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Aggiornato: 33 min 50 sec fa

EQUITALIA – IPOTECA ESATTORIALE – REVOCATORIA FALLIMENTARE – INSUSCETTIBILITA’ DI REVOCA EX ART.67 LEGGE FALLIMENTARE

Ven, 11/04/2014 - 14:38
 La massima L'iscrizione ipotecaria effettuata dall'agente della riscossione non è assimilabile alle ipotesi di ipoteca legale, di cui all'art.2817 cc, né può essere equiparata all’ipoteca giudiziale, atteso che per l'iscrizione di quest’ultima l'art.2818 cc, individua il titolo in una sentenza o altro provvedimento giudiziale a cui la legge riconosce tale effetto, allo scopo di rafforzare l'adempimento di una generica obbligazione pecuniaria, mentre l'ipoteca iscritta ex art.77 è sorretta da un provvedimento amministrativo. È da escludere, inoltre, l’equiparazione dell’ipoteca ex art.77 all’ipoteca volontaria, che richiede l'adesione del debitore. Da ciò ne consegue che l'ipoteca ex art.77 DPR 602/1973, non può essere suscettibile di revoca ex art.67,Legge Fallimentare, comma 1, n. 4, che riguarda la revocabilità delle sole ipoteche giudiziali e volontarie. Il caso La EQUITALIA SPA chiedeva di essere ammessa nel Fallimento di BIANCO FUCSIA per una determinata somma in privilegio ipotecario nonché per altra somma in chirografo. Il Giudice Delegato ammettava il credito, in privilegio sebbene per una somma inferiore a quella richiesta. EQUITALIA, proponeva opposizione sostenendo l'inapplicabilità della Legge Fallimentare, art.67, comma 1, n.4, che riguarda le ipoteche giudiziali e volontarie, ma non quelle legali, quale quella dalla stessa iscritta. Il Tribunale, respingeva l'opposizione, rilevando che l'ipoteca iscritta da EQUITALIA SPA non si era consolidata alla data di declaratoria di fallimento, ai sensi della Legge Fallimentare, art.67, comma 1, n.4, in quanto l'ipoteca iscritta dal concessionario opponente non poteva ricondursi alla disciplina di cui all'art.2817 cc, in quanto iscritta ai sensi del D.P.R. n.602 del 1973, art.77, comma 1, norma che equipara il titolo amministrativo costituito dal ruolo al titolo giudiziale, al fine di consentire l'iscrizione da parte del conservatore dei registri immobiliari, ma non prevede l'iscrizione in modo automatico, essendo invece rimessa al concessionario non solo l'opzione se iscrivere o meno, ma anche la scelta del momento in cui provvedere, al fine di costituire volontariamente un titolo di prelazione. Secondo il Tribunale, quindi, la posizione del concessionario era equiparabile a quella di un qualsiasi creditore che si sia procurato un titolo di prelazione fondato su un titolo giudiziale nel periodo sospetto, con l'unica differenza che il concessionario non ha necessità di adire l'autorità giudiziaria ordinaria, potendosi giovare del titolo amministrativo costituito dal ruolo. Ricorre Equitalia, sulla base di un unico articolato motivo. Il Fallimento non ha svolto difese. Avverso tale decisione EQUITALIA SPA proponeva ricorso per cassazione lamentando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n.602 del 1973, art.77, e della Legge Fallimentare, art.67, nonchè vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione. In particolare il ricorrente rilevato che alla stregua del disposto della Legge Fallimentare, art.67, comma 1, n.4, va esclusa la revocabilità della sola ipoteca legale, rileva che il D.P.R. n.602 del 1973, art.77, si limita ad affermare che il ruolo"costituisce titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell'importo complessivo per cui si procede", senza definire la tipologia dell'ipoteca. La ricorrente evidenzia inoltre che l'ipoteca in oggetto acquista efficacia con la sola iscrizione ancorchè, ai fini del decorso del termine semestrale di decadenza dall'impugnazione, D.Lgs. n.546 del 1992, ex art.21, comma 1, ne sia necessaria la notifica al contribuente. L'esclusione dell'ipoteca dalla revocatoria di cui alla Legge Fallimentare, art.67, comma 1, conclude la ricorrente, trova fondamento nella particolare natura del credito a presidio del quale è apposta, che beneficia anche della peculiare tutela dettata dal D.P.R. n.602, art.89, e la cui ratio è soltanto quella di assicurare la riscossione delle "imposte" da intendersi oggi, per il richiamo al D.Lgs. n.46 del 1999, art.17, comma 1 "entrate dello Stato ed altri enti pubblici, compresi gli enti previdenziali". La decisione La Corte accogliendo il ricorso ha cassato il decreto impugnato e, decidendo nel merito, ha ammesso il credito della ricorrente al passivo del Fallimento intimato, nell'importo precedentemente