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Aggiornato: 1 ora 42 min fa

DERIVATI: validi anche se l’alea è soltanto a carico dell’investitore

Mar, 06/05/2014 - 08:20
La causa tipica dello swap è costituita dallo scambio di flussi finanziari in base alle variazioni dei tassi, mentre lo scambio reciproco dei rischi commerciali (che è soltanto la conseguenza della variazione predetta) è elemento esterno al negozio e ne connota la natura tendenzialmente aleatoria ed economicamente incerta per le parti contraenti. La mancanza di alea bilaterale, pertanto, non potrebbe neanche astrattamente determinare la nullità negoziale per difetto di causa. Questo il principio affermato dal Tribunale di Milano, Giudice dott. Francesco Ferrari, sentenza n.978 del 28 gennaio 2014, in tema di contratti derivati e di nullità per difetto causa, respingendo la domanda di un cliente anche con la condanna al pagamento delle spese processuali. La decisione in commento, è stata assunta a definizione del giudizio proposto da una società in danno di un intermediario finanziario per sentir pronunciare la nullità di un contratto di interest rate swap per difetto di causa o comunque per difetto di accordo sull’alea, sul presupposto che la banca, al momento della stipula, sarebbe stata certamente in grado di determinare ex ante - sulla base del tasso forward - la tendenza al ribasso del tasso Euribor, con conseguenti differenziali negativi e addebiti di interessi a carico del cliente, circostanza che si sarebbe verificata  dopo poco la stipula. Con tale decisione, il Giudice meneghino, nel ritenere valido e legittimo il contratto derivato, prende le distanze dalla teoria della scommessa razionale condivisa dalla Corte d’appello di Milano, in data 18 settembre 2013, dal Tribunale di Torino, in data 27 gennaio 2014, secondo cui banca e cliente devono conoscere e condividere la misura, scientificamente misurata, dell’alea che assumono  con la sottoscrizione dello strumento finanziario. Le pronunce precedenti avevano, infatti, affermato, con portata innovativa ma non immune da critiche, che, essendo pacifico che qualsiasi derivato è un contratto di “scommessa lecita ed autorizzata”, gli scommettitori (banca e cliente) devono essere entrambi in grado di stabilire o, comunque, conoscere le probabilità di “vincita” della scommessa al momento della sua conclusione, con la conseguenza che l’eventuale assenza di elementi, per il cliente che non potesse essere inquadrato come “operatore qualificato”, in grado di far conoscere gli “scenari probabilistici” di vincita della scommessa, avrebbe un impatto sulla validità del contratto determinandone la nullità per mancanza di causa o, comunque, per mancanza di accordo su un elemento essenziale. Dette decisioni, però, non possono del tutto convincere laddove si rilevi che mai nessuna norma ha espressamente richiesto agli intermediari di fornire informazioni sugli “scenari di probabilità”, per cui tale requisito – per giunta a pena di nullità- è estraneo ed ulteriore rispetto alla regolamentazione di dettaglio applicabile alla negoziazione di strumenti finanziari. La società attrice, infatti, lamentava che tale conoscenza da parte della Banca avrebbe fatto venire meno ab origine l’elemento essenziale del contratto costituito dalla causa tipica aleatoria. Sul punto, il Tribunale di Milano, con la sentenza in commento, ha rilevato la circostanza del “ribasso dei tassi Euribor manifestatosi poco tempo dopo la stipula del contratto” ma statuisce che le cause sarebbero da attribuire ad un “factum principis”  e, cioè, alle decisioni delle Banche Centrali in considerazione della stagnazione economica, e che tale “factum principis” rappresenterebbe non già un evento previsto o prevedibile, probabile o improbabile, ma una mera “concretizzazione dell’alea contrattuale”. Il Giudice specifica ulteriormente che la mancanza di alea bilaterale non potrebbe neanche astrattamente determinare la nullità negoziale per difetto di causa. Il principio di diritto, logicamente motivato con la sentenza appare chiaro e può, così, essere sintetizzato: 1) l’intermediario non deve prevedere l’andamento del derivato che va a concludere col cliente informando sugli “scenari probabilistici” della scommessa; 2) il derivato deve prevedere i criteri di liquidazione dei differenziali;  3) il contratto è aleatorio ed valido anche se l’alea è a carico solo del cliente....

PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA: sentenza ex art.2932 cc conseguibile anche per immobile con irregolarità urbanistica

Lun, 05/05/2014 - 14:17
  "In tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c., non solo allorchè l'immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia (e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione), ma anche quando l'immobile sia caratterizzato da totale difformità dalla concessione (e manchi la sanatoria). Ove, invece, l'immobile - munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati nè revocati - abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di una nuova scala esterna), non sussiste alcuna preclusione all'emanazione della sentenza costitutiva, perchè il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo, ed è pertanto illegittimo il rifiuto del promittente venditore di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata dalla promissaria acquirente". Esprimendo tale principio di diritto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n.8081 del 7 aprile 2014 in commento, definisce i limiti di applicabilità dell’art.40 II comma della legge n.47 del 1985 recante Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali.  Per una analisi approfondita della pronuncia, è opportuno prendere le mosse dall’individuazione del contesto normativo. IL CONTESTO NORMATIVO   Art.40, secondo comma - Legge n.47 del 1985  “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell'articolo 31 ovvero se agli atti stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione di cui al sesto comma dell'articolo 35. Per le opere iniziate anteriormente al 1° settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l'opera risulti iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967”. La disposizione dell’art.40, sin dalla sua entrata in vigore è stata al centro di un dibattito che ha visto contrapporsi una lettura formale ad una lettura sostanziale delle norme in essa enunciate. Infatti, secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, l’ambito della sua applicazione andava definito attenendosi fedelmente al testo. Pertanto, la sanzione della nullità colpiva solo contratti ad effetti reali in cui mancasse la dichiarazione dell’alienante relativa all’esistenza del titolo edilizio. Secondo altra dottrina e giurisprudenza, come, peraltro, rilevato anche dal Consiglio del Notariato, l’interpretazione formale rischiava di entrare in contrasto con la ratio della legge n.47 del 1985 finalizzata a combattere il fenomeno dell’abusivismo edilizio, ormai non più definibile “di necessità”, e a tutelare l’interesse generale della collettività e del mercato che gli immobili nascano e si trasmettano soltanto se non sono edificati abusivamente. Pertanto, è stata proposta una lettura “sostanziale” tendente ad ampliare l’ambito di applicazione della sanzione della nullità ex art.40, al di là dello stretto dettato normativo. Secondo tale interpretazione, dunque, è necessario che si accerti la veridicità della dichiarazione dell’alienante, verificando l’effettiva esistenza dei titoli edilizi.  IL COMMENTO Il giudice può trasferire l’immobile con una sentenza costitutiva ex articolo 2932 cc anche quando il cespite presenta un’irregolarità urbanistica.  Se il vizio non è grave, laddove la difformità dei locali rispetto alla concessione edilizia risulta soltanto parziale, può invero provvedere il giudice a dichiarare l’obbligo di concludere il contratto perché il corrispondente negozio fra le parti non sarebbe comunque nullo. La Corte di Cassazione con la sentenza n.8081 del 7 aprile  2014 fornisce, pronunziandosi in questi termini, un ulteriore contributo al dibattito sul tema della alienazione di immobili con irregolarità urbanistiche, esaminando  la possibilità che il promittente acquirente, ai sensi dell’art.2932 c.c., ottenga una sentenza costitutiva degli effetti di una compravendita definitiva che abbia come presupposto un contratto preliminare di un immobile edificato prima della cosiddetta legge Ponte del 1967 e, successivamente, oggetto di lavori di ristrutturazione effettuati senza le richieste autorizzazioni.  Ebbene, il Giudice di legittimità ha rilevato, in primo luogo, che al contratto preliminare non si può applicare l’art.40 della legge n.47 del 1985 che fa espresso riferimento solo a contratti ad effetti reali. Pertanto, un preliminare avente ad oggetto un immobile con gravi irregolarità edilizie non può essere dichiarato nullo.  La Corte, poi, osserva che dopo il preliminare si può procedere alla sanatoria delle irregolarità dei titoli edilizi. In tal modo potrà essere stipulata una valida compravendita definitiva. Similmente, a seguito dalla sanatoria, il promittente acquirente potrà conseguire una sentenza ex art.2932 c.c.  Diversamente, laddove non si dovesse procedere alla sanatoria, il contratto definitivo di compravendita sarebbe nullo e il promittente acquirente non potrebbe ottenere alcuna sentenza costitutiva.  L’art.40 II comma della legge n.47 del 1985, quindi, trova applicazione, non solo con riferimento alla compravendita definitiva, ma anche alla sentenza ex art.2932 c.c. Del resto la sentenza costitutiva altro non è che un provvedimento giudiziale volto a sostituire l’atto negoziale e non può permettere di realizzare un effetto diverso rispetto a quello connesso all’atto negoziale.  Concludendo, la sentenza ex art.2932 c.c. non può essere pronunciata quando l'immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia e manchi la prescritta documentazione alternativa (concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione), e quando l'immobile sia caratterizzato da totale difformità dalla concessione e manchi la sanatoria. Invece, quando l’immobile munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati, né revocati, presenti un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione, non sussiste alcuna preclusione all'emanazione della sentenza costitutiva, perché il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo....

