Unico dott.ssa Antonietta Genovese | 19-11-2012 | n.1936 (*)L'interesse viene detto semplice quando è proporzionale al capitale e al tempo. Ovvero gli interessi, maturati da un dato capitale nel periodo di tempo considerato, non vengono aggiunti al capitale che li ha prodotti (capitalizzazione) e, quindi, non maturano a loro volta interessi. L'interesse viene detto composto quando, invece di essere pagato o riscosso, è aggiunto al capitale iniziale che lo ha prodotto. Questo comporta che alla maturazione degli interessi il montante verrà riutilizzato come capitale iniziale per il periodo successivo, ovvero anche l'interesse produce interesse....

LA PERIZIA, CARDINE DEL PIGNORAMENTO

Lun, 12/05/2014 - 14:17
 DA CHI E’ REDATTA LA PERIZIA SULL’IMMOBILE? La perizia è redatta dal consulente tecnico d’ufficio, professionista esperto in materia, che svolge la funzione di ausiliario del Giudice dell’Esecuzione nell’ambito di rigide e precise competenze, definite dal legislatore negli artt. 13 e seguenti delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. I consulenti tecnici d’ufficio sono iscritti - dopo una procedura di accertamento dell'esperienza - all'interno di specifici albi, divisi per qualifica professionale, tenuti dai Tribunali. Il compito del consulente è quello di rispondere in maniera puntuale e precisa ai quesiti che il Giudice formula nell'udienza di conferimento dell'incarico e di relazionarne i risultati nell'elaborato peritale, garantendo – nello svolgimento dell’incarico - la propria imparzialità nei confronti delle parti. QUALI INFORMAZIONI POSSO ACQUISIRE DALLA PERIZIA? I compiti dell’esperto e il contenuto della sua relazione sono indicati dettagliatamente dal legislatore nell’art. 173 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Dalla perizia, pertanto, colui che è interessato all’acquisto dell’immobile pignorato può acquisire le seguenti informazioni: 1). l’effettiva titolarità del diritto espropriato in capo all’esecutato, in quanto l’esperto deve verificare la completezza della documentazione ipocatastale depositata dal creditore procedente, che attesta nel ventennio anteriore alla trascrizione del pignoramento le risultanze delle visure catastali ed immobiliari; 2). la corretta identificazione catastale dell’immobile tra l’atto di pignoramento, la nota di trascrizione, la certificazione ipocatastale ed il bene pignorato; 3). l’esistenza di formalità, vincoli e oneri, tra cui le ipoteche iscritte e le domande giudiziali trascritte, che andranno cancellate con il decreto di trasferimento, nonché gli oneri condominiali insoluti, le convenzioni che limitano l’alienabilità dell’immobile o regolano le condizioni dell’alienazione, i vincoli di natura storico artistica o diretti alla conservazione del territorio; 4). lo stato di occupazione  e precisamente se occupato da terzi con titolo opponibile alla procedura e quindi all’aggiudicatario; 5). la regolarità edilizia  o, in caso di mancanza del titolo a costruire, la sanabilità degli abusi attraverso il deposito della domanda di sanatoria entro cento venti giorni dalla notifica del decreto di trasferimento o la non sanabilità che necessiterà la riduzione in ripristino dello stato dei luoghi; 6). il reale valore. È evidente, pertanto, che l’ampiezza dei compiti attribuiti all’esperto che spaziano dalla verifica della regolarità urbanistica a quella amministrativa fino allo stato di occupazione dell’immobile pignorato consente di equiparare la vendita esecutiva alla vendita tra privati, dando ai soggetti interessati informazioni di qualità non inferiore a quelle che si potrebbero ottenere con la vendita notarile....

NOTIFICA: valida se l’addetto alla casa si identifica con il solo cognome

Lun, 12/05/2014 - 08:28
Valida la notifica all'addetto alla casa identificato con firma illeggibile e con l’indicazione del solo cognome.  E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione sesta, con ordinanza n.9240 pronunziata in data 24/04/2014 in materia di notifica di atti impositivi. Nel caso di specie, Equitalia aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo che aveva dichiarato illegittima l’iscrizione di ipoteca effettuata dall’ente di riscossione in danno di un contribuente sul presupposto della nullità della notifica dell’atto impositivo presupposto. Ad avviso del giudice di merito, infatti, la notifica era nulla atteso che il percipiente, qualificato come “addetto alla casa”, era stato identificato attraverso una firma illeggibile al cui fianco l’ufficiale postale aveva apposto il solo cognome; l’ assenza del nome aveva reso impossibile al contribuente contestare la validità della notifica. Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha affermato che non può ritenersi nulla la notifica di un atto impositivo al contribuente qualora il percipiente, qualificato come “addetto alla casa”, venga identificato con il solo cognome, atteso che l’omissione del nome non impedisce al contribuente di esperire una valida difesa.  In conclusione, dunque, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso proposto da Equitalia atteso che il contribuente ben avrebbe potuto dimostrare l’inesistenza di un addetto alla casa identificato con il solo cognome. Per ulteriori approfondimenti, si segnala altresì l’ordinanza n. 23971 pronunziata dalla Cassazione civile, sezione sesta, in data 27/12/2012 secondo cui in caso di notificazione effettuata a norma dell'art.139 cpc, comma 2, con consegna dell'atto a persona qualificatasi quale dipendente del destinatario o addetta all'azienda, all'ufficio o allo studio del medesimo, la veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere confutate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, ma è sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l'atto ricevuto. ...