determinato, con collocazione ipotecaria. Il percorso motivazionale cui è giunta la Corte muove dalla identificabilità dell’ipoteca ex art.77 DPR 602/1973 quale ipoteca, giudiziale o legale non essendo a nessuna delle due riconducibile. La Corte esclude la configurabilità dell'ipoteca volontaria, che richiede l'adesione del debitore. La fattispecie in oggetto è poi diversa dall'ipoteca legale di cui all'art.2817 cc, per la quale il legislatore ha previsto l'iscrizione automatica su specifici beni oggetto di negoziazione a ragione dell'esigenza di rafforzare l'adempimento di obbligazioni derivanti da operazioni di trasferimento della proprietà, per effetto di atti di alienazione ovvero di divisione. Nè è altresì assimilabile a quella giudiziale, al di là dell'accostamento a ragione della modalità di iscrizione e della genericità dell'obbligazione garantita, atteso che per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale l'art.2818 cc, individua il titolo in una sentenza o altro provvedimento giudiziale a cui la legge riconosce tale effetto, allo scopo di rafforzare l'adempimento di una generica obbligazione pecuniaria, mentre l'ipoteca iscritta ex art.77 è sorretta da un provvedimento amministrativo. Da ciò ne consegue che l'ipoteca in oggetto, non potendo essere ricompresa nè nella categoria dell'ipoteca giudiziale nè in quella dell'ipoteca volontaria, non può essere suscettibile di revoca Legge Fallimentare, ex art.67, comma 1, n. 4, che riguarda la revocabilità delle sole ipoteche giudiziali e volontarie. A conferma indiretta della correttezza della soluzione adottata, la pronuncia citata richiama la peculiare natura del credito fatto valere e la disciplina di favore a vantaggio del creditore che il legislatore ha inteso attuare a ragione della qualità del creditore, attribuendo efficacia di titolo esecutivo al ruolo formato dall'ufficio finanziario ai fini della riscossione a mezzo concessionario, e disponendo all'art.89, del D.P.R. cit. che i pagamenti di imposte scadute non sono soggette alla revocatoria prevista dalla Legge Fallimentare, art.67, così evidenziandosi il regime eccezionale e derogatorio assicurato all'amministrazione finanziaria a ragione delle finalità pubblicistiche della sua attività, individuabili nella necessità di favorire l'adempimento del debito fiscale e di assicurare, per quanto possibile, la pronta riscossione delle entrate erariali. La presente decisione è conforme a quella dalla Corte di Cassazione del 01/03/2012 n.3232 la quale aveva già affermato l’insuscettibilità della revoca ex art.67,Legge Fallimentare, comma 1, n. 4....

EQUITALIA – AMMISSIONE AL PASSIVO ANCHE IN MANCANZA NOTIFICA DELLA CARTELLA ESATTORIALE AL CURATORE FALLIMENTARE

Ven, 11/04/2014 - 14:19
  La massima Per i crediti iscritti a ruolo ed azionati da società concessionarie per la riscossione, nel caso di avvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, per poter procedere alla riscossione degli stessi si dovrà seguire l'"iter" procedurale prescritto per gli altri crediti concorsuali dalla Legge Fallimentare, art.92 e ss., legittimandosi la domanda di ammissione al passivo sulla base del solo ruolo (che in difetto di contestazioni, costituisce prova del credito) senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale al curatore fallimentare. Il contesto normativo ART. 92 LEGGE FALLIMENTARE (AVVISO AI CREDITORI ED AGLI ALTRI INTERESSATI) Il curatore, esaminate le scritture dell'imprenditore ed altre fonti di informazione, comunica senza indugio ai creditori e ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del fallito, a mezzo posta presso la sede dell'impresa o la residenza del creditore, ovvero a mezzo telefax o posta elettronica: 1) che possono partecipare al concorso depositando nella cancelleria del tribunale, domanda ai sensi dell'articolo seguente; 2) la data fissata per l'esame dello stato passivo e quella entro cui vanno presentate le domande; 3) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda. Se il creditore ha sede o risiede all'estero, la comunicazione può essere effettuata al suo rappresentante in Italia, se esistente. Il caso EQUITALIA SPA proponeva domanda di ammissione al passivo nel fallimento GIALLO per crediti INPS ed INAIL che vantava nei confronti della fallita. Il Giudice Delegato non ammetteva detti crediti nello stato passivo in quanto non risultavano notificate le cartelle di pagamento. Avverso tale decisione la EQUITALIA proponeva opposizione ex art.98 Legge fallimentare che veniva rigettata dal Tribunale il quale riteneva