RICORSO FALLIMENTO: nuove modalità di notifica. Indispensabile il tentativo presso la sede legale

Lun, 05/05/2014 - 09:43
La notifica del ricorso di fallimento direttamente attraverso il deposito presso la Casa Comunale integra soltanto l’ultimo tassello di un procedimento che il legislatore ha espressamente descritto quale progressivo nel suo esperirsi e perfezionarsi. La modalità in parola, dovrà quindi essere attuata solo in ipotesi di insuccesso della via telematica e di quella effettuata presso la sede sociale.  È quanto ribadito dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presidente Gianpiero Scoppa, relatore Valeria Maisto che, con l’ordinanza emessa il 02/04/2014, ha dichiarato improcedibile l’istanza di fallimento presentata da una società creditrice nei confronti di altra società in liquidazione. Nel caso di specie, dalla relata di notifica in atti si evinceva come l’Ufficiale Giudiziario avesse eseguito la notifica di detto ricorso direttamente attraverso il deposito presso la Casa Comunale della sede dell’impresa, nulla aggiungendo in ordine al prodromico tentativo, previsto dalla legge, di notifica presso la sede sociale, con conseguente irregolarità dell’intero processo notificatorio e, quindi, improcedibilità del ricorso di fallimento.  Il Tribunale ha, infatti, evidenziato come a norma dell’art 15, co.3 L.Fall., come novellato dall’art. 17, co.1, lett. a) del d.l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito, con modificazioni nella L. 221 del 2012, per la notifica dei ricorsi di fallimento depositati a far data dal 01/01/2014 sia previsto un procedimento trifasico e progressivo, che può essere così sintetizzato: 1) notifica da effettuarsi a cura della cancelleria, all’indirizzo di Posta Elettronica Certificata fornito dal debitore al Registro delle Imprese ovvero all’Indice Nazionale degli indirizzi di PEC delle imprese e dei professionisti- cd INI-PEC, istituito dallo stesso D.L. 179/2012 mediante l’introduzione dell’art. 6-bis nel D.Lgs. 82/2005; 2) notificazione da eseguirsi esclusivamente di persona ai sensi dell’art.107, primo comma, DPR.n.1229/1959, presso la sede risultante dal Registro delle Imprese, da intendersi la stessa quale sede legale o, ove vi sia discrepanza tra la stessa e la sede effettiva dell’organo sociale, anche presso quest’ultima; 3) ove anche il tentativo fatto dall’Ufficiale Giudiziario presso la sede risultante dal Registro delle Imprese risultasse inutiliter datum, la notifica dovrà essere fatta attraverso il deposito dell’atto presso la casa comunale della sede dell’impresa come prima individuata, perfezionandosi al momento stesso del deposito, a differenza di quanto previsto dall’art.143 cpc. La ratio del legislatore è quella di accelerare l’intero processo notificatorio prodromico all’istruttoria prefallimentare. I Giudici, hanno, pertanto, alla luce della dell’assenza del perfezionamento del procedimento notificatorio, dichiarato il ricorso improcedibile, non concedendo ulteriore termine per la notificazione, addebitando al creditore la “colpa” del non esatto instaurarsi del contraddittorio. In conclusione, nel tentativo di cercare un – arduo – bilanciamento tra l’interesse del creditore alla notifica del ricorso in tempi rapidi e quello del debitore alla conoscibilità “legale” dell’istanza presentata, la nuova disciplina non consente che, in caso di mancato perfezionamento funzionamento della notificazione tramite PEC, il creditore ricorrente possa procedere al deposito alla casa comunale senza aver prima tentato la notificazione presso la sede legale dell’imprenditore. Per un maggiore approfondimento sull’argomento si segnalano i seguenti articoli: 1.LA NOTIFICA DEL RICORSO DI FALLIMENTO DALL’1.1.2014 2.UDIENZA PREFALLIMENTARE IMPRENDITORE RESIDENTE ALL’ESTERO: È VALIDA LA NOTIFICA ESEGUITA C/O LA SEDE DELLA DITTA 3. UDIENZA PREFALLIMENTARE: RICORSO E DECRETO NOTIFICATI VIA PEC DALLA CANCELLERIA...

ELUSIONE FISCALE: non c’è abuso se non c’è risparmio fiscale per il contribuente

Lun, 05/05/2014 - 09:21
L’elusione fiscale sussiste soltanto qualora sia dimostrato che il vantaggio tributario conseguito sia da considerarsi “indebito”, ossia contrario alla ratio della disciplina che lo contempla.   Con l’ordinanza n. 6415 del 19/03/2014, i Supremi Giudici della Cassazione civile, sezione sesta, fissano un’ulteriore limite sulle possibilità, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, di poter (legittimamente) contestare l’abuso del diritto su operazioni commerciali poste in essere dal contribuente.   Nel caso di specie, un contribuente impugnava un avviso di accertamento ai fini Irpef, col quale l’Agenzia delle Entrate contestava un’articolata cessione immobiliare: a detta degli uffici finanziari, infatti, l’atto di vendita con cui una società a base familiare, aveva venduto al contribuente un appartamento, costituiva – in realtà – un atto di liquidazione della quota sociale di pertinenza del contribuente, e come tale fonte di plusvalenza imponibile ai fini Irpef.   I Giudici di primo grado accoglievano integralmente l’istanza del contribuente che, tuttavia, vedeva ribaltarsi il verdetto in Ctr, laddove venivano accolte le doglianze dell’Agenzia, con conseguente dichiarazione di legittimità dell’avviso impugnato.   La Cassazione, chiamata pronunciarsi sul caso de quo, ha, tuttavia, stabilito che “non c’è abuso se non c’è risparmio fiscale (e questo risparmio non costituisce la ragione dell’abuso), e comunque il recupero fiscale non può essere superiore al vantaggio conseguito con l’abuso”. A parere del Supremo Consesso quindi, per addivenire alla conclusione che le operazioni poste in essere dal contribuente abbiano costituito un abuso del diritto e quindi per accertare la portata di tale eventuale abuso, occorre preliminarmente che l’Ufficio individui in maniera analitica il regime e gli oneri fiscali che il contribuente avrebbe dovuto assolvere se avesse seguito le procedure che l’Amministrazione ritiene “più semplici e lineari”, non potendo la stessa meramente limitarsi a criticare apoditticamente le operazioni concluse dal contribuente le quali, sebbene complesse ed articolate, sono da considerarsi del tutto legittime e corrette.   Ebbene con questa ulteriore pronuncia, la Corte ha rafforzato l’orientamento giurisprudenziale con cui sia i giudici di legittimità che di merito (vedi per tutti: Cass.n. 20030/2010, Ctp Reggio Emilia 140/3/2013) hanno sconfessato apertamente l’operato dell’Amministrazione Finanziaria, qualora la stessa non dimostri expressis verbis quali siano le norme tributarie aggirate dal contribuente per addivenire al risparmio d’imposta.   Alla luce di tali considerazioni, i Giudici di legittimità hanno, dunque, cassato con rinvio la sentenza impugnata....

CONCORDATO PREVENTIVO: La delibera degli amministratori è presupposto per la presentazione della domanda

Mer, 30/04/2014 - 16:38
La delibera degli amministratori, di "approvazione" della domanda di concordato, deve esistere già al momento della presentazione di quest’ultimo, costituendone un presupposto. Né può invocarsi, al fine di consentirne la produzione anche dopo il deposito del ricorso, l'art. 162, comma 1, l.fall., che consente al tribunale di fissare al debitore un termine ma solo per produrre "nuovi documenti" e non anche per sanare la lacuna relativa agli atti da depositare insieme alla domanda, come previsti dall'art. 161, commi 1, 2, 3 e 4 1.fall.. Questi i principi enunciati dal Tribunale di Napoli, Sezione Fallimentare, Giudice Relatore dott. De Matteis, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo ove la società istante, nel presentare la domanda di concordato ai sensi dell'art. 161, comma 6, 1.fall., non solo non aveva depositato la deliberazione dell'amministratore, ma aveva omesso di allegare e/o dedurre, altresì, che la domanda era stata approvata con deliberazione di quest’ultimo ( risultante "da verbale redatto da notaio")e che tale deliberazione era stata "depositata ed iscritta nel registro delle imprese a norma dell'art. 2435 del codice civile". Il Tribunale, ha osservato come la società si fosse, viceversa, limitata a depositare la delibera assembleare con cui i soci avevano deliberato di "approvare l'intenzione dell'amministratore unico in relazione all'accesso della società alla procedura di concordato preventivo....” . Né tanto meno la delibera dell'organo amministrativo (necessaria anche in caso di amministratore unico: Corte di Appello Napoli sent. 114/2013) era risultata successivamente assunta (e depositata) in occasione del deposito del piano e della relazione. Orbene, il Tribunale rileva come la delibera degli amministratori di "approvazione" della domanda di concordato costituisca un presupposto per la sua presentazione e che, in quanto tale, deve esistere già in tale momento. Tanto, ai sensi dell’art. 161, comma 4 1.fall., secondo cui "per la società la domanda deve essere approvata e sottoscritta a norma dell'ari. 152" . La norma in parola, infatti, a sua volta, al comma 2, lett. b) ed al comma 3, prevede che, nella società a responsabilità limitata. "la proposta e le condizioni del concordato", salva diversa disposizione dell'atto costitutivo o dello statuto. "sono deliberate dagli amministratori', e tale deliberazione "deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta nel registro delle imprese a norma dell'art. 2436 del codice civile”. I Giudici precisano, inoltre, come non possa invocarsi, al fine di consentirne la produzione anche dopo il deposito del ricorso, l'art. 162, comma 1, l.fall., che consente al Tribunale di fissare al debitore un termine per produrre "nuovi documenti", e non anche per sanare la lacuna relativa agli atti da depositare congiuntamente alla domanda, così come previsti dall'art. 161, commi 1, 2, 3 e 4, 1.fall..  Tanto, del resto, è confermato dal nuovo testo dell'art 161, comma 6, 1.fall., nella parte in cui prevede che il debitore possa presentare domanda di concordato con riserva (solo) della proposta, del piano e della documentazione di cui ai commi 2° e 3° e non anche della delibera di approvazione di cui al comma 4' dello stesso articolo. Muovendo da tali presupposti, vista l’impossibilità, nel caso di specie, di concedere un termine per la produzione della delibera dell'organo amministrativo, trattandosi di documento che deve preesistere alla presentazione della domanda di concordato preventivo, il Tribunale ha dichiarato inammissibile la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo. Si riporta, per una immediata lettura , il contenuto dell’art.152 lf, che disciplina la PROPOSTA DI CONCORDATO: I. La proposta di concordato per la società fallita è sottoscritta da coloro che ne hanno la rappresentanza sociale.  II. La proposta e le condizioni del concordato, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto:  a) nelle società di persone, sono approvate dai soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale;  b) nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, nonché nelle società cooperative, sono deliberate dagli amministratori.  III. In ogni caso, la decisione o la deliberazione di cui alla lettera b), del secondo comma deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta nel registro delle imprese a norma dell’articolo 2436 del codice civile. ...