OPPOSIZIONE AL PASSIVO: ammissibile anche in caso di mancata presentazione di osservazioni al progetto di stato passivo

Ven, 09/05/2014 - 14:20
In tema di accertamento del passivo, la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta, ne conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma, giudice relatore Dott. Francesco Cottone, che con il decreto n. 138 del 17/03/2014, ha deciso sul ricorso presentato da un creditore avverso il provvedimento del giudice delegato con cui lo stesso non veniva ammesso al passivo per carenza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito. Nel caso in esame, il ricorrente domandava l'insinuazione per la soddisfazione di due crediti - uno privilegiato secondo l'art. 552, n. 1, del codice della navigazione, l'altro chirografo -  relativi alla fornitura di "servizi di terra" presso l'aeroporto di Francoforte sul Meno, e produceva quale unico fondamento di tale assunto fatture relative alla fornitura in questione. Ebbene, il debitore, costituitosi in giudizio, eccepiva, oltre alla mancata prova dell’esistenza del rapporto contrattuale da cui deriverebbe il credito, l’inammissibilità dell’opposizione per non aver la parte ricorrente proposto osservazioni al progetto di stato passivo. Il Tribunale, nel merito, ha rigettato l'opposizione, statuendo come, affinché un credito possa essere considerato certo, sia necessario dimostrare di aver concretamente eseguito la prestazione corrispettiva e non sic et simpliciter di aver contratto l'obbligazione da cui essa trae origine: a tal fine, non ha rilevanza probatoria la produzione in giudizio di una fattura, documento che unilateralmente proviene dallo stesso soggetto che vanta la pretesa creditoria. Citando la recente Giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia (Cassazione civile, sezione prima - 10 Aprile 2012 - sentenza n° 5659), il Giudice ha comunque precisato l'ammissibilità del ricorso, dal momento che nei procedimenti di cui agli artt. 98 e ss. della legge fallimentare la mancata presentazione di osservazioni al progetto di stato passivo non rappresenta esplicita manifestazione - ai sensi dell'art. 329 c.p.c. - della volontà di non avvalersi del mezzo di impugnazione: ciò in quanto l'impugnazione non si rivolge al progetto del curatore che nega l'insinuazione, ma al successivo provvedimento del giudice che conferma tale diniego. Secondo il Tribunale, inoltre, siffatta ricostruzione logica non è smentita dalla lettera dell'art. 95, comma secondo, l. fall. che prevede per i creditori la facoltà - e non l'onere - di esaminare e contestare il progetto entro la prima udienza fissata per l'esame dello stato passivo: la rinunzia a tale facoltà non è sanzionata dalla norma con la preclusione al diritto di opposizione al decreto emesso in base all'art. 96 lf. In conclusione la mancata presentazione di osservazioni al progetto di stato passivo, non è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso ex art.98 legge fallimentare....

CONTRATTI BANCARI: le annotazioni sul libretto di risparmio, dell’impiegato addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti con la banca

Ven, 09/05/2014 - 09:29
Le annotazioni sul libretto di risparmio, firmate dall'impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti tra depositante e istituto di credito. Quando l’apposizione degli interessi annui sul frontespizio del libretto di risparmio non è riconducibile all’addetto al servizio, l’istituto non è tenuto alla corresponsione. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, prima sezione civile, che con la sentenza n.9277 del 24/04/2014, è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dal cliente di una banca avverso la decisione della Corte d’Appello di Salerno che aveva condannato la Banca alla restituzione delle somme depositate presso l’Istituto di credito e per le quali il ricorrente aveva ottenuto il rilascio di due libretti di deposito al risparmio.  Nel caso di specie, la decisione della Corte territoriale impugnata, è stata ritenuta legittima dalla Suprema Corte sul rilievo che era stato correttamente accertato che l’apposizione, da parte del direttore della filiale, della scritta “12%” sul frontespizio dei due libretti, non avesse efficacia probatoria prevista dall’articolo 1835, comma secondo, cc, atteso il disconoscimento da parte della banca della sigla dell’apparente sottoscrittore, in mancanza della proposizione della conseguente istanza di verificazione. La Suprema Corte, pronunciandosi sul caso de quo, ha osservato che “a norma dell'art. 1835, secondo comma, cc le annotazioni sul libretto, firmate dall'impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti tra banca e depositante. La disposizione indica la funzione primaria del libretto, che è quella di documentare in origine il contratto di deposito, e, quindi, singoli atti di esecuzione nello svolgimento del rapporto, attribuendo un particolare valore alle «annotazioni» sul medesimo riportate, allorché eseguite dall'«impiegato della banca che appare addetto al servizio. L'efficacia probatoria privilegiata è dunque legata a tale normativa: in particolare, si richiede che le annotazioni siano firmate da tale soggetto e la portata originale della disposizione sta proprio nel riferimento all'impiegato, il quale deve quindi essere, o anche meramente apparire addetto al servizio di sportello, il quale solo allora vincola la banca a quelle risultanze. La disciplina legale è cioè correlata al dato di fatto della provenienza delle annotazioni dall'impiegato che con le modalità usuali e normali riceve i depositi ingenerando nel pubblico la legittima opinione che egli sia investito del relativo necessario potere; onere di provare la sussistenza delle condizioni ambientali previste dalla norma è a carico del depositante.” Gli Ermellini, hanno infine sottolineato come “il libretto bancario di deposito a risparmio, pur non potendosi considerare atto pubblico dotato dell'efficacia probatoria privilegiata sino a querela di falso di cui all'art. 2700 Cc, è assistito dallo speciale regime delineato dall'art. 1835, stesso codice, sicché, ove il documento presenti i requisiti formali minimi richiesti, esso fa piena prova non solo delle annotazioni, ma anche della provenienza del libretto dalla banca al cui servizio appare addetto il funzionario che ha sottoscritto dette annotazioni”.  Alla luce di tali considerazioni il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento in favore della banca delle spese del giudizio....