carente la prova dei crediti in questione, non potendo considerarsi tale la produzione degli estratti di ruolo. Proponeva ricorso per cassazione la EQUITALIA SPA deducendo violazione e falsa applicazione dell'art.112 cpc, in relazione all'art.360 cpc, n.4, e Legge Fallimentare, art.95, art.2697 cc, e D.Lgs. n.46 del 1999, art.24, comma 5, in relazione all'art.360 cpc, n.3. La decisione La Corte Suprema di Cassazione ha accolto il ricorso, ha cassato l'impugnata sentenza e, decidendo nel merito, ha accolto la domanda di insinuazione al passivo proposta da EQUITALIA SPA. Invero la Corte, uniformandosi ai più recenti precedenti giurisprudenziali, ha stabilito che, per i crediti iscritti a ruolo ed azionati da società concessionarie, nel caso di avvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, per poter procedere alla riscossione degli stessi si dovrà seguire l'"iter" procedurale prescritto per gli altri crediti concorsuali dalla Legge Fallimentare, art.92 e ss., legittimandosi la domanda di ammissione al passivo sulla base del solo ruolo (che in difetto di contestazioni, costituisce prova del credito) senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale al curatore fallimentare. Tale per cui, nel caso di specie, il collegio pur ritenendo irrilevante l'omessa notifica della cartella per contributi INPS ed INAIL - contrariamente a quanto opinato dal giudice delegato -essendo pervenuto alla conclusione che stante il nuovo testo del D.P.R. n.603 del 1972, art.87, novellato da D.Lgs. n.446 del 1999, la notifica della cartella non era necessaria - avrebbe dovuto ammettere senz'altro il credito al passivo, non essendo state mosse dalla curatela contestazioni diverse ed ulteriori, oltre al rilievo della mancata notifica delle relative cartelle di pagamento....

REVOCATORIA FALLIMENTARE: l’ipoteca iscritta in favore di Equitalia non è revocabile

Ven, 11/04/2014 - 14:09
Il titolo esecutivo in possesso dell’agente di riscossione non è sorretto da un provvedimento giudiziale ma amministrativo e non rientra, pertanto, nelle categorie dell’ipoteca legale o volontaria per cui è prevista la revoca. I crediti che l’Erario vanta nei confronti delle aziende in crisi vanno iscritti allo stato passivo del fallito con collocazione ipotecaria ex articolo 77 Dpr 602/73. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7864 del 03.04.2014, decidendo sul ricorso proposto dal curatore del fallimento di una società in liquidazione avverso il decreto con cui Tribunale aveva accolto l’opposizione al passivo da parte di Equitalia. Nel caso di specie, l’agente di riscossione aveva ottenuto dal Tribunale di Udine l’ammissione al passivo in via ipotecaria per l’intero credito vantato, sulla base del presupposto che l'ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) costituiva un'ipotesi di ipoteca legale, non assoggettabile a revocatoria ai sensi dell'art 67, primo comma, n. 4 della legge fall., anche se iscritta nel semestre anteriore alla dichiarazione di fallimento.  Avverso detto provvedimento il fallimento della società proponeva ricorso per cassazione adducendo che l'ipoteca disciplinata ex articolo 77 Dpr 602/73 presentava tutte le caratteristiche richieste ai fini della revocatoria, ben potendosi accostare all’ipoteca giudiziale, atteso che entrambe costituiscono uno strumento della riscossione, il quale presuppone un titolo esecutivo anche non definitivo, costituito dal ruolo e quindi un accertamento del credito in via amministrativa. Ebbene la Corte, chiamata a pronunciarsi sul caso de quo, non ha accolto le doglianze del ricorrente affermando, invece, che “l'ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P R. n. 602 del 1973 non è riconducibile né all'ipoteca volontaria (art. 2821 cod civ in quanto la sua iscrizione prescinde dal consenso del proprietario del bene gravato, né a quella legale (art. 2817 cod. civ ), dal momento che l'iscrizione non ha luogo automaticamente su specifici beni oggetto di negoziazione, al fine di garantire l'adempimento di obbligazioni derivanti da un'operazione di trasferimento della proprietà, ma richiede un'iniziativa del creditore e non presuppone un preesistente atto negoziale. Essa, pur potendo essere accostata all'ipoteca giudiziale (art. 28 18 cod. civ.), con la quale ha in comune la subordinazione dell'iscrizione ad una iniziativa del creditore fondata su un titolo esecutivo precostituito e la finalità di garantire l'adempimento di una generica obbligazione pecuniaria, se ne differenzia per la natura del titolo che ne costituisce il