USURA BANCARIA: non rileva il cumulo degli interessi corrispettivi con gli interessi moratori

Mer, 30/04/2014 - 15:56
In materia di usura bancaria, non rileva il cumulo degli interessi corrispettivi ultralegali con gli interessi moratori, ai fini del raffronto al tasso-soglia. Gli artt.644 cp e 1815 cc- insuscettibili di interpretazione analogica – fanno chiaro riferimento alle prestazioni di natura “corrispettiva” gravanti sul mutuatario, legate alla fisiologica attuazione del programma negoziale. Restano, così, escluse le prestazioni accidentali, sinallagmaticamente riconducibili al futuro inadempimento e destinate ad assolvere, in chiave punitiva, alla funzione di “moral suasion” finalizzata al corretto adempimento del contratto. Così si è pronunciato il Tribunale di Verona, nella persona del dott.A.Mirenda, con sentenza del 28 aprile 2014, decidendo sulla domanda di un mutuatario, volta ad ottenere la declaratoria di nullità delle clausole relative agli interessi ultralegali e di mora, sul presupposto che il cumulo degli interessi predetti avrebbe determinato il superamento della soglia di usura. La decisione prede le mosse dall’accertamento di due dati di fatto: - l’interesse ultralegale (corrispettivo) dedotto in contratto era stato pattuito nei limiti del tasso soglia; - per effetto del cumulo degli interessi corrispettivi (4,75%) con quelli moratori (+2%) si sarebbe verificato il superamento del tasso soglia individuabile ratione temporis. Ciò considerato in fatto, in punto di diritto la risoluzione della controversia sta tutta nell’individuazione dell’esatta portata del principio enucleato dalla Cassazione nella nota pronuncia n.350/2013, ove sarebbe stato sancito - a dire di parte attrice - il criterio del cumulo dei due differenti tassi, al fine dell’individuazione del valore percentuale da rapportare alla soglia di usura. Il Giudice scaligero, pur sottolineando l’autorevolezza del precedente, ne ha motivatamente preso le distanze, affermando sì che può darsi per scontato l’assoggettamento “anche” degli interessi di mora alla disciplina imperativa in tema di usura, ma che altrettanto scontato non sia il principio della additività dei due tassi nella verifica dell’usura c.d. “oggettiva”. Nella motivazione si osserva che una tale prospettazione potrebbe dirsi condivisibile sol se fosse dimostrata l’identità ontologica e funzionale delle due categorie di interessi. L’intero impianto normativo in materia di usura, infatti, si fonda sull’integrazione extratestuale di una norma penale c.d. “in bianco” (come tale non suscettibile di interpretazione analogica, secondo i principi delle “pre-leggi”), nella quale si fa riferimento alle prestazioni di natura “corrispettiva” gravanti sul mutuatario, legate alla fisiologica attuazione del programma negoziale. Gli oneri che, come gli interessi di mora, non partecipano di questa natura “corrispettiva”, non rilevano ai fini dell’individuazione del tasso “effettivo” da raffrontare alla soglia. Precisa il Tribunale, che gli interessi moratori rientrano tra quelle prestazioni “accidentali” (e perciò meramente eventuali) sinallagmaticamente riconducibili al futuro inadempimento e destinate ad assolvere, in chiave punitiva, alla funzione di moral suasion finalizzata alla realizzazione del “rite adimpletum contractum”. Ed infatti, proprio a dimostrazione di questa natura latamente “punitiva”, l’art.1224 cc introduce coattivamente, per il caso dell’inadempimento, gli interessi di mora in uno schema contrattuale che non li abbia originariamente previsti. Stante tale differenza ontologica e funzionale (che su questa rivista è stata attentamente evidenziata nel commentare pronunce analoghe – cfr., sull'argomento , la rassegna giurisprudenziale “IL PUNTO SULL’USURA BANCARIA” - correttamente la Banca d’Italia, chiamata ad effettuare trimestralmente le rilevazioni dei tassi medi ai fini dell’applicazione della l.108/1996, non comprende nel calcolo del TEG gli interessi di mora. Tuttavia – nota il Giudice – la Banca d’Italia non omette del tutto di considerare gli interessi di mora ai fini della l.108/1996, ma ne fa oggetto di separata rilevazione (nella misura del 2,1%). Se il supremo organo di vigilanza svolge tale separata rilevazione, non vi è ragione logica per sostenere l’additività dei due tassi da raffrontare ad un valore-soglia che, in realtà, non ricomprende affatto i tassi di mora (si ricordi che il tasso soglia è individuato secondo un meccanismo di calcolo a partire dal TEGM, che, come detto, non prende in considerazione i tassi di mora, n.d.r.). Il punto dirimente, però, è un altro: il Tribunale precisa che cumulare i due tassi comporterebbe una violazione al principio di civiltà giuridica del “nullum crimen sine lege” (art.1 cp), atteso che i Decreti Ministeriali contenenti le rilevazioni trimestrali recepiscono pedissequamente le rilevazioni stesse, stabilendo che le banche e gli intermediari finanziari, al fine del rispetto del limite di usura, si attengono ai criteri di calcolo delle istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio emanate dalla Banca d’Italia.  La tesi del “cumulo”, pertanto, “condurrebbe all’abnorme risultato di configurare il reato [di usura] in difetto di norma incriminatrice”. A dire del Giudice veronese – e qui sta la portata fortemente innovativa della pronuncia - se il legislatore ha sottolineato la necessità di dar corso alle rilevazioni nell’ambito di “operazioni della stessa natura”, BankItalia ha correttamente inteso – evitando di omogeneizzare categorie di interessi pecuniari eterogenei – enucleare una specifica soglia usuraria ad hoc. In conclusione, respingendo la domanda, il Tribunale ha ben posto in evidenza l’illogicità della tesi “all inclusive” sostenuta da parte attrice, nonché la criticabilità della pronuncia della Cassazione (o, quantomeno, di una sua strumentale interpretazione, n.d.r.), che “presta il fianco alla censura di irrazionalità”.  Ove volesse condividersi la tesi del “cumulo”, comparando artificiosamente dati del tutto disomogenei, occorrerebbe infatti discostarsi dalle rilevazioni del TEGM di cui ai decreti ministeriali, rivedendolo in aumento attraverso una “poderosa CTU destinata ad accertare il valore aggiuntivo medio nazionale dei saggi di mora. Solo in esito a tale enorme sforzo gnoseologico sarebbe, quindi, possibile comparare i “numeri” così ottenuti con i tassi “all inclusive” asseritamente predicati dall’art. 644 cp”. Il paradosso della conclusione vale da solo a dimostrare l’illogicità delle premesse....

CONCORDATO IN BIANCO: l'ammissione con riserva non può tradursi in un illegittimo mezzo per evitare il fallimento

Mer, 30/04/2014 - 10:45
La presentazione di una domanda di concordato preventivo non può essere utilizzata al solo scopo di procrastinare la dichiarazione di fallimento per poi invocare la scadenza dei termini ex art.10 LF, ove si accerti che i presupposti della seconda siano i medesimi in base ai quali è stato proposta la domanda di concordato. La procedura fallimentare che venga procrastinata stante il deposito di una domanda di concordato preventivo in bianco conclusosi poi con la revoca ex artt.163 e 173 LF determina l’applicabilità del principio della consecutività delle procedure Ne deriva che il dies a quo ex art.10 LF decorre a ritroso dalla data di ammissione alla procedura concordataria e non dalla revoca della stessa. Così si è pronunciato il Tribunale di Rovigo, Giudice dott. Martinelli che con sentenza del 27.03.2014 ha dichiarato, su ricorso presentato da un creditore, il fallimento di una società inattiva da più di un anno. L’adito Giudicante ha correttamente rilevato che la detta società un anno prima aveva richiesto l'ammissione con riserva al concordato in bianco, successivamente revocato per mancato deposito del fondo spese per cui in applicazione di quanto statuito da ormai consolidata giurisprudenza trova applicazione il principio della consecutività delle due procedure concorsuali, costituendo la sentenza di fallimento l’atto terminale del procedimento. Nel dettaglio, il Tribunale ha sposato la tesi della consecutività delle due procedure - la domanda di ammissione al concordato preventivo ai sensi dell'art. 160 l.f. e la dichiarazione di fallimento - nei casi in cui sia possibile dimostrare (anche attraverso l'impiego di una serie di indici quali l'inattività della ditta individuale) come l'elemento oggettivo (lo stato di crisi dell'impresa), che fonda la richiesta di concessione dello strumento concordatario, coincida con lo stato di insolvenza dell'imprenditore. Deriva dalla consecutività delle due procedure il fatto che l'imprenditore possa essere dichiarato fallito anche a ridosso della revoca del concordato, dal momento che deve considerarsi come dies a quo - utile al decorso del termine previsto dall'art. 10 l.f. - il momento in cui era stata presentata la domanda di concordato e non quello, evidentemente successivo, della revoca dello stesso. Secondo il Giudice veneto, tali considerazioni sono a maggior ragione suscettibili di applicazione alla luce delle novità introdotte nel 2012 con la riforma della legge fallimentare: la possibilità, concessa all'imprenditore in crisi, di presentare domanda di concordato senza aver preventivamente predisposto il piano da presentare all'approvazione dei creditori non deve cioè tramutarsi in un abuso dello strumento concordatario in frode alla legge. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale di Rovigo ha ritenuto fondato il ricorso ed ha dichiarato, quindi, il fallimento della società debitrice....

ATTI IMPOSITIVI: efficacia probatoria degli accertamenti bancari

Mar, 29/04/2014 - 08:49
L'esistenza di ingenti disponibilità economiche risultante da conto corrente costituisce di per sé elemento di prova grave, precisa e concordante, tale da giustificare il ricorso dell'ente impositore all'avviso di accertamento. E’ questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 8833 del 16 aprile 2014 in materia di avvisi di accertamento. Nel caso in esame, i ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la sentenza di appello della C.T.R. siciliana che aveva confermato la legittimità di alcuni avvisi di accertamento loro indirizzati, ma al tempo stesso aveva ridotto del 70% il reddito determinato ai fini impositivi dall'Agenzia delle Entrate e calcolato sulla base di accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza sui c/c intestati ai ricorrenti medesimi. Nella sua pronuncia, la C.T.R. aveva evidenziato come la rilevazione fatta sulla base delle movimentazioni bancarie, se non supportata dalla presenza di ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti, non potesse da sola costituire prova ma al più rappresentare una mera presunzione; peraltro, la presenza di tali movimentazioni non lasciava escludere del tutto l'esistenza di redditi non dichiarati e soggetti ad imposta. Seguendo tale iter logico, la Commissione aveva eseguito una rideterminazione in via equitativa del reddito imponibile pari al 30% di quanto accertato negli atti impositivi contestati ai contribuenti.  Ebbene, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha accolto il ricorso ritenendo che la C.T.R. avesse erroneamente annullato in parte un atto impositivo degradando a mere presunzioni le disponibilità sospette sul conto del contribuente.  Nella sentenza impugnata, la Suprema Corte ha rilevato la presenza di vizio di motivazione ai sensi degli artt. 360, n. 5 e 366-bis c.p.c. - dal momento che la C.T.R. da un lato ha negato l'efficacia probatoria degli accertamenti bancari e dall'altro ha effettuato la rideterminazione equitativa proprio sulla base di quegli stessi accertamenti - e si è spinta oltre, volendo una volta di più ribadire come gli elementi desunti dalle rilevazioni contabili possano legittimamente svolgere una funzione giustificativa per gli atti impositivi, spostando così l'onere della prova in capo al contribuente. ...