CTU TECNICO CONTABILE: TERMINI DI DECADENZA

Ven, 09/05/2014 - 08:09
Ai fini dell'esperibilità dell’accertamento tecnico contabile, la parte deve sollevare le questioni supposte allo stesso nei termini di decadenza previsti dal codice di procedura civile e senza l’utilizzo di formule dubitative, che implichino un’accertamento  - da parte del Consulente Tecnico -  di natura esplorativa. Questo il principio sotteso alla sentenza n. 135 del 12 marzo 2014, con cui il Tribunale di Verbania ha deciso su di un’opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca nei confronti di un correntista. In particolare l’opponente contestava il difetto di prova del credito azionato, per aver, l’Istituto di credito, con la domanda monitoria, prodotto esclusivamente il saldo conto di cui all’art.50 TUB. Nella pronuncia vengono esaminate diverse problematiche del diritto bancario, in primo luogo le questioni relative all’onere della prova incombente sull’istituto di credito con l’opposizione a decreto ingiuntivo e, successivamente, quelle relative all’inammissibilità della CTU contabile, laddove sollevate tardivamente. Per quanto attiene alla prima, il Giudice si è uniformato all’orientamento oramai maggioritario e pressoché unanime, che ritiene corretta la produzione degli estratti conto certificati ex art 50 TUB nella fase monitoria, ed il suo valore meramente indiziario, invece, nel successivo giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dove la sua portata è liberamente apprezzata dal giudice nel contesto di altri elementi ugualmente significativi (Cass. Civ. 2.12.2011 nr 25857). Degna di attenzione è anche la successiva parte della sentenza, laddove il Tribunale ha respinto la richiesta di CTU tecnico contabile proposta dall’opponente, sul rilievo che la stessa fosse stata chiesta con formula dubitativa per verificare la “modalità di regolamentazione dei rapporti tra le parti”, ovvero, “se l’istituto di credito abbia applicato interessi attivi e passivi in maniera corretta sia nell’ammontare che nelle periodicità” ovvero “se siano state addebitate a qualsivoglia titolo ed in qualsivoglia forma somme non dovute ex lege”. Il Giudicante, dunque, ha correttamente ritenuto che la richiesta di CTU fosse inammissibile, in quanto resa da una parte con finalità esplorative, stante da un lato, la formula dubitativa del richiesto accertamento, e dall’altro il fatto che le doglianze siano state avanzate solo con la memoria ex art 183 nr 2 cpc “allorché doveva ritenersi oramai definito il thema decidendum e, conseguentemente, probanudum”. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale di Verbania ha rigettato l’opposizione, confermando il decreto ingiuntivo opposto e condannando gli opponenti alle spese di lite....

CREDITI PROFESSIONALI E PRESCRIZIONE PRESUNTIVA: e’ onere del creditore provare il mancato pagamento del debito.