fondamento, il quale non è rappresentato da un provvedimento giurisdizionale, ma da un atto amministrativo. Si tratta pertanto di una figura autonoma, non agevolmente inquadrabile in nessuna delle categorie previste dal codice civile, e quindi non suscettibile di revoca ai sensi dell'art 64, primo comma, n. 4 della legge fall., il quale prevede la revocabilità delle sole ipoteche giudiziali e volontarie”. Sulla base di tali considerazioni gli Ermellini hanno, dunque, rigettato il ricorso, compensando le spese di lite. Per approfondimenti sulla materia si veda: FALLIMENTO: L’IPOTECA LEGALE ISCRITTA A GARANZIA DEL PAGAMENTO DELLE IMPOSTE NON È SUSCETTIBILE DI REVOCATORIA L'iscrizione ipotecaria effettuata dall'agente della riscossione non è assimilabile alle ipotesi di ipoteca volontaria o giudiziale. Sentenza | Cassazione civile, sezione prima | 09-01-2014 | n.325 EQUITALIA – IPOTECA ESATTORIALE – REVOCATORIA FALLIMENTARE – INSUSCETTIBILITA’ DI REVOCA EX ART.67 LEGGE FALLIMENTARE L'iscrizione ipotecaria effettuata dall'agente della riscossione non è assimilabile alle ipotesi di ipoteca legale di cui all'art.2817 cc. Sentenza | Cassazione civile, sezione prima | 18-05-2012 | n.7911 FALLIMENTO – IRREVOCABILITA’ DELLE IPOTECHE ISCRITTE DA EQUITALIA L'art. 67 della legge fallimentare consente la revoca delle ipoteche solo se qualificabili come volontarie o giudiziali, e non di quelle legali. Ordinanza | Cassazione civile, sezione sesta | 06-11-2012 | n.19141...

CESSIONE DEL RAMO D’AZIENDA: si applica l’art. 2560 cc, secondo comma

Ven, 11/04/2014 - 09:58
Nel caso di cessione del ramo d’azienda si applica l’art.2560 cc, secondo comma, anche nel caso in cui le parti, nel contratto di cessione, avevano pattuito che i crediti, debiti i diritti e le obbligazioni relativi alla gestione del cedente restassero a carico dello stesso. La norma in questione, che disciplina la sorte dei debiti relativi all’azienda ceduta, applicabile anche alle ipotesi di cessione d’azienda, prevede che risponde dei debiti inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, anche l’acquirente dell’azienda se gli stessi risultano dai libri contabili obbligatori. È quanto stabilito dal Tribunale di Napoli, nella persona del giudice unico Ettore Pastore Alinante, che, con la sentenza n.2611 del 18/02/2014, si è pronunciato per la definizione di un giudizio instaurato da un istituto di credito al fine di ottenere la condanna di una società e dei suoi fideiussori al pagamento dei saldi passivi di conti correnti bancari. La domanda di pagamento era stata proposta anche nei confronti di una diversa società con cui la debitrice principale aveva stipulato un contratto di cessione d’azienda. La società cessionaria, nella sua comparsa di risposta, aveva sostenuto che il contratto oggetto di contestazione non fosse stato in realtà una cessione d'azienda, bensì solo la cessione di attrezzature e abilitazioni riconducibili alle attività di cui a determinate categorie di opere, per un totale di meno del 20% del valore delle immobilizzazioni immateriali e materiali della società cedente. Ebbene, il Tribunale, chiamato a pronunziarsi sul caso de quo, non ha accolto le difese della società cessionaria, rilevando che la cessione aveva avuto ad oggetto attività costituenti l’oggetto sociale proprio della cedente e, pertanto, non poteva essere qualificata come "semplice cessione di meri strumenti". Il Giudice ha altresì ritenuto irrilevante il prezzo indicato nell'atto di cessione la cui quantificazione sarebbe potuta essere stata determinata da vari fattori estranei all'effettivo valore dei beni. Alla luce di tali considerazioni, l’adito giudicante ha accolto la domanda di condanna anche nei confronti della società cessionaria in virtù di quanto stabilito dall’art. 2560 cc, secondo comma, che disciplina la sorte dei debiti relativi all'azienda ceduta, applicabile anche al caso di cessione di ramo d'azienda, il quale prevede che nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti, inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento, anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Il Tribunale partenopeo, quindi, accertato che dal bilancio del 2007 della società debitrice risultavano iscritti nelle passività debiti verso la banca che aveva introdotto il procedimento monitorio e, poiché necessariamente il bilancio è redatto sulla base di quanto risulta dalle scritture contabili obbligatorie, ha condannato anche la cessionaria a pagare quanto dovuto dalla società cedente alla Banca, oltre gli interessi....