FALLIMENTO: il credito dei subappaltatori non è prededucibile

Mar, 29/04/2014 - 08:27
L’ente pubblico debitore della appaltatrice fallita, per opere da questa realizzate (anche per mezzo dei subappaltatori), deve adempiere le sue obbligazioni e pagare quanto dovuto alla procedura fallimentare, la quale poi provvederà a ripartire l’attivo fra i creditori nel rispetto della graduazione determinata dalla norme fallimentari e civilistiche. Ai subappaltatori della società fallita (a sua volta appaltatrice di opere pubbliche) non spetta il riconoscimento della prededuzione. Invero, l’ammissione di un credito sia pure in prededuzione non equivale al pagamento al subappaltatore e non risulta di per sé strumento idoneo a realizzare il presupposto per il pagamento dalla stazione appaltante. Così si è pronunciato il Tribunale di Bolzano, sezione Fallimentare, in persona del Giudice delegato dott.ssa Francesca Bortolotti, che con l’interessante e preciso decreto del 21.02.2014, ha contrastato, a ragion veduta, il principio espresso dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 3402/12, nella parte in cui era stato ammesso in prededuzione un credito sorto ante fallimento. La Corte, invero, con la pronuncia attentamente vagliata dal GD, aveva riconosciuto la prededuzione a tutti i crediti derivanti da attività, anche poste in essere precedentemente all’apertura della procedura, qualora il loro pagamento garantisca la miglior soddisfazione del ceto creditorio. Infatti, secondo la Cassazione, “la prededuzione attua un meccanismo satisfattorio destinato a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma quelle che interferiscono con l'amministrazione fallimentare ed influiscono per l'effetto sugli interessi dell'intero ceto creditorio”. Il pagamento del credito del subappaltatore, alla luce della disciplina del codice degli appalti, è destinato ad incidere sulla gestione fallimentare, dal momento che esso si atteggia, stando alla motivazione della sentenza, quale condizione di esigibilità del credito che la fallita vanta a sua volta nei confronti della stazione appaltante.  Tale affermazione finisce per smentire – osserva il Tribunale - l'orientamento giurisprudenziale di merito secondo cui i crediti in prededuzione sono quelli sorti in corso di procedura, sia fallimentare che concordataria, mentre tutti i crediti sorti prima avrebbero natura concorsuale e come tali soggetti al principio della par condicio creditorum. L’adito GD ha, quindi, dettagliatamente evidenziato i motivi per i quali ha ritenuto di non condividere la pronuncia della Suprema Corte. Primo fra tutti: la questione circa l’applicabilità al fallimento dell’art.118 comma 3 e 3 bis, come modificato dall’art.13 DL 145/2013, del Codice degli Appalti, data per presupposta dalla Cassazione. Le dette disposizioni, la cui ratio è quella di tutelare la PA (nel vedere realizzata l’opera pubblica nei termini ed alle condizioni previste dal contratto di appalto), prevedono la possibilità, in condizioni di particolare urgenza inerenti al completamento dell’opera, di provvedere al pagamento diretto del subappaltatore, anche in deroga alla previsioni del bando di gara. Inoltre, l’art.3bis prevede la possibilità per la stazione appaltante di provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite dall’affidatario e dai subappaltatori nella pendenza della procedura di concordato preventivo. Ebbene, è pacifico - osserva la dott.ssa Bortolotti - come la detta disposizione si possa riferire solo ai casi di concordato con continuità aziendale, essendo prevista solo per questa categoria di concordato la possibilità di proseguire, a determinate condizioni, i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso di concordato. Ed è proprio tale motivazione che induce a sostenere la tesi per cui l’art.118 cod. app. ha ragion d’essere solo ove vi sia una continuità nei rapporti tra stazione appaltante e affidatario . Per contro in caso di fallimento dell’affidatario il contratto fra questo e la stazione appaltante si scioglie ipso jure. Da tanto consegue che il meccanismo ex art.118 cod. app. presuppone l’esistenza di un contratto ancora in corso di esecuzione. Del resto l’art.118 cod. app. non può trovare applicazione in costanza di fallimento, atteso che, in presenza della detta procedura concorsuale, prevalgono i principi cardine che regolano lo svolgimento della procedura fallimentare nel suo insieme. Diversamente verrebbe leso, non solo il fondamentale principio della par condicio creditorum, ma anche l’altrettanto fondamentale principio secondo cui tutti i pagamenti devono essere effettuati nell’ambito della procedura concorsuale in osservanza dei privilegi di legge e della norma sulla prededuzione. A ciò si aggiunga che, laddove si volesse ragionare nell’ottica di riconoscere la prededuzione al subappaltatore in sede di ammissione al passivo, la stessa verrebbe ad essere eseguita solo in fase di riparto, per cui nessun subappaltatore potrebbe rilasciare fattura quietanzata senza aver percepito l’importo dovuto, ragion per cui l’appaltatore fallito non avrebbe comunque titolo per incassare dall’ente il suo credito. In sostanza, dunque, l’ammissione di un credito - sia pure in prededuzione - non equivale al pagamento al subappaltatore e non risulta di per sé strumento idoneo a realizzare il presupposto per il pagamento dalla stazione appaltante. Alla luce delle considerazioni svolte e dei principi di diritto evidenziati, l’adito giudicante ha così escluso la prededuzione per i crediti dei subappaltatori, richiamando a tal fine la graduazione determinata dalle norme fallimentari e civilistiche....

CENTRALE RISCHI: il procedimento tipico della privacy e il ricorso ex art.700 cpc

Mar, 29/04/2014 - 08:06
È inammissibile il ricorso al procedimento speciale previsto dagli art. 152 d.lgs. 196/03 e art. 10 d.lgs. 150/11 quando già penda il giudizio di merito ed il provvedimento cautelare venga richiesto in corso di causa, atteso che ai sensi dell’art.40 c.p.c. deve essere applicato il rito ordinario quando siano proposte domande connesse ma soggette a procedure diverse. Questa è la decisione assunta dal Tribunale di Napoli, seconda sezione civile, con ordinanza emessa in data 1 aprile 2014 in sede di reclamo avverso un  provvedimento d’urgenza ex art.700 c.p.c. In particolare, il Tribunale, con ordinanza del 10.2.2014 aveva concesso il chiesto provvedimento ex art. 700 cpc, affermando la ammissibilità del ricorso alla tutela cautelare atipica e la sussistenza dei presupposti di legge per la concessione del chiesto provvedimento. Con il medesimo provvedimento, il Giudice aveva affermato che “La proposizione nel corso di un giudizio di merito di una domanda cautelare per la cancellazione della segnalazione di un nominativo, preclude l’applicazione della normativa speciale prevista dal codice della privacy (art.152 d.lgs. n. 196/2003, come integrato dall’art. 10 d.lgs. 150/2011)”. In sede di reclamo, l’Istituto di credito aveva impugnato il provvedimento concesso in quanto inammissibile sussistendo la tutela tipica di cui alla disciplina sulla privacy. Con l’ordinanza a definizione del reclamo, il Collegio ha ribadito, invece, l’ammissibilità del ricorso d’urgenza per la presenza dei presupposti della residualità e della e della strumentalità, e l’inapplicabilità del procedimento ex art. 152 d.lgs. 196/2003 e art.10 d.lgs.150/11 perché il ricorso era stato presentato nell’ambito di un giudizio di merito. In proposito, il Collegio ha affermato che il ricorso a tale procedimento, implicando la simultanea proposizione della domanda di merito, non è ammissibile quando il giudizio di merito già penda ed il provvedimento cautelare venga richiesto in corso di causa come nella fattispecie in esame, in quanto non è possibile seguire il rito speciale previsto dalla normativa sulla privacy per i limiti di cui all'art.40 cpc, che regola il concorso di riti in caso di proposizione di domande connesse soggette a procedure diverse. Tale norma, infatti, prevedendo al comma terzo che le cause connesse debbano essere trattate col rito ordinario, fa venire meno la possibilità di ricorrere alla procedura speciale per cui l'esigenza cautelare prospettata può essere soddisfatta solo col ricorso all'art.700 cpc. Il Tribunale, quindi, confermando quanto statuito dal Giudice cautelare in ordine alla sussistenza dei presupposti per la concessione del chiesto provvedimento, ha rigettato il reclamo. Per ulteriori approfondimenti, si vedano i seguenti commenti già pubblicati su questa rivista: CENTRALE RISCHI: SEGNALAZIONE A SOFFERENZA LEGITTIMA, ANCHE PER CREDITO DI MODESTO IMPORTO La crisi di liquidità per eccessivo ricorso al credito è una condizione che legittima la segnalazione a sofferenza. Ordinanza | Tribunale di Bologna, dott.ssa Alessandra Arceri | 11-03-2014  CENTRALE RISCHI: COMPETENZA INDEROGABILE DEL FORO DEL CONSUMATORE Le norme a tutela del consumatore derogano anche alle norme speciali in materia di privacy. Ordinanza | Corte di Cassazione, sesta sezione civile | 12-02-2014 | n.5705 CENTRALE RISCHI: È COMPETENTE IL TRIBUNALE DEL LUOGO IN CUI HA LA RESIDENZA IL TITOLARE DEL TRATTAMENTO DEI DATI Ordinanza | Tribunale La Spezia, dott. Ettore Di Roberto | 29-01-2014  CENTRALE RISCHI: ANCHE SE ILLEGITTIMA, NON PRODUCE ALCUN DANNO NON PATRIMONIALE PER IL FIDEIUSSORE È escluso il danno all'immagine e all'onore per il garante in considerazione del limitato accesso. Sentenza | Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Casoria - dott. Giuliano Tartaglione | 31-01-2014 | n.1549 SEGNALAZIONI A SOFFERENZA – AMMISSIBILITÀ RIMEDIO CAUTELARE EX ART.700 CPC Il provvedimento di cui all’art. 10 comma 6 d.lgs 150/2011 è solo eventuale e deve essere adottato in caso di inerzia dell’intermediario Ordinanza | Tribunale di Verona, Giudice unico dott. Massimo Vaccari | 18-03-2013  SEGNALAZIONE IN CAI: inammissibilità del ricorso ex art.700 cpc L’illegittima segnalazione va tutelata con il rimedio cautelare tipico ex artt.10 e 5 D.Lgs. 150/2011. Sentenza | Tribunale di Verona, Giudice Unico dott. Andrea Mirenda | 14-01-2013 SEGNALAZIONI ALLA CENTRALE DEI RISCHI E QUESTIONI DI RESPONSABILITA’ CIVILE Responsabilità delle Banche. Articolo giuridico | 24-04-2013 SEGNALAZIONE CENTRALE RISCHI: SI IMPONE ALLA BANCA UNA VALUTAZIONE PROGNOSTICA SULLE RAGIONI DELL’IMPEDIMENTO DEL CLIENTE La diffida di pagamento e l’emissione di un decreto ingiuntivo non sono sufficienti a comprovare l’insolvenza del soggetto. Ordinanza | Tribunale di Marsala, sezione feriale dott. Pasquale Russolillo | 05-08-2013...