Gio, 08/05/2014 - 14:54
Il creditore deve provare la mancata soddisfazione del credito professionale con giuramento decisorio o ammissione giudiziale del debitore. In tema di prescrizione presuntiva, infatti, mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi dell’ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l’obbligazione non è stata estinta. È quanto emerge dall’ultima sentenza n. 8735 della Cassazione Civile, sezione seconda, depositata il 15/04/2014. Il fatto in breve Con ordinanza del 29/06/2006 il Tribunale di Cosenza, in accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo rilasciato in favore di un avvocato nei confronti del proprio cliente, per il pagamento degli oneri professionali, dichiarava la prescrizione del credito azionato dal legale e per l’effetto revocava il provvedimento monitorio opposto. L’organo giudicante aveva infatti ritenuto che nella fattispecie era applicabile la prescrizione presuntiva ex art. 2957 c.c. con riferimento allo specifico credito azionato.  Ebbene, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale sopra citato, il professionista ricorrente eccepiva che secondo il principio della domanda, è l’opponente e non l’opposto convenuto in giudizio che ha l’onore di fornire la prova dell’avvenuto pagamento della prestazione professionale almeno con l’esibizione della fattura quietanzata. Chiedeva pertanto che venisse accertata nel caso di specie, la violazione dell’art. 99 c.p.c. La decisione La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso de quo, ha ripercorso l’analisi di due istituti che hanno natura e disciplina radicalmente diversa: la prescrizione presuntiva e la prescrizione estintiva, ribadendo come “Quest’ultima viene definita alla stregua di una vicenda estintiva del diritto che consegue al mancato esercizio del diritto stesso per un determinato periodo di tempo e cioè al fine di perseguire l’insopprimibile esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici. La prescrizione presuntiva (o impropria) invece ha tutt’altra struttura e finalità, in quanto essa muove dalla presunzione che un determinato credito, data la sua particolare natura, sia stato pagato, o che sia comunque estinto per effetto di una qualche causa: vi sono infatti alcuni rapporti della vita quotidiana nei quali l’estinzione del debito avviene di regola contestualmente all’esecuzione della prestazione ovvero non molto tempo dopo. In sintesi la prescrizione presuntiva può definirsi una presunzione legale iuris tantum con limitata possibilità di prova contraria (artt. 2059 e 2060 c.c.)”.  A ben vedere e come anticipato, i due istituti “sono ontologicamente differenti, logicamente incompatibili e fondati su fatti diversi, in quanto elementi costitutivi della prima sono il decorso del tempo e l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio che estinguono il debito, sicché il debitore può giovarsene, liberandosi dalla pretesa, sia che contesti l’esistenza del credito sia che ammetta di non aver adempiuto l’obbligazione; mentre la seconda è fondata su una sua presunzione”iuris tantum”, ovvero mista, di avvenuto pagamento del debito, esponendosi colui che la oppone al suo rigetto non solo se ammette di non aver estinto l’obbligazione ma anche se ne contesta la stessa insorgenza …” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3443 del 21/02/2005)”. Ciò posto va altresì detto che la prescrizione presuntiva pone, a sua volta, rispettivamente a carico del debitore e del creditore un diverso onere probatorio. Ed invero: “(…) mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi dell’ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l’obbligazione non è stata estinta (Cass. n. 758 del 27/01/1998)”. Ne consegue che la prova dell’avvenuto pagamento della prestazione professionale è posta a carico del professionista, il quale ai sensi dell’art. 2690 c.c., avrebbe potuto deferire giuramento per accertare se si fosse verificata l’estinzione del debito.  Alla luce di tali considerazioni, i Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso....

ESTRATTI CONTO: Il “disconoscimento” delle sottoscrizioni in calce agli assegni, non esclude l’approvazione tacita

Gio, 08/05/2014 - 14:50
Il “disconoscimento”, operato da parte del correntista, delle sottoscrizioni agli assegni emessi ed addebitati sul conto corrente, non impedisce l’approvazione tacita degli estratti conto bancari. Così si è pronunciato il Tribunale di Napoli, nella persona del Giudice Dott. Mario Suriano, con la sentenza n.6809 del 29/04/2014, nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, promosso da una società nei confronti dell’Istituto di credito presso il quale aveva acceso due rapporti di conto corrente. Ebbene, la società ingiunta, contestando il provvedimento con cui il Tribunale di Napoli la condannava al pagamento per saldi debitori del conto corrente, eccepiva genericamente un “disconoscimento” delle sottoscrizioni apposte in calce agli assegni addebitati su tale conto, senza però muovere alcuna specifica contestazione in ordine alle risultanze di estratti conto prodotti dalla banca. Per tali ragioni, il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul caso de quo, ha rilevato come il disconoscimento operato dalla parte opponente si esaurisse in una mera argomentazione di carattere difensivo, posto che la banca non aveva depositato - a sostegno della propria pretesa creditoria -  assegni emessi dalla società debitrice, ma aveva prodotto gli estratti dei conti de quibus dal momento della loro accensione, essendo il credito vantato in giudizio, non fondato su titoli di credito ma sulle risultanze dei rapporti di conto corrente così ampiamente documentate. Il Giudice, dunque, ha ribadito il principio secondo il quale “la produzione in giudizio degli estratti periodici dei conto corrente da parte dell'istituto di credito costituisce una forma di comunicazione equivalente alla trasmissione che, ai sensi dell'art. 1832 c.c., determina l'onere, per il correntista, della specifica contestazione e la presunzione, in mancanza, della sua approvazione”. (Cassazione civile, sezione prima, Sentenza n.11626 26-05-2011 già oggetto di approfondimento su questa rivista) Pertanto, alla luce delle considerazioni esposte, il Giudice ha rigettato l’opposizione confermando il decreto ingiuntivo e condannando l’opponente al pagamento, in favore dell’istituto di credito, delle spese di giudizio.  Per approfondimenti in materia si veda: ESTRATTI CONTO: L’APPROVAZIONE TACITA DA PARTE DEL CORRENTISTA VINCOLA IL FIDEIUSSORE IL GARANTE NON È TITOLARE DI UN AUTONOMO DIRITTO DI IMPUGNAZIONE Sentenza| Tribunale di Napoli, sezione seconda civile | 28-03-2014| n.4905 ESTRATTI CONTO: L’APPROVAZIONE TACITA RENDE INCONTESTABILE LE RISULTANZE DEL CONTO AL CORRENTISTA RIMANE LA POSSIBILITÀ DI CONTESTARE LA VALIDITÀ DEI TITOLI CONTRATTUALI CHE NE SONO ALLA BASE DEGLI ADDEBITI Sentenza| Cassazione civile, sezione prima| 05-05-2006| n.10376 ESTRATTI CONTO: SPETTA AL CORRENTISTA AVANZARE CONTESTAZIONI AL FINE DI POTER ATTRIBUIRE VALORE DI PROVA AGLI ESTRATTI PRODOTTI IN GIUDIZIO RILEVA LA MANCANZA DI IDONEE CONTESTAZIONI DA PARTE DAL CORRENTISTA Sentenza| Tribunale di Cassino, Giudice Unico dott. Andrea PETTERUTI| 12-06-2012 ESTRATTI CONTO: LA MANCATA CONTESTAZIONE DEL CORRENTISTA VINCOLA ANCHE IL GARANTE LA DEFINITIVITÀ DEGLI ESTRATTI CONTO, NON TEMPESTIVAMENTE CONTESTATI, VALE ANCHE NEI CONFRONTI DEL FIDEIUSSORE DEL CORRENTISTA IL QUALE NON POTRÀ PIÙ OBIETTARLI Sentenza Cassazione civile, sezione prima 18-09-2008 n.23807 ESTRATTO CONTO: SPETTANO AL CLIENTE LE SPECIFICHE CONTESTAZIONI IL CLIENTE NON DEVE AVANZARE GENERICHE CONTESTAZIONI MA ADDEBITI SPECIFICI E CIRCOSTANZIATI SULLE SINGOLE POSTE DALLE QUALI DISCENDE IL SALDO CREDITIZIO Sentenza Tribunale di Roma, Giudice Unico dott.ssa Pasqualina Condello 09-01-2012...