CONTRATTO DI GESTIONE PORTAFOGLIO: INAPPLICABILITA’ DEL PRINCIPIO DI APPROVAZIONE TACITA DEL RENDICONTO

Gio, 10/04/2014 - 14:36
Con la sentenza n. 4393 del 24.02.2014 la Suprema Corte prende in esame il contratto di gestione di portafoglio titoli con particolare riferimento alla valutazione di eventuali scelte di gestione difformi da quelle previste in contratto nonché alle possibili contestazioni che possono essere mosse dal cliente alla Banca. In particolare, vengono esaminati i possibili effetti riconducibili alla mancata contestazione da parte del cliente dei rendiconti di gestione, evidenziando come un eventuale comportamento passivo del cliente dinanzi all’invio di tale documentazione non generi alcun meccanismo di approvazione tacita degli stessi, necessitando, nel merito, una valutazione complessiva del suo contegno da parte del Giudice. Viene esclusa, pertanto, un’applicazione analogica al rendiconto di gestione degli istituti previsti dagli articoli 119 T.U.B. e 1832 c.c., con ciò segnando una netta distinzione tra il documento relativo al riepilogo di gestione del portafoglio e gli estratti conto bancari, precisando come i primi “non siano meri riepiloghi storico-contabili, bensì veri e propri rendiconti di gestione”. Dinanzi, quindi, ad una violazione degli obblighi di gestione da parte del mandatario, il cliente manterrà il proprio diritto al risarcimento del danno fintanto che esso non si estingua per prescrizione, non potendosi in alcun modo verificare una decadenza (nei termini suddetti) non prevista dal legislatore. Ciò premesso, il Supremo Collegio, passando ad analizzare l’istituto della gestione di portafoglio, compie un’ulteriore rilevante precisazione, affermando come il dovere di realizzare il massimo profitto nell’interesse del cliente permanga per tutto il periodo del mandato di gestione, non essendo possibile operare alcuna compensazione tra i risultati migliori precedentemente conseguiti e quelli attuali inferiori. IL CASO Il Tribunale di Verona, accoglieva la domanda di parte attrice volta ad ottenere la condanna al risarcimento del danno per negligenza nella gestione del proprio portafoglio titoli, conferita dal cliente all'intermediario con contratto di mandato. Il Giudice di prime cure, rilevava, infatti, un inadempimento gravemente colposo da parte dell'istituto di credito, che aveva posto in essere un criterio prudenziale nella gestione del suddetto portafoglio titoli, in maniera difforme rispetto a quanto convenuto in contratto. Tale violazione consisteva, di fatto, in una riduzione da parte dell'intermediario della quota azionaria della gestione, la quale determinava una minore redditività, che ad avviso della Corte di merito, andava valutata complessivamente con la precedente gestione. La Corte d’Appello, invece, riformando la decisione di primo grado, statuiva che la inesatta esecuzione del contratto doveva riflettere l’attività del mandatario nel suo complesso. Pertanto la valutazione complessiva dell’operato del gestore doveva essere letta con riferimento all’intero triennio di gestione, il quale evidenziava una redditività superiore a quello di fondi comuni di investimento. Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione. LA DECISIONE 1) DIFFERENZE SOSTANZIALI TRA RENDICONTO DI GESTIONE ED ESTRATTO CONTO E CONSEGUENTE INAPPLICABILITÀ DI MECCANISMI DI APPROVAZIONE TACITA DEL RENDICONTO La sentenza in commento analizza preliminarmente la questione inerente la possibile operatività di meccanismi di approvazione tacita del rendiconto di gestione dinanzi a comportamenti passivi del cliente. L'impossibilità di una approvazione tacita delle operazioni svolte dal gestore, viene dedotta attraverso la ricostruzione degli effetti riconducibili all'invio del rendiconto di gestione al cliente. Tale documento, a differenza dell'estratto di conto corrente, non è un semplice “riepilogo di dati storico-contabili, bensì dei veri e propri rendiconti di gestione”. Data la radicale diversità di funzione, ad esso non potrà essere estesa per analogia, secondo la Suprema Corte, la disciplina prevista dagli articoli 119 T.U.B. e 1832 c.c., relativa alla approvazione tacita degli estratti conto in difetto di pronta contestazione. Stante la sostanziale differenza di funzione e di contenuto tra i due documenti descritti e quindi l'impossibilità di una estensione analogica