SPESE DI GIUSTIZIA: dal 3 maggio aumento del 4% sui diritti di copia

Lun, 28/04/2014 - 15:29
 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 91/2014 il decreto del Ministero della Giustizia che adegua gli importi del diritto di copia e di certificato - ai sensi dell’articolo 274 del Dpr 115/02 - al costo della vita accertato dall’Istat per l’ultimo triennio. In particolare, nel triennio considerato, l’istituto Nazionale di Statistica ha rilevato una variazione pari al 4% dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Come annunciato dalla circolare 15/2014, pubblicata lo scorso 17 aprile dal dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero, tale aumento, perciò, si applica alle tabelle di cui agli allegati 6 e 7 del citato DPR, relative ai diritti di copia in formato cartaceo nell'ambito del processo civile, nonché ai diritti di certificato di cui alle lett. a) e b) dell'art. 273 del DPR 115 che passa dai precedenti euro 3,54 agli attuali 3,68. Per ciò che riguarda le copie di documenti “informatici”, l’art. 4 del DL 193/09 stabilisce, come è noto, che “i diritti di copia rilasciata in formato elettronico di atti esistenti nell'archivio informatico dell'ufficio giudiziario sono determinati, in ragione del numero delle pagine memorizzate, nella misura precedentemente fissata per le copie cartacee”. Sembra pacifico, dunque, che le tariffe per le copie in formato elettronico restino fissate al valore precedente all’aumento del 2009 e che quindi l’adeguamento del 4% si applichi esclusivamente alle copie in formato cartaceo....

ESECUZIONE FORZATA: VENDITA SENZA INCANTO, L’OFFERTA E’ VINCOLANTE

Lun, 28/04/2014 - 11:10
Nell’espropriazione immobiliare il legislatore ha previsto che il Giudice con un’unica ordinanza disponga la vendita senza incanto e, quindi, a seguire la vendita con incanto. La partecipazione alla vendita con incanto avviene con il deposito della domanda di partecipazione in busta chiusa entro il termine previsto e nel luogo indicato nell’avviso di vendita.  L’offerta deve contenere tutti i dati indicati nell’avviso di vendita e deve essere sottoscritta da persona di identità certa. È, pertanto, opportuno inserire copia del documento di identità dell’offerente, persona fisica o del legale rappresentante della persona giuridica e, in tal caso, la relativa visura camerale. All’esterno della busta l’offerente non deve indicare nulla, sarà il ricevente ad annotare il nome, previa identificazione, della persona che materialmente provvede al deposito, il nome del Giudice o del delegato e la data dell’udienza fissata per l’esame delle domande. L’offerta non può essere inferiore al prezzo base pubblicato, pena l’inefficacia, e deve essere corredata da un assegno per cauzione pari al 10% del prezzo offerto. La domanda di partecipazione alla vendita senza incanto è vincolante, per cui l’offerente non potrà ritirare la propria offerta, pena la perdita della cauzione. L’offerta è senz’altro accolta, se superiore al valore dell’immobile aumentato di un quinto, mentre, qualora non lo superi, l’accoglimento dell’offerta è subordinata al mancato dissenso del creditore procedente e/o ad una valutazione prognostica di maggiore convenienza dell’incanto. Nel caso di più offerte, il Giudice o il delegato invitano gli offerenti ad una gara sull’offerta più alta con rilanci minimi, indicati dal delegato e simili all’incanto. L’aggiudicazione è immediatamente definitiva. Nel caso in cui la vendita senza incanto non si tenga per mancanza o inefficacia delle offerte, per il dissenso del creditore o perché il Giudice o il delegato abbiano ritenuto preferibile vendere all’incanto, si procede alla vendita con incanto. La partecipazione alla vendita con incanto avviene attraverso il deposito della dichiarazione di voler partecipare e dell’assegno a cauzione, sempre secondo le modalità e le formalità indicate nell’avviso di vendita. Durante la vendita tutti gli interessati sono ammessi a effettuare rilanci verbali. Le offerte non sono efficaci, se non superano l’offerta precedente con i rialzi indicati nell’avviso di vendita e la gara termina quando siano trascorsi tre minuti dall’ultima offerta senza che ne segua un’altra maggiore.  L'aggiudicazione nella vendita con incanto, a differenza della vendita senza incanto, è provvisoria, perché nei dieci giorni successivi la gara potrebbe essere riaperta, ove venga presentata un'offerta maggiorata di un quinto rispetto al prezzo di aggiudicazione. In tal caso il Giudice, verificata la regolarità delle offerte in aumento, indice una nuova gara, fissando il termine perentorio entro il quale possono essere presentate ulteriori offerte e di cui deve essere data idonea pubblicità. Sia nel caso di vendita senza incanto che in quello con incanto, l’aggiudicatario dovrà versare il saldo del prezzo, unitamente alle spese, nei termini e nei modi fissati nell’avviso di vendita....

VENDITA SENZA INCANTO, L’OFFERTA E’ VINCONLANTE

Lun, 28/04/2014 - 11:10
Nell’espropriazione immobiliare il legislatore ha previsto che il Giudice con un’unica ordinanza disponga la vendita senza incanto e, quindi, a seguire la vendita con incanto. La partecipazione alla vendita con incanto avviene con il deposito della domanda di partecipazione in busta chiusa entro il termine previsto e nel luogo indicato nell’avviso di vendita.  L’offerta deve contenere tutti i dati indicati nell’avviso di vendita e deve essere sottoscritta da persona di identità certa. È, pertanto, opportuno inserire copia del documento di identità dell’offerente, persona fisica o del legale rappresentante della persona giuridica e, in tal caso, la relativa visura camerale. All’esterno della busta l’offerente non deve indicare nulla, sarà il ricevente ad annotare il nome, previa identificazione, della persona che materialmente provvede al deposito, il nome del Giudice o del delegato e la data dell’udienza fissata per l’esame delle domande. L’offerta non può essere inferiore al prezzo base pubblicato, pena l’inefficacia, e deve essere corredata da un assegno per cauzione pari al 10% del prezzo offerto. La domanda di partecipazione alla vendita senza incanto è vincolante, per cui l’offerente non potrà ritirare la propria offerta, pena la perdita della cauzione. L’offerta è senz’altro accolta, se superiore al valore dell’immobile aumentato di un quinto, mentre, qualora non lo superi, l’accoglimento dell’offerta è subordinata al mancato dissenso del creditore procedente e/o ad una valutazione prognostica di maggiore convenienza dell’incanto. Nel caso di più offerte, il Giudice o il delegato invitano gli offerenti ad una gara sull’offerta più alta con rilanci minimi, indicati dal delegato e simili all’incanto. L’aggiudicazione è immediatamente definitiva. Nel caso in cui la vendita senza incanto non si tenga per mancanza o inefficacia delle offerte, per il dissenso del creditore o perché il Giudice o il delegato abbiano ritenuto preferibile vendere all’incanto, si procede alla vendita con incanto. La partecipazione alla vendita con incanto avviene attraverso il deposito della dichiarazione di voler partecipare e dell’assegno a cauzione, sempre secondo le modalità e le formalità indicate nell’avviso di vendita. Durante la vendita tutti gli interessati sono ammessi a effettuare rilanci verbali. Le offerte non sono efficaci, se non superano l’offerta precedente con i rialzi indicati nell’avviso di vendita e la gara termina quando siano trascorsi tre minuti dall’ultima offerta senza che ne segua un’altra maggiore.  L'aggiudicazione nella vendita con incanto, a differenza della vendita senza incanto, è provvisoria, perché nei dieci giorni successivi la gara potrebbe essere riaperta, ove venga presentata un'offerta maggiorata di un quinto rispetto al prezzo di aggiudicazione. In tal caso il Giudice, verificata la regolarità delle offerte in aumento, indice una nuova gara, fissando il termine perentorio entro il quale possono essere presentate ulteriori offerte e di cui deve essere data idonea pubblicità. Sia nel caso di vendita senza incanto che in quello con incanto, l’aggiudicatario dovrà versare il saldo del prezzo, unitamente alle spese, nei termini e nei modi fissati nell’avviso di vendita....

RACCOMANDAZIONE 2014/135/UE: verso un nuovo approccio europeo per la gestione della crisi d’impresa e delle ristrutturazioni