CONCORDATO PREVENTIVO: il Tribunale procede d’ufficio alla revoca in caso di frode da parte del debitore

Mer, 07/05/2014 - 15:35
Il Tribunale apre d'ufficio il procedimento per la revoca dell'ammissione al concordato preventivo quando il commissario giudiziale ha accertato e riferito il compimento di atti di frode da parte del debitore. La relativa qualificazione spetta al tribunale indipendentemente dalle espressioni usate dal commissario giudiziale, il quale ha il compito di accertare i fatti e di riferirli al tribunale. È quanto stabilito dalla Cassazione, prima sezione civile, che con la sentenza n.9271 del 24/04/2014 è stata chiamata a pronunciarsi in merito al ricorso proposto da una società avverso la decisione della Corte d’Appello di Venezia di dichiarare il fallimento a seguito della revoca del concordato preventivo. Nel caso di specie, il commissario giudiziale aveva accertato che nella proposta di concordato preventivo erano stati indicati crediti gonfiati, con forniture a clienti esteri senza richieste di anticipi o di garanzie, con la conseguenza che la situazione dell’attivo esposta con tale proposta di concordato appariva assai diversa dalla realtà accertata dall’organo concorsuale. Ebbene la società, nonché i suoi soci illimitatamente responsabili, deducevano che erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto possibile l'avvio del procedimento di revoca in assenza di una specifica richiesta in tal senso del commissario giudiziale, il quale si era limitato a riferire di una difficile se non impossibile riscossione dei crediti. Inoltre, l'eventuale alterazione dei valori di stima dell'attivo - sosteneva ancora la società ricorrente -  non poteva assumere rilievo di atto di frode in un concordato che non prevedeva la cessione dei beni ai creditori, ma il loro pagamento in percentuale. La Suprema Corte, decidendo sul caso de quo, ha stabilito, invece, che “spetta al Tribunale accertare il compimento di atti di frode da parte del debitore al di là delle espressioni utilizzate dal commissario giudiziale, il quale ha soltanto il compito di accertare i fatti e riferirli, mentre spetta ai giudici qualificarli”. Quanto, poi, alla qualificazione come atto di frode dell'alterazione dei valori di stima dell'attivo nell'ambito di un concordato che prevede il pagamento in percentuale dei creditori, è evidente che - continuano gli Ermellini – “quando le risorse per l'adempimento del concordato sono rappresentate dal provento della liquidazione dell'attivo, una falsa rappresentazione della sua consistenza incide certamente sul consenso informato dei creditori”. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha, pertanto, rigettato il ricorso condannando la società ed i soci al rimborso delle spese del giudizio....