della normativa suddetta al rendiconto periodico di gestione del portafoglio, non si potrà verificare a carico del cliente alcuna decadenza portata da un eventuale contegno passivo dinanzi all'invio di tale documento. Tale distinzione è confermata dalla giurisprudenza che, nel merito, ha confermato come l'estratto conto abbia la funzione di certificare la verità storica dei dati indicati nel conto, svolgendo così una funzione informativa, mentre il rendiconto di gestione, come detto, non ha mera funzione di riepilogo di dati storici, bensì di vero e proprio resoconto di gestione. Il contegno tenuto dal cliente, pertanto, dovrà essere valutato dal giudice nel suo complesso alla luce del principio della buona fede, non essendo espressamente previsto a suo carico dal legislatore alcun meccanismo di decadenza in caso di non tempestiva contestazione dell’operato del gestore. L’impossibilità di una approvazione tacita del rendiconto di gestione è inoltre confermata dalla causa contrattuale che il contratto di gestione di portafoglio. Tale figura contrattuale, sebbene vicina alla figura del mandato, come affermato nella decisione in esame, differisce da essa per la caratteristica di una previsione di tutela più ampia per l'investitore, sicuramente contraddetta dalla operatività di un principio di approvazione tacita dei rendiconti periodici non contestati. Nel merito si è altresì osservato come nel caso in cui tale contratto fosse figura tipica e quindi non appartenente al tipo del mandato, le norme di tale istituto sarebbero ad esso applicabili solo in via analogica, permettendo così l'applicazione a tale contratto della normativa regolamentare in materia finanziaria, con ogni pregiudicato giuridico da ciò discendente. Al di là della ricostruzione giuridica della causa contrattuale, è da rilevare come all'interno del contratto di gestione di portafogli, la pattuizione che le parti concordano ha assoluto rilievo. Ciò trova conferma nella prescrizione di forma dello stesso ai sensi dell'art. 23 T.U.F..  Proprio dagli obblighi assunti con tale atto dal gestore, quindi, discende l'interesse del cliente al rispetto dei doveri gravanti su di esso.  L'inciso, pertanto, conferma l'assoluta irrilevanza della mancata contestazione dei rendiconti di gestione da parte del cliente, il quale in virtù delle pattuizioni contrattuali, ha facoltà di pretendere il ristoro del danno subito sino al termine di prescrizione previsto dall’ordinamento per tale azione, senza che si verifichi a suo carico alcun meccanismo di approvazione tacita degli stessi. 2) CRITERI E MODALITA' DI VALUTAZIONE DELLA GESTIONE DA PARTE DELL'INTERMEDIARIO. Passando ad analizzare i precipui obblighi di gestione dell'intermediario, la sentenza in commento afferma come tale valutazione non possa essere formulata in modo globale, bensì debba avere riguardi a tutti i segmenti dell'arco temporale relativo alla durata del contratto. Infatti, se in un particolare periodo di gestione viene rilevata una grave violazione degli obblighi assunti in contratto da parte dell’istituto di credito, non sarà possibile valutare il risultato di gestione degli anni precedenti unitamente a tale segmento, operando in tal modo una compensazione tra gli utili maggiori della precedente gestione e quelli minori conseguenti ad un comportamento “prudenziale” contrario agli obblighi contrattuali stessi. La Corte di Cassazione, nel merito, chiaramente afferma come gli obblighi di miglior cura dell'interesse del cliente permangono per tutta la durata contrattuale prevista e pertanto non trova giustificazione che un miglior risultato di gestione legato ad un periodo precedente autorizzi successivi risultati deteriori di gestione. L'argomentazione su cui tale assunto si fonda è quella relativa al fatto che tali pregressi proventi non sono “un qualcosa che il cliente abbia lucrato al di là di quanto gli spettasse, e rispetto al quale si possa quindi operare una sorta di compensazione con minori guadagni del periodo successivo.”  Il cliente, infatti, conserva il proprio diritto al miglior rendimento possibile per tutta la durata del contratto di gestione. Ove, quindi, il gestore viene meno a tale dovere anche per un segmento temporale del periodo di gestione è facoltà del cliente agire nei riguardi di quest'ultimo per ottenere il risarcimento del danno provocato da tale inadempimento....