Lun, 28/04/2014 - 09:56
E’ stata di recente pubblicata (Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 14 marzo 2014, numero L/74/65) la Raccomandazione della Commissione europea 2014/135/UE del 12 marzo 2014 (in seguito “Raccomandazione n.135/2014”), con il duplice obiettivo di incoraggiare gli Stati membri a istituire un quadro giuridico omogeneo che consenta la ristrutturazione efficace delle imprese in difficoltà finanziaria e di dare una seconda opportunità agli imprenditori onesti, promuovendo l’imprenditoria, gli investimenti e l’occupazione e contribuendo a ridurre gli ostacoli al buon funzionamento del mercato interno. Trattasi di una nuova tappa lungo il tortuoso progredior verso l’efficienza/efficacia delle azioni di risanamento delle imprese in crisi. Come noto, dello strumento della Raccomandazione si avvale spesso la Commissione UE per puntualizzare la propria posizione in merito agli sviluppi futuri della propria azione. La Raccomandazione infatti, a differenza del parere, ha il precipuo scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni. L’efficacia non direttamente vincolante delle Raccomandazioni non implica comunque che esse siano totalmente sprovviste di alcun effetto giuridico. In dottrina si è, infatti, posto in evidenza come esse producano un effetto di liceità, nel senso che è da considerarsi pienamente lecito un atto, di per sé illecito, posto in essere per rispettare una raccomandazione di un’istituzione. Anche la Corte di Giustizia (cfr. sentenza Grimaldi 1989) ha posto ben in evidenza come le raccomandazioni non possono essere considerate del tutto prive di effetti giuridici, essendo compito del giudice nazionale tenerne conto per procedere all’interpretazione degli altri atti vincolanti emanati dalle istituzioni comunitarie e delle norme nazionali. Con la Raccomandazione n.135/2014 siamo pertanto in presenza di un atto d’indirizzo di grande importanza e rilevanza, posto che lo stesso individua principi cardine e di best practice che gli Stati membri, invitati ad attuare i principi della stessa entro il 14 marzo 2015, non potranno ignorare. Il tutto assume particolare significato di indirizzo strategico, posto che sussiste ancora una grande disparità dei quadri nazionali in materia di ristrutturazione. Il tema delicato delle crisi “on cross border” attende inoltre (unitamente alla definizione di “gruppo di imprese in crisi”) da tempo di essere adeguatamente regolamentato, e chi scrive ha dovuto assistere a crisi aziendali che, per difetti di coordinamento tra le procedure di risanamento e carenze normative di vario genere, hanno creato gravi danni patrimoniali minando spesso anche la continuità aziendali di gruppi economici rilevanti. Il Regolamento CE n.1346/2000 appare inoltre ormai datato e, come noto, si limita a disciplinare questioni relative alla competenza, al riconoscimento, all’esecuzione, alla legge applicabile e alla cooperazione nelle procedure d’insolvenza transfrontaliere, mentre ancora pendono proposte di modifica di tale Regolamento che dovrebbero estendere la regolamentazione comunitaria anche e soprattutto alla procedure di prevenzione e di allerta (che, come a tutti noto, se avviate tempestivamente sono fondamentali per sottrarre all’insolvenza le aziende in crisi; procedure che, purtroppo, in Italia non sono ancora state previste dalla legge fallimentare, nonostante le indicazioni della c.d. “Commissione Trevisanato”). Venendo sinteticamente a leggere l’obiettivo e l’oggetto della Raccomandazione n.135/2014 notiamo subito l’enfasi con cui la Commissione UE mira a: - diminuire i costi della valutazione dei rischi connessi agli investimenti in un altro Stato membro; spesso i politici e le Istituzioni si sforzano di favorire gli investimenti in Italia e nell’UE, ma spesso ci si dimentica che la complessità e l’incertezza operativa e interpretativa sul restructuring si possono tradurre in un gap che porta a disincentivare anziché incentivare gli investimenti; - aumentare i tassi di recupero del credito (sempre in Italia è ormai un evento tutt’altro che raro vedere nell’ambito del restructuring percentuali di recuperabilità bassissime, specie nei concordati con finalità liquidatoria); - eliminare le difficoltà di ristrutturazione dei gruppi transfrontalieri (attualmente le crisi “on cross border” vengono gestite con grandi difficoltà, proprio perché appare arduo procedere ad una valutazione di “fattibilità” complessiva della manovra di risanamento dei gruppi stessi che operano in diversi stati dell’UE) Ancora più rilevante la Raccomandazione n.135/2014 appare nel delineare le norme minime in materia di “quadro di ristrutturazione preventiva”. In concreto, vengono delineate le seguenti linee guida: - occorre procedere nella ristrutturazione in una “fase precoce”: i ritardi nella segnalazione dello stato di crisi sono infatti nefasti e vanno evitati. Purtroppo in Italia spesso la figura dell’Impresa si confonde con quella dell’Imprenditore, e questo non agevola l’emersione della crisi in tempi rapidi. Su questo punto rilevante occorrerebbe fare tesoro dell’esperienza francese. In Francia infatti le misure di prevenzione (tra cui le procedure di allerta) hanno sempre una funzione primaria nella protezione dell'impresa in difficoltà, mentre le procedure concorsuali - pur ben regolamentate - hanno funzioni residuali, e questo per il semplice motivo che l’incremento della prevenzione aiuta e risolve una importante porzione delle situazioni di crisi, evitando l'accentuarsi delle patologie ed il ricorso alle procedure concorsuali.  Altra importante particolarità della legislazione francese sta nel fatto che le misure di prevenzione in Francia scattano anche indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore che, a volte, tende a non percepire la gravità della situazione. Sindaci, rappresentanti dei lavoratori, revisori contabili e spesso lo stesso Presidente del Tribunal de Commence possono prendere l'iniziativa e promuovere la misura di prevenzione ritenuta più adatta.  Anche nell’ambito delle relazioni col sistema bancario, la Francia gode di ulteriori norme estremamente efficaci e sconosciute al nostro ordinamento. La legge francese rimette infatti all'attenzione del mediatore della Banca di Francia situazioni di potenziale conflitto (e ben sappiamo, soprattutto in Italia, come intorno all’utilizzo o alla sospensione/revoca delle linee di finanziamento del capitale circolate si annidino insidiose patologie che possono esacerbare la crisi d’impresa, e che portano ad infinite discussioni nell’ambito del ceto bancario, non scevre anch’esse da episodi di opportunismo e scorrettezza), che convoca le Banche presso la Prefettura competente e coordina una analisi della situazione, suggerendo correttivi, incoraggiando un maggior approfondimento delle informazioni ed aiutando l'imprenditore a presentare nella forma più corretta, ogni dato utile ad una più attenta a costruttiva valutazione del rischio. Il tutto nella prospettiva della moral suasion e senza invasioni di campo; - il debitore dovrebbe (in linea di principio) mantenere il “controllo della gestione corrente”; spesso tuttavia (e su questo aspetto la Raccomandazione n.135/2014 non approfondisce più di tanto) la banca non è più un semplice creditore ma è chiamata a diventare un partner, specie quando il ceto bancario ha trasformato in strumenti di quasi equity (SFP o altro strumento finanziario) una parte consistente delle proprie ragioni di credito nelle ricapitalizzazioni aziendali. Le banche, da prestatori/creditori vengono infatti sempre più chiamate a farsi partner degli imprenditori in crisi, trovandosi a dover gestire da protagoniste complessi processi di ristrutturazione. Tutto ciò determina sovente per le banche un insostenibile stress delle strutture organizzative e inevitabili ricadute anche a conto economico, rendendo al contempo poco efficienti per le imprese, anche qualora ve ne siano i presupposti, i tradizionali percorsi di uscita dalla crisi tramite il ricorso agli strumenti di composizione approntati dal Legislatore negli ultimi anni. La magnitudine di tale situazione richiederebbe oggi urgenti risposte innovative e “di sistema” su questo tema centrale, che coinvolge la governance delle imprese in crisi, è in atto una discussione profonda; - il debitore dovrebbe poter chiedere la sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali; anche su questo tema non esistono norme adeguate in materia, e spesso per ottenere l’automatic stay le imprese in crisi ricorrono in Italia (impropriamente, se non proprio abusivamente) all’istituto del concordato “in bianco” ex art.161 sesto comma l.fall., che – è la storia di questi ultimi mesi che ce lo dice – si trasformano spesso in veri e propri boomerang per i proponenti (che nella stragrande maggioranza dei casi non riescono neanche a presentare la manovra nei termini fissati dal giudice); - il piano di ristrutturazione adottato dalla maggioranza dei creditori dovrebbe essere vincolante per tutti i creditori se “omologato dal giudice”; spesso in Italia nei tavoli di ristrutturazioni i creditori (e sono spesso quelli che hanno le quote di rischio minori) adottano comportamenti opportunistici gravemente lesivi della par condicio e delle norme deontologiche, ostacolando di fatto l’azione di risanamento e/o dilatandone i tempi in modo intollerabile; il requisito della “omologabilità” del piano indicato dalla Raccomandazione n.135/2014 potrebbe inoltre in futuro ridurre fortemente l’utilizzo dei piani attestati ex art.67 l.fall. (su cui anche il Legislatore italiano pare aver già manifestato un certo “disfavore”); - i “nuovi finanziamenti” necessari per l’attuazione del piano dovrebbero essere inattaccabili; anche su questo punto va rimarcata l’attuale non soddisfacente tutela normativa dei finanziamenti concessi “in funzione” degli accordi omologabili ex art.182bis l.fall. e dei piani concordatari; - infine, la procedura di ristrutturazione non dovrebbe avere una durata eccessiva, dovrebbe essere la meno costosa possibile ed essere “flessibile” (avendo ciò degli strumenti interni di adattamento), onde evitare plurimi interventi del giudice. Anche su questo tema va rimarcato che spesso i piani di risanamento in Italia non dispongono di buffer e di adeguata flessibilità economico-finanziaria, cosa che spesso porta alla “non perdurante idoneità” del piano medesimo e al suo insuccesso. Molto penetranti appaiono anche le linee-guida per “agevolare i negoziati sui piani di ristrutturazione”, specie laddove auspicano: (i) la previsione di sospensione temporanea (durata massima di 12 mesi) delle azioni esecutive individuali, senza tuttavia incidere sull’esecuzione dei contratti in corso, laddove una parte significativa dei creditori siano favorevoli all’avvio di negoziati per l’adozione del piano di ristrutturazione e lo stesso abbia “ragionevoli prospettive di essere attuato”, che potrebbe a sua volta portare alla revisione dell’art.169-bis l.fall.; (ii) l’omologazione dei piani di ristrutturazione; (iii) la possibilità dei creditori di essere informati dei contenuti del piano di ristrutturazione e di potersi opporre allo stesso; (iv) l’esonero da responsabilità civili o penali per i contributori di nuovi i finanziamenti concordati nell’ambito del piano di ristrutturazione omologato;  Prime considerazioni sintetiche Il Legislatore italiano, come quelli degli altri Stati membri UE, sarà presto chiamato a rimettere mano alla tormentata normativa sul restructuring, ottemperando ai policy makers della Raccomandazione n.135/2014. Rimaniamo peraltro in attesa di vedere attuate efficaci proposte di modifiche al Regolamento CE 1346/2000 da parte del legislatore comunitario. L’esperienza francese testimonia che gli strumenti di prevenzione e di allerta risultano estremamente efficaci e creano una reale cultura della prevenzione, molto ben accetta dalle imprese stesse che sanno di poter contare su aiuti reali da parte delle istituzioni, in tempi brevi, a bassi costi e in totale riservatezza. E ciò rafforza nei più la consapevolezza che il ritardo nella necessaria adozione dei dispositivi di prevenzione può portare l’impresa nell’area delle procedure concorsuali, con maggiori rischi e che a volte sono senza ritorno. Unitamente e parallelamente al nuovo processo normativo in atto, le banche italiane, a loro volta,  saranno chiamate a farsi carico delle pur opportune esigenze di “pulizia” di bilancio, e avranno come ulteriore ma non certo secondario obbiettivo quello di rendere sempre più efficienti i processi di ristrutturazione oggi “polverizzati” e “incagliati” negli uffici ristrutturazione, che seppur meritoriamente rinforzati e riqualificati negli ultimi anni innanzi al quotidiano moltiplicarsi dei dossier e pur con tutta la diligenza e competenza di cui sicuramente dispongono, si trovano oggi a dover gestire con strumenti “ordinari” una vera emergenza nazionale (e spesso transnazionale, in presenza di crisi di gruppi economici “on cross border”). Probabilmente con la ripresa economica (che i più danno per imminente) si arresterà o perlomeno diminuirà il flusso dei nuovi crediti deteriorati, ma in ogni caso si palesa già fin d’ora la necessità per le banche europee (gravate da consistenti partite di credito deteriorato) di concepire soluzioni sistemiche e operative, e che in futuro potrebbero vedere la nascita e interposizione di veicoli dedicati e professionali che siano capaci di svolgere per conto e nell’interesse delle banche, anche a seguito della conversione in equity dei loro crediti, quel ruolo di partnership che esse non vogliono / non possono svolgere. L’adozione di tali veicoli (su cui oggi si stanno facendo le prime importanti riflessioni strategiche) potrebbe così contribuire a superare uno dei principali ostacoli di natura operativa all’applicazione con successo dei suddetti strumenti (piani, accordi o concordati), contenendo al massimo la lentezza, complessità e farraginosità della dialettica che in ogni operazione di restructuring oggi (in Italia come altrove) continua a caratterizzare la dialettica tra le banche e le imprese debitrici e, ancor di più, all’interno del ceto bancario stesso, tra banche portatrici di interessi disomogenei, quantitativamente e qualitativamente. Da qui i tempi ormai alquanto dilatati delle attuali operazioni di restructuring e la difficoltà di una interlocuzione che pretenderebbe, per sua natura, tempi di reazione rapidissimi e modalità dirette. La concentrazione, anche solo in parte, delle posizioni creditorie diffuse e disomogenee in capo ad un unico interlocutore professionale dell’impresa potrebbe rappresentare dunque, sotto un profilo squisitamente operativo, una vera rivoluzione copernicana capace di dare efficienza e funzionalità agli strumenti di superamento della crisi d’impresa. In tal senso, una soluzione di questo tipo potrebbe/dovrebbe essere – oltreché agevolata dalle Istituzioni pubbliche, italiane e comunitarie – imposta o caldeggiata con opportuna moral suasion, perlomeno laddove risultino verificati certi presupposti dimensionali dell’indebitamento in termini quantitativi e di numerosità dei soggetti bancari coinvolti....