RICORSO PER CASSAZIONE: è facoltà della parte ricorrente indicare l’indirizzo P.E.C. ovvero eleggere domicilio in Roma

Mer, 07/05/2014 - 10:58
 “Qualora, in mancanza di elezione di domicilio nel testo dell'esposizione del ricorso, nella procura conferita in calce o a margine del ricorso per cassazione la parte dichiari di eleggere domicilio con il suo difensore in Roma, indicando il relativo luogo (nella specie usando l'espressione «con voi»), si deve ritenere che la sottoscrizione per autenticazione della firma della parte, apposta successivamente dal difensore, esprima l'intento di eleggere domicilio in Roma nel luogo indicato agli effetti del secondo comma dell'art. 366 c.p.c”. “il secondo comma dell'art. 366 c.p.c., là dove allude alla indicazione dell'indirizzo di posta elettronica come determinante l'individuazione del luogo delle notificazioni da farsi al ricorrente in cassazione in via alternativa — siccome espresso dalla disgiuntiva «ovvero» - all'elezione di domicilio in Roma, deve intendersi nel senso che, se il ricorrente indichi sia un domicilio in Roma, sia l'indirizzo di posta elettronica e non invece una sola fra tali indicazioni, il controricorso può essere indifferentemente notificato sia presso il detto domicilio, sia tramite la posta elettronica.” Sono questi i principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione, sesta sezione, con l'ordinanza n. 8223 dell'8 aprile 2014 . Nel caso di specie, la parte ricorrente eccepiva l’inammissibilità del controricorso proposto dalla resistente, in quanto lo stesso non era stato notificato presso il domicilio eletto, indicato nell'epigrafe del ricorso introduttivo. La Suprema Corte, ha deciso, invece, per l'ammissibilità del suddetto controricorso, rilevando l'applicabilità, ratione temporis, del novellato art. 366 c.p.c.. Il Supremo Collegio ha evidenziato, infatti, come nel ricorso principale la parte ricorrente avesse indicato l'indirizzo P.E.C., salvo poi eleggere domicilio in Roma nel corpo della procura rilasciata in calce all'atto. Ebbene la successiva sottoscrizione dei due difensori per autenticazione è idonea, continuano i Giudici di legittimità, a confermare l'indicazione del domicilio siccome anche ad essi riferita e, dunque, ebbe il valore di dichiarazione di domicilio fatta dai medesimi. La Corte ha osservato, infatti, che l'art. 366 c.p.c., novellato dall'art. 25. co.1 lett. i) n.1 della L.183/2011, nell'indicare l'elezione di domicilio in Roma o l'indirizzo di posta elettronica certificata ai fini delle notificazioni, pone tali scelte come alternative. Pertanto, sarà facoltà della parte resistente notificare i propri atti difensivi indifferentemente, sia presso il domicilio eletto che presso l'indirizzo di posta elettronica certificata indicata nel ricorso principale. Ciò in quanto nel disposto normativo il legislatore utilizza la congiunzione disgiuntiva "ovvero", con ciò permettendo una scelta alla parte nell’indicazione delle modalità con cui potrà ricevere le notificazioni relative al ricorso proposto. Per completezza espositiva è opportuno dare conto che la Giurisprudenza di legittimità ha nel merito affermato che la elezione di domicilio in Roma, relativamente al ricorso per Cassazione, non deve essere considerata quale elemento essenziale ai fini della ammissibilità dello stesso (Cass. 2868/91). Di conseguenza il difetto di elezione di domicilio riverbera i propri effetti unicamente sulla modalità con cui verranno effettuate le notificazioni al ricorrente principale, che di fatto potranno essere effettuate presso la cancelleria della Corte di Cassazione ( Cass. 22895/05).  Alla luce di tali considerazioni, gli Ermellini hanno ritenuto ammissibile il controricorso in quanto legittimamente notificato da parte della resistente....

AGEVOLAZIONE PRIMA CASA: spetta se l'immobile è ubicato nel comune in cui l'acquirente svolge la propria attività

Mar, 06/05/2014 - 14:10
L’agevolazione fiscale prevista per l'acquisto della "prima casa" compete se l'immobile è ubicato nel comune in cui l'acquirente "ha" la propria residenza o ove la "stabilisca" entro diciotto mesi dalla data dell'acquisto ovvero se l'immobile è ubicato nel comune in cui l'acquirente "svolge" la propria attività. È questo il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione, quinta sezione civile, con la sentenza n. 17597, pubblicata il 12 ottobre del 2012. Il caso di specie trae origine dal ricorso per cassazione proposto da un contribuente avverso la sentenza di secondo grado che non gli riconosceva il godimento del beneficio fiscale per l’acquisto della prima casa. In particolare, il ricorrente sosteneva che fosse sufficiente il mero stabilimento “di fatto” della residenza presso l’immobile acquistato o, alternativamente, la fissazione della propria attività lavorativa nel Comune in cui è ubicata l'abitazione, anche fino a diciotto mesi dall'acquisto. I Giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi sul caso de quo, hanno affermato, invece, sulla base di un’attenta lettura dell'art. 1, Nota 2 Bis della Tariffa, Parte 1, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, che la norma riconoscesse l’agevolazione fiscale all’acquirente che nel termine di diciotto mesi fissasse la propria residenza nel comune dell’immobile, ma non anche a chi trasferisse la propria attività lavorativa nel medesimo comune in un epoca successiva all’acquisto dello stesso. Inoltre, la Corte ha precisato che, ai fini della fruizione dell'agevolazione fiscale per l'acquisto della prima casa, ad assumere rilievo deve essere la residenza anagrafica dell'acquirente e nessuna rilevanza giuridica può essere riconosciuta alla realtà fattuale. Per tutti questi motivi la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’acquirente, con condanna alle spese di giudizio. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si rinvia ai seguenti articoli: ACQUISTO "PRIMA CASA”: VALENZA DECISIVA ALLA RESIDENZA ANAGRAFICA AGEVOLAZIONI PRIMA CASA: NON SONO COMPUTATI GLI AMBIENTI NON AGIBILI AGEVOLAZIONI FISCALI PRIMA CASA: FA FEDE LA SOLA RESIDENZA ANAGRAFICA PRIMA CASA: LA RINUNCIA ALL'USUFRUTTO NON PRECLUDE LE AGEVOLAZIONI FISCALI SULL'IMMOBILE BENEFICI FISCALI PRIMA CASA: REGOLAMENTAZIONE E LIMITI  ...