MUTUO FONDIARIO - AMMISSIONE AL PASSIVO – REVOCA IPOTECA - LEGITTIMITÀ

Gio, 10/04/2014 - 13:50
 1. La nullità del contratto di mutuo fondiario contratto per estinguere debiti pregressi di natura chirografaria. La I^ sezione della Cassazione Civile con sentenza del 17/12/2013 n. 4185 ha confermato l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale un finanziamento per il quale si invocano le garanzie di cui all’art. 39 del TUB (Testo unico bancario – D.Lgs. 1/09/1993, n. 385) può essere dichiarato nullo, anche parzialmente allorché risulti che le parti avrebbero comunque voluto il contratto, seppure con un contenuto ridotto eliminando le clausole viziate (Cass. Civ., sent. N. 9219 del 1/09/1995). La ragione che spinge a considerare nullo il contratto nasce dalla considerazione che con il contratto di mutuo “fondiario”, le somme mutuate non sono messe concretamente a disposizione della parte mutuataria ma sono destinate ad estinguere unicamente pregresse esposizioni debitorie di natura chirografaria verso la banca mutuante.  In tal modo la banca acquisisce una prelazione ipotecaria che precedentemente non aveva, utilizzando uno schema che gli assicura prerogative e vantaggi, non ultimo il consolidamento dell’ipoteca entro 10 giorni nonché garanzie processuali consistenti nella indifferenza al fallimento dell’impresa mutuata. In effetti,in tale contesto, il credito fondiario gode di una disciplina speciale, caratterizzata dalle seguenti regole: 1) esenzione da revocatoria per la concessione di ipoteche a garanzia dei finanziamenti (art. 39, quarto comma, primo periodo, t.u.b.); 2) esenzione da revocatoria per i pagamenti effettuati dal debitore a fronte di crediti fondiari (art.39, quarto comma, secondo periodo, t.u.b.); 3) diritto degli istituti di credito di poter continuare o iniziare l’esecuzione individuale pur in presenza di fallimento del debitore (art. 41, secondo comma,t.u.b.); 4) destinazione alla banca delle rendite degli immobili ipotecati (art. 41, terzo comma, t.u.b.). Si spiega così il tentativo, sovente posto in essere dalle banche, in presenza di segnali di depauperamento della situazione economico-finanziaria del soggetto affidato, di porre un argine alle conseguenze di una eventuale procedura esecutiva o concorsuale in testa al mutuante proponendo allo stesso di trasformare il debito chirografario in mutuo fondiario, magari con l’intesa di corrispondere una ulteriore iniezione di liquidità. D’altra parte, non appare possibile che comportamento opportunistici del genere, possano essere ritenuti accettabili e non subire il vaglio giudiziario. Diversa è la fattispecie nella quale, invece, sia il cliente a chiedere alla banca la concessione di ulteriore finanza e il consolidamento di tutte le esposizioni in un mutuo ipotecario. Queste due diverse ipotesi giustifichino le conclusioni della S.C. che in presenza di fenomeni del genere ha comminato la sanzione della nullità totale (nel primo caso) o parziale (nel secondo caso). Su un piano squisitamente giuridico la nullità viene affermata in applicazione dell’art. 1418 c.c. che dispone che “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”; in tal senso è orientata la giurisprudenza di merito, vedi per tutti: Trib. Venezia, sez. fall., decreto 26/07/212. Analogamente, la nullità per difetto di causa di un mutuo di scopo è stata espressamente dichiarata dalla Corte di Cassazione, sent. n° 8564/2009, risultando accertata la mancata ultimazione dei lavori di un complesso edilizio per la quale il mutuo era stato concesso, perché l' accordo appariva ab initio incentrato sul pagamento di debiti preesistenti del mutuatario. Ovviamente la declaratoria di nullità, anche parziale, del contratto di mutuo fondiario comporta la decadenza del regime di favore accordato in sede fallimentare.   In particolare, per ciò che attiene alla revocatoria, già con sentenza n. 20622 del 2007, la S.C. ha statuito che è sufficiente che la curatela fallimentare agisca con il meccanismo revocatorio di cui all’art. 67, co. 1, n. 2 L.F. e non è necessario che chieda, o comunque vada dichiarata, la nullità del contratto di mutuo fondiario. Ciò in quanto l’art. 67 L.F. dispone che sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Pertanto, non solo la radicale nullità, o la simulazione, del mutuo fondiario, ma anche la mera revoca dello stesso, comporta l’inopponibilità al fallimento ed è sufficiente ad escludere il beneficio del consolidamento dell’ipoteca previsto dall’art. 39 del TUB. Di conseguenza