MAGISTRATO: il dovere di correttezza attiene anche alle espressioni verbali utilizzate nel corso del processo

Dom, 27/04/2014 - 16:06
Il giudice, che, nell'esercizio delle proprie funzioni, utilizza in udienza espressioni irriguardose o di disprezzo nei confronti delle parti in causa, è passibile di sanzione disciplinare per violazione del dovere di correttezza.   Questo è il principio di diritto sotteso alla sentenza n. 7309 della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, pronunciata il 25 febbraio e pubblicata il 28 marzo 2014.   Nel caso di specie, in seguito ad una segnalazione del Presidente del Tribunale dei Minorenni di Roma, viene promossa azione disciplinare nei confronti di un magistrato, il quale avrebbe usato espressioni di insolenza e disprezzo nei confronto del personale dei servizi sociali di Roma che seguiva il minore interessato nel procedimento ed avrebbe tenuto, altresì, un comportamento scorretto a discapito della tutrice del medesimo, accusandola di non conoscere il proprio lavoro e di operare in collusione con i servizi territoriali.   All'esito dell'istruttoria dibattimentale, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore dichiara il magistrato responsabile dei fatti addebitati e gli infligge la sanzione della censura. Detto magistrato propone ricorso per cassazione, denunciando sia violazione di legge che vizio di motivazione.   I Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, adducendo che gli episodi contestati sono stati accertati in modo oggettivo nel procedimento disciplinare e che sono certamente contrari al dovere di correttezza che il magistrato deve osservare nell'esercizio delle proprie funzioni. Tale inosservanza non può essere attenuata dalle particolari situazioni soggettive dallo stesso rappresentate come vivaci ed appassionate discussioni all’interno del processo riguardante il minore, o dalla professionalità precedentemente manifestata nello svolgimento delle attività di ufficio. La valutazione di merito è stata dunque motivata e pertanto non è sindacabile in sede di legittimità....

RESPONSABILITÀ NOTAIO: obbligo di richiedere l’annotazione del fondo patrimoniale a margine dell’atto di matrimonio

Dom, 27/04/2014 - 16:01
E’ onere del notaio provvedere a richiedere, senza ritardo, l’annotazione del fondo patrimoniale a margine dell’atto di matrimonio, al fine di assicurare la finalità tipica di opponibilità ai terzi. L’obbligo del notaio di trascrivere senza ritardo l’atto, ai sensi dell’art.2671 c.c., va sicuramente coordinato con quanto previsto dall’art.  162, ultimo comma, c.c.. In giudizio risarcitorio il danneggiato ha onere di provare la natura dei crediti azionati nella procedura esecutiva e l’estraneità ai bisogni della famiglia al fine di far effettuare il giudizio controfattuale circa l’opponibilità del fondo patrimoniale trascritto. Questo è il principio sotteso alla sentenza pronunciata il 9 gennaio e pubblicata il 14 febbraio 2013 dal Tribunale Ordinario di Mantova, Seconda Sezione, nella persona della Dott.ssa Francesca Arrigoni. Nel caso di specie, i beni oggetto di un fondo patrimoniale costituito da due coniugi con atto pubblico, venivano pignorati a favore della banca che aveva concesso un mutuo ipotecario. Il fondo risultava, dunque, inopponibile ai creditori a causa della sua mancata annotazione. Da quanto viene delineato nella ricostruzione in diritto, il notaio rogante risulta essere, pertanto, responsabile per violazione dei propri obblighi professionali, in quanto la costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c. è soggetta alle disposizioni previste dall’art. 162 c.c..  E’ onere del notaio rogante provvedere, perciò, alla richiesta senza ritardo dell’annotazione del fondo costituito a margine dell’atto di matrimonio (Cass. 20995/2012, Cass. Sez. Unite 21658/2009 ). Il notaio, nel svolgere il proprio incarico, deve pertanto “improntare la propria condotta professionale all’osservanza delle più elementari regole di prudenza al fine di assicurare con certezza il conseguimento dello scopo tipico (non meno che del risultato pratico) del negozio richiesto dalle parti”. In merito alla domanda proposta dai coniugi contro il notaio, volta al risarcimento del danno conseguente all’espropriazione de quo, il Tribunale ha stabilito che grava su parte attrice l’onere di fornire la prova che l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio avrebbe reso impignorabile quanto aggredito. Va altresì accertata la natura dei crediti azionati nella procedura esecutiva al fine di effettuare il giudizio controfattuale circa l’opponibilità del fondo patrimoniale trascritto. All’uopo, si evidenzia come vadano ricomprese nei bisogni della famiglia non solo le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, ma anche quelle destinate a potenziare le capacità lavorative, eventualmente imprenditoriali, dei coniugi (Cass. 15862/2009, Cass. 5684/2006, Cass. 134/1984).  Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale di Mantova ha rigettato il ricorso proposto dai due coniugi, condannandoli al pagamento delle spese di lite a favore del professionista convenuto. IL COMMENTO Anche in caso di tardiva annotazione del fondo patrimoniale il notaio, benchè responsabile del ritardo, può essere assolto dalla domanda risarcitoria in quanto colui che agisce con l’azione risarcitoria deve assolvere l’onere della prova in merito alla impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, non potendosi aprioristicamente ritenere l’inespropriabilità per effetto della trascrizione vincolo. Tale onere che grava sul debitore nel giudizio di opposizione all’esecuzione, è anche il presupposto processuale per la proposizione una domanda risarcitorio a carico del notaio per tardiva annotazione, essendo erroneo il teorema fondo patrimoniale = impignorabilità del bene. Tanto in considerazione che anche i beni costituti possono essere sottoposti ad esproprio per i bisogni della famiglia. Sul punto si suggerisce la lettura del commento alla Sentenza della Cassazione civile sezione terza 19-02-2013 n. 4011 () ove sono indicate le condizioni per l’opponibilità del fondo patrimoniale ai creditori. Per tali ragioni anche nel giudizio di responsabilità a carico del notaio graverà su colui che si pretende danneggiato dalla tardiva annotazione dimostrare concretamente la sussistenza di tutti elementi di esclusione previsto dall’art.170 cc e quindi il Tribunale potrà verificare la natura dei debiti dei creditori che hanno agito nella procedura esecutiva conclusasi con l’esproprio dell’immobile ...

USURA BANCARIA: natura sostitutiva e non additiva del tasso di mora

Gio, 24/04/2014 - 14:24
In materia di usura bancaria, salvo pattuizioni contrarie, gli interessi di mora si applicano in sostituzione dei corrispettivi. È priva di pregio la deduzione di usurarietà di un contratto di mutuo fondata sulla somma aritmetica di interessi di mora ed interessi corrispettivi. Dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 350/13, infatti, non può desumersi il principio secondo cui interessi moratori e corrispettivi vadano sempre sommati tra di loro, al fine di verificare il superamento della soglia dell'usura. Così si è espresso il Tribunale di Napoli, con la sentenza n.5949 del 18 aprile 2014, decidendo sull’opposizione proposta da un mutuatario avverso il decreto ingiuntivo con il quale la Banca aveva domandato il pagamento delle rate scadute. Richiesta principale dell’opponente, la decurtazione dalla somma ingiunta dell’importo dovuto a titolo di interessi, in quanto usurari, per effetto della prospettata applicazione di un tasso globale del 15,50%, ottenuto dalla somma aritmetica del tasso corrispettivo (6,75%) e del tasso di mora (8,75%), effettuata sulla scorta di un’equivoca interpretazione della nota sentenza n.350/2013 della Corte di Cassazione. Decidendo ai sensi dell’art.281sexies cpc, il Giudice napoletano ha respinto tale assunto, soffermandosi preliminarmente sulla mancata dimostrazione del fatto che la Banca avesse applicato gli interessi di mora sull’intera rata, comprensiva della sorta capitale e degli interessi corrispettivi, circostanza non emergente, peraltro, neanche dal corpo delle pattuizioni, dalle quali è risultata chiaramente la natura sostitutiva degli interessi moratori rispetto a quelli corrispettivi. Nel caso di specie, ad ogni buon conto, nella fase monitoria l’istituto di credito aveva espressamente rinunciato agli interessi di mora per il periodo successivo alla risoluzione contrattuale. Nel rigettare l’opposizione, il Tribunale ha precisato che non può essere condivisa l’affermazione per la quale, al fine di valutare l’usurarietà oggettiva di un mutuo, debba raffrontarsi al tasso soglia – individuato ratione temporis – il valore ottenuto dalla sommatoria del tasso corrispettivo e del tasso di mora (come pattuiti).  Non è questo, infatti, il principio desumibile dalla sentenza n.350/2013 della Corte di Cassazione, su cui parte opponente aveva fondato in massima parte le proprie doglianze. Invero – afferma il Giudice - in tale sentenza, la S.C. ha chiarito che "ai fini dell'applicazione dell'art.644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori", senza, peraltro, affatto affermare che la verifica dell'usurarietà comporti la necessità di sommare tra di loro gli interessi moratori e quelli corrispettivi.  Trattasi di una deduzione ben nota ai lettori di questa rivista, sulla quale sono state pubblicate una serie di pronunce di merito che hanno contribuito a chiarire l’esatta portata del dictum degli Ermellini, equivocato da molti all’indomani della pubblicazione della detta pronuncia, con la conseguente proposizione di un elevato numero di giudizi nei confronti degli istituti di credito, con esiti spesso assai gravosi per i mutuatari, condannati alle spese di lite – come nel caso di specie – per la palese infondatezza delle tesi sostenute. Per l’approfondimento di tali questioni si veda “IL PUNTO SULL’USURA – RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE” .  Tornando alla pronuncia in esame, il Giudice partenopeo, rigettando integralmente l’opposizione e confermando l’ingiunzione in favore della banca, ha ben chiarito che, quando il contratto di mutuo preveda una maggiorazione a titolo di mora, ad essere dovuto in caso di inadempimento sarà unicamente l’interesse moratorio (calcolato, appunto, applicando la detta maggiorazione percentuale sul tasso corrispettivo), evidentemente sostitutivo e non additivo rispetto al tasso corrispettivo. Da tale affermazione, in conclusione, può desumersi un principio di ordine generale: l’asserita possibilità di sommare i due valori percentuali (interesse corrispettivo ed interesse moratorio) potrebbe avere pregio solo – ed esclusivamente – quando sia il contratto stesso a prevederla, ovvero quando il mutuatario fornisca in giudizio la prova della contemporanea ed additiva applicazione di entrambi i tassi dal momento dell’inadempimento. ...