DISCIPLINARE AVVOCATI: cancellato dall'Albo chi si appropria del denaro da destinare ai suoi clienti

Mar, 06/05/2014 - 13:53
 “L’avvocato che si appropria indebitamente di denaro da destinare ai suoi clienti, familiari di portatori di handicap, viene definitivamente cancellato dall’albo degli avvocati.” Questo è il principio di diritto statuito dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8932 del 25.03.2014, in ordine alle sanzioni da comminare al legale che abbia posto in essere una grave violazione del codice deontologico forense. La sentenza in commento trae origine dal ricorso per cassazione proposto da un avvocato avverso la sentenza del CNF che gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo per essersi indebitamente appropriato di diverse migliaia di euro, avute dalla Regione Campania quali benefici ex Legge Regionale n. 11 del 1984, da versare a propri assistiti, familiari di persone portatrici di handicap, ed inoltre per non aver comunicato all’ordine di appartenenza la variazione di domicilio professionale. In particolare, l’avvocato ricorrente deduceva l’inadeguatezza della sanzione comminatagli rispetto ai fatti ascritti allo stesso. I Giudici della Suprema Corte, intervenendo sulla questione, hanno ribadito un orientamento ormai consolidato, statuendo che il potere di applicare la sanzione appartiene agli organi disciplinari e che la determinazione della stessa non può essere oggetto di un giudizio di legittimità. Infatti, per la S.C. nei procedimenti disciplinari, a carico degli avvocati, trovano applicazione le sole norme particolari dettate dalla legge professionale, che conferiscono agli ordini professionali pieno ed esclusivo potere sanzionatorio. Gli Ermellini, però, riconoscono che il potere sanzionatorio è comunque subordinato al principio di adeguatezza della sanzione al grado di offesa, nonché al prestigio e al decoro dell'ordine professionale. Alla luce di tali considerazioni, dunque, i Giudici di legittimità, hanno dichiarato il ricorso introduttivo inammissibile....

DISCIPLINARE AVVOCATI: cancellazione dall'Albo chi si appropria del denaro da destinare ai suoi clienti

Mar, 06/05/2014 - 13:53
 “L’avvocato che si appropria indebitamente di denaro da destinare ai suoi clienti, familiari di portatori di handicap, viene definitivamente cancellato dall’albo degli avvocati.” Questo è il principio di diritto statuito dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8932 del 25.03.2014, in ordine alle sanzioni da comminare al legale che abbia posto in essere una grave violazione del codice deontologico forense. La sentenza in commento trae origine dal ricorso per cassazione proposto da un avvocato avverso la sentenza del CNF che gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo per essersi indebitamente appropriato di diverse migliaia di euro, avute dalla Regione Campania quali benefici ex Legge Regionale n. 11 del 1984, da versare a propri assistiti, familiari di persone portatrici di handicap, ed inoltre per non aver comunicato all’ordine di appartenenza la variazione di domicilio professionale. In particolare, l’avvocato ricorrente deduceva l’inadeguatezza della sanzione comminatagli rispetto ai fatti ascritti allo stesso. I Giudici della Suprema Corte, intervenendo sulla questione, hanno ribadito un orientamento ormai consolidato, statuendo che il potere di applicare la sanzione appartiene agli organi disciplinari e che la determinazione della stessa non può essere oggetto di un giudizio di legittimità. Infatti, per la S.C. nei procedimenti disciplinari, a carico degli avvocati, trovano applicazione le sole norme particolari dettate dalla legge professionale, che conferiscono agli ordini professionali pieno ed esclusivo potere sanzionatorio. Gli Ermellini, però, riconoscono che il potere sanzionatorio è comunque subordinato al principio di adeguatezza della sanzione al grado di offesa, nonché al prestigio e al decoro dell'ordine professionale. Alla luce di tali considerazioni, dunque, i Giudici di legittimità, hanno dichiarato il ricorso introduttivo inammissibile....

FALLIMENTO – RIPETIZIONE DI INDEBITO: il curatore non può eccepire la mancanza di data certa dei contratti

Mar, 06/05/2014 - 13:35
Il curatore, il quale agisca in giudizio per la restituzione di una somma di denaro, che assuma corrisposta indebitamente in epoca antecedente all'apertura della procedura concorsuale, esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio del soggetto sottoposto alla procedura, ponendosi nella sua stessa posizione sostanziale e processuale, nella posizione, cioè, che il soggetto avrebbe avuto, agendo in bonis in proprio al fine di acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza. In questi casi, infatti, il curatore del fallimento non agisce in sostituzione dei creditori al fine della ricostituzione del patrimonio originario del fallito, e cioè nella veste di terzo, ma esercita un'azione trovata nel patrimonio del fallito medesimo, come avente causa di questo, ponendosi nella stessa posizione sostanziale e processuale del fallito, quale sarebbe stata anche se il fallimento non fosse stato dichiarato, al fine di fare entrare nel suo patrimonio attività che gli competevano già prima della dichiarazione di fallimento e che sono indipendenti dal dissesto successivamente verificatosi (giurisprudenza costante da Cass. 28 ottobre 1982 n. 5926; tra le più recenti Cass. 8 settembre 2004 n. 18059). Cosi si è pronunziata la Corte di Cassazione, sezione prima, con sentenza n.23429 del 19/12/2012, nell’ambito di un giudizio proposto dalla curatela fallimentare al fine di ottenere la restituzione, ex art. 2033 c.c. della somma corrisposta dalla fallita in bonis a titolo di maggiorazione di canone d'affitto, in base a un contratto d'affitto d'azienda.  La convenuta aveva dedotto che il pagamento chiesto in restituzione era giustificato da una transazione, in relazione alla quale il curatore aveva eccepito l'inopponibilità della stessa perchè priva di data certa. Il Tribunale aveva ritenuto che la certezza della data dovesse dedursi dalla sua anteriorità alla cancellazione dal ruolo della causa instaurata, dalla società allora in bonis, per ottenere la restituzione dei maggiori canoni pagati vin precedenza.  In particolare, il Tribunale aveva utilizzato le deposizioni testimoniali dei due legali delle parti, che avevano riferito che la causa fu cancellata dal ruolo dopo la sottoscrizione della transazione. La Corte d'Appello di Firenze aveva confermato il giudizio del Tribunale.  Proposto ricorso per Cassazione, la Corte affronta la questione del modo corretto di applicare l'art. 2704 c.c., rilevando, correttamente, come la eccezione di inopponibilità della transazione intervenuta tra la società, allora in bonis, e la società locatrice postuli che il curatore agisca nella fattispecie quale terzo, a tutela degli interessi dei creditori, e senza avvalersi di un'azione presente già nel patrimonio del fallito. La Suprema Corte richiama l'orientamento consolidato della corte secondo cui "il curatore, il quale agisca in giudizio per la restituzione di una somma di denaro, che assuma corrisposta indebitamente in epoca antecedente all'apertura della procedura concorsuale, esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio del soggetto sottoposto alla procedura, ponendosi nella sua stessa posizione sostanziale e processuale, nella posizione, cioè, che il soggetto avrebbe avuto, agendo in bonis in proprio al fine di acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza" (cfr., di recente, Cass. 19 novembre 2008 n. 27510). In questi casi, infatti, il curatore del fallimento non agisce in sostituzione dei creditori al fine della ricostituzione del patrimonio originario del fallito, e cioè nella veste di terzo, ma esercita un'azione trovata nel patrimonio del fallito medesimo, come avente causa di questo, ponendosi nella stessa posizione sostanziale e processuale del fallito, quale sarebbe stata anche se il fallimento non fosse stato dichiarato, al fine di fare entrare nel suo patrimonio attività che gli competevano già prima della dichiarazione di fallimento e che sono indipendenti dal dissesto successivamente verificatosi (giurisprudenza costante da Cass. 28 ottobre 1982 n. 5926; tra le più recenti Cass. 8 settembre 2004 n. 18059). Muovendo da tali premesse, la Corte giunge alla conclusione che nella fattispecie in esame non può farsi questione di data certa e della sua opponibilità al curatore, con il conseguente assorbimento delle questioni sollevate con i primi due motivi, nella parte concernente l'omessa questione dell'idoneità della documentazione prodotta dalla società a provare in modo certo l'anteriorità della formazione del documento e circa l'ammissibilità della prova testimoniale. In altri termini, solo allorquando il curatore del fallimento agisce in sostituzione dei creditori, al fine di ricostruire il patrimonio originario del fallito (accertamento del passivo, azione di revocatoria fallimentare etc.), potrà invocare la sua veste di terzo e, pertanto, il principio della inopponibilità dei documenti privi di data certa, mentre quando il curatore si pone nella stessa posizione sostanziale e processuale del fallito, esercitando una azione che già competeva al fallito prima della dichiarazione di fallimento e che è indipendente dalla stessa, agisce come avente causa del fallito medesimo, con la conseguenza che in tale seconda ipotesi non potrà invocare l’applicazione dell'art. 2704 c.c.....

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