ESECUZIONE FORZATA: L'identikit dell'immobile? È nella perizia

Mer, 23/04/2014 - 08:18
La partecipazione alle aste immobiliari costituisce una soluzione sicura e spesso conveniente per l’acquisto di un immobile. Essa è resa ancora più accessibile dall’introduzione delle pubblicità telematiche che consentono all’interessato di reperire tutte le informazioni necessarie sull’immobile pignorato attraverso l’esame dell’atto di avviso e della perizia di stima. In particolare, nell’atto di avviso sono indicate le modalità di partecipazione, il prezzo e il termine per il versamento, mentre dalla perizia di stima redatta dall’esperto estimatore l’interessato può verificare: 1).la completezza della documentazione ipocatastale depositata dal creditore procedente e, dunque, la correttezza di quanto dichiarato dal notaio in sede di relazione ex lege 302/1998; 2).la corretta identificazione catastale dell’immobile tra l’atto di pignoramento, la nota di trascrizione, la certificazione ipocatastale ed il bene pignorato; 3).l’esistenza di formalità, vincoli e oneri, tra cui le ipoteche iscritte e le domande giudiziali trascritte, che andranno cancellate con il decreto di trasferimento, nonché gli oneri condominiali insoluti, le convenzioni che limitano l’alienabilità dell’immobile o regolano le condizioni dell’alienazione, i vincoli di natura storico artistica o diretti alla conservazione del territorio; 4).lo stato di occupazione; 5).la regolarità edilizia  o, in caso di mancanza del titolo a costruire, la sanabilità degli abusi; 6).il reale valore dell’immobile. La documentazione depositata dal creditore e l’ampiezza dei compiti attribuiti all’esperto consente di equiparare la vendita esecutiva alla vendita tra privati, dando ai soggetti interessati informazioni di qualità non inferiore a quelle che si potrebbero ottenere con la vendita notarile con l’ulteriore possibilità di essere rimessi in termini per la proposizione della domanda di condono in presenza di abusi diversamente non sanabili, stante la deroga prevista alla norma generale. È, però, opportuno seguire alcuni accorgimenti perché l’acquisto può rivelarsi difficoltoso per i meno esperti. In particolare, bisogna tener presente che per tutte le informazioni ci si può rivolgere al professionista delegato per le operazioni di vendita. Non bisogna, poi, fermarsi al prezzo indicato nell’avviso di vendita per valutarne la convenienza, ma esaminare con attenzione la perizia per verificare se la valutazione è congrua, se vi sono oneri condominiali non pagati, che sono a carico dell’aggiudicatario, ed informarsi sull'importo delle spese che devono essere sostenute oltre al prezzo di aggiudicazione (imposta di registro o Iva, cancellazioni di trascrizioni o iscrizioni, eventuali onorari professionali per il trasferimento). L’interessato, inoltre, può visionare l’immobile per verificare l’ubicazione e lo stato manutentivo, nonché quello di occupazione, tenendo ben presente che il decreto di trasferimento costituisce titolo esecutivo e consente l'immediato rilascio dell'immobile ma che, in caso di difficoltà – ad esempio se un immobile è occupato da un terzo – l’aggiudicatario deve provvedere a proprie spese a eseguire la liberazione tramite ufficiale giudiziario con il patrocinio di un avvocato, i cui tempi non sono prevedibili. Da ultimo, bisogna fare attenzione alle modalità di pagamento, perché chi acquista all'asta deve disporre velocemente della somma richiesta oppure farsi rilasciare un mutuo in tempo utile, tenendo presente che esistono istituti di credito convenzionati con i tribunali ma potrebbero esserci delle difficoltà nell'istruire la pratica....

PIGNORAMENTO IMMOBILIARE: il decreto di trasferimento non può considerarsi inesistente

Mar, 22/04/2014 - 08:50
Il decreto di trasferimento di cui all'art. 586 cpc, ancorché abbia avuto ad oggetto un bene in tutto o in parte diverso da quello pignorato, non può considerarsi per questo inesistente, ma sarà affetto da invalidità da far valere col rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi nei termini di cui all'art. 617 cpc. Nel caso di specie, una società proponeva opposizione agli atti esecutivi, ex art. 618 cpc, contro il decreto di trasferimento di un immobile, oggetto di un precedente pignoramento promosso da un istituto di credito. Con l'atto di opposizione, la società opponente aveva eccepito che non vi era corrispondenza formale tra il bene pignorato ed il bene trasferito.  I dati catastali indicati nell'atto di pignoramento e nell'avviso di vendita apparivano, difatti, difformi rispetto a quelli risultanti nel decreto di trasferimento. L'opposizione veniva, tuttavia, dichiarata inammissibile, poiché proposta oltre il termine di 20 giorni previsto dall'art. 617 cpc e l'irregolarità contestata dall'opponente non poteva essere, inoltre, considerata come nullità assoluta del decreto di trasferimento. L'opponente ha così proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la non corrispondenza tra l'immobile pignorato e l'immobile trasferito costituirebbe un vizio talmente grave per cui la sua configurazione sarebbe causa di inesistenza del decreto di trasferimento emesso ai sensi dell'art. 586 cpc. L'inesistenza del decreto di trasferimento implicherebbe - da un punto di vista processuale - che l'opposizione agli atti esecutivi avrebbe potuto essere proposta oltre il termine di 20 giorni previsto dall'art. 617 cpc. Nel respingere i motivi di doglianza sollevati dal ricorrente, la Cassazione ha chiarito che il processo esecutivo è strutturato come una successione di sub-procedimenti finalizzati all'unico obiettivo dell'espropriazione del bene pignorato, al fine di garantire la soddisfazione dei creditori.  I Giudici di legittimità hanno osservato, con riferimento al pignoramento immobiliare, che in questo tipo di procedimento si possono individuare varie fasi: l'autorizzazione alla vendita, la vendita, l'aggiudicazione, il trasferimento del bene ed, infine, la distribuzione del ricavato. Si tratta di fasi autonome, giacché ciascuna serie di atti è ordinata ad un provvedimento che conclude questa successione. Il provvedimento così emesso è inoltre irretrattabile da parte del Giudice che lo ha pronunciato ai sensi dell'art. 487, comma 1, cpc, donde ne può essere dichiarata la nullità soltanto a seguito di opposizione agli atti esecutivi. Le cause di invalidità che si possono verificare in ciascuna fase possono perciò avere una loro rilevanza nel corso del processo solo allorquando impediscano che lo stesso attinga il risultato che ne costituisce lo scopo, cioè il soddisfacimento dei creditori (Cassazione civile, Sezioni Unite, 27 ottobre 1995, n. 11178).  La Cassazione ha, pertanto, precisato che la figura giuridica dell'inesistenza non ha ragione d'essere nel processo di esecuzione negli stessi termini di cui al processo di cognizione (Cassazione civile, sezione terza, 16 gennaio 2007, n. 837; Cassazione civile, sezione terza, 29 settembre 2009, n. 20814). Alla luce dell'insegnamento giurisprudenziale sopra richiamato, gli Ermellini hanno osservato che il decreto di trasferimento non poteva essere considerato inesistente, malgrado avesse avuto ad oggetto un bene diverso rispetto a quello indicato nell'atto di pignoramento. L'invalidità di cui era affetto il decreto di trasferimento avrebbe dovuto essere fatto valere con l'opposizione agli atti esecutivinel termine di 20 giorni previsto dall'art. 617 cpc., donde è stata confermata la tardività dell'opposizione proposta dalla società ricorrente. In considerazione di ciò, la Corte ha rigettato il ricorso condannando la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio....

DISCIPLINARE NOTAI: Non occorre la motivazione sulla sospensione cautelare ove sia implicita nella gravità degli addebiti

Sab, 19/04/2014 - 14:22
Quando la commissione regionale di disciplina sospende in via cautelare il notaio, non c’è bisogno di motivare sulla gravità dei fatti contestati all’incolpato, laddove la valutazione può ritenersi implicita nella pesantezza degli addebiti. Questo è il principio di diritto sotteso alla sentenza n. 8341 della Cassazione, Seconda Sezione Civile, pubblicata il 9 aprile 2014. Nel caso di specie, un notaio, sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, emessa a suo carico nell'ambito di un procedimento penale per associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta, veniva sospeso dalla professione con una decisione della Commissione Regionale di Disciplina del Lazio.  Ebbene, il professionista una volta ottenuta la revoca degli arresti domiciliari, chiedeva che fosse annullata conseguentemente anche la sospensione disciplinare, ma la COREDI riteneva, invece, insussistenti i presupposti per revocare tale misura. Il notaio proponeva, dunque, impugnazione, dinnanzi alla Corte di Appello di Roma che con ordinanza rigettava il reclamo. Avverso tale provvedimento, il professionista proponeva ricorso per cassazione censurando la decisione per aver, i giudici di secondo grado, erroneamente ritenuto che la motivazione del diniego di revoca della sospensione cautelare potesse essere ritenuta implicita nella gravità dell’illecito contestato. I Giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi sul caso de quo, hanno, però, disatteso le doglianze del ricorrente affermando che la gravità oggettiva degli addebiti mossi all’incolpato e gli indubbi riflessi negativi sul decoro e sul prestigio dell’Ordine di appartenenza sono sufficienti a giustificare le scelte della COREDI.  Né si può affermare, continua la Corte, che la sospensione cautelare, ex articolo 158 sexies della Legge Notarile, adottata sine die, possa procurare un pregiudizio al pubblico ufficiale in questione. Invero, la revoca della sospensione è possibile solo quando vengano meno i presupposti per cui è stata assunta e comunque dopo il decorso di cinque anni.  Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di lite....

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