si apre la questione di conoscere l’esito del contratto revocato in seno alla procedura concorsuale. Ci si chiede, pertanto, se l’invalidità del contratto di cui si discute consenta o meno alla banca di insinuarsi al passivo fallimentare dell’impresa mutuataria che sia fallita. A riguardo diversi arresti della Cassazione (Cass. 26504/2013; Cass. 1807/2013; Cass. 4069/2003; Cass. 899/1973) hanno stabilito che l’ammissione al passivo del fallimento è ammessa, salvo che nell’ipotesi della simulazione o della novazione o, in altri termini, che la revoca del mutuo comporta la necessità di ammettere al passivo la somma realmente erogata atteso che all’inefficacia del contratto consegue pur sempre la necessità della restituzione della somma erogata sia pure in moneta fallimentare. Si ha ipotesi di simulazione se le parti hanno munito di prelazione ipotecaria il preesistente debito, in realtà non estinto, simulando un mutuo non voluto. Si ha novazione nel caso di sostituzione della precedente obbligazione con una nuova assistita dalla garanzia ipotecaria.  Sotto altro aspetto la predetta operazione, creando artificialmente un credito privilegiato, può essere ritenuta in frode ai creditori e suscettibile di revocatoria. Il contratto concluso in frode ai creditori non è nullo ma questi possono attivare l’azione revocatoria o la simulazione. La sentenza 4185/14  Nel solco sopra delineato, la sentenza della Cassazione n. 4185/2014, emessa a seguito di ricorso proposto da una banca avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona del 7/06/2008 con la quale si respingeva l’opposizione allo stato passivo del fallimento, lo ha rigettato confermando i seguenti principi: a) è consentito al giudice delegato ammettere il credito derivante dal contratto di mutuo fondiario al contempo escludendo la garanzia ipotecaria. Il giudice è legittimato ad escludere la garanzia sulla base della semplice contestazione del curatore e il curatore non è tenuto a proporre in via riconvenzionale l’azione nell’eventuale giudizio promosso dal ceditore essendo sufficiente che si limiti a richiedere il rigetto della proposta opposizione allo stato passivo. Pertanto, il mancato riconoscimento da parte del giudice delegato di un credito o di un privilegio rimane circoscritto nell’ambito della verifica dello stato passivo a seguito della richiesta del curatore; si cfr. ora l’art. 95 L.F. b) la revoca dell’ipoteca non necessariamente comporta l’esclusione dall’ammissione al passivo del credito azionato. Ciò si verificherebbe solo nell’ipotesi della simulazione o della novazione e non anche in quella cosiddetta del negozio indiretto atteso che la revoca del mutuo comporta la necessità di ammettere al passivo la somma realmente erogata giacché all’inefficacia del contratto consegue pur sempre la necessità della restituzione della somma erogata sia pure in moneta fallimentare; c) gli elementi costitutivi dell’azione revocatoria (eventus damni e scientia decoctionis) si ritengono sussistenti in ragione della concessione di tre ipoteche nell’arco di un mese che avevano diminuito la garanzia patrimoniale del debitore nei confronti degli altri creditori, cui entro pochissimo tempo era seguita la revoca degli affidamenti da parte di tutti gli altri istituti di credito. Inoltre il bilancio della società fallita evidenziava perdite consistenti che avrebbero dovuto porre sull’avviso la banca....

REVOCATORIA FALLIMENTARE: sono revocabili le sole rimesse volte a ridurre l’esposizione debitoria

Gio, 10/04/2014 - 11:08
I versamenti effettuati dalla società alla banca nell’anno precedente l’ammissione della società stessa alla procedura di amministrazione straordinaria non hanno natura solutoria, bensì ripristinatoria della provvista e, pertanto, non sono revocabili. Questo il principio di diritto statuito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4803 del 28.02.2014. Nel caso preso in esame, la Suprema Corte ha cassato con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione la sentenza che aveva ritenuto revocabili le somme versate sul conto corrente dalla società nell’anno precedente la dichiarazione di insolvenza, sull’errata convinzione che non vi fosse un contratto di apertura di credito e senza tenere conto del contratto depositato dalla banca nella produzione del giudizio di primo grado. Non vi è dubbio, infatti, che l’istituto di credito fosse a conoscenza dello stato di insolvenza della società nell’anno anteriore la sua dichiarazione, anche per le numerose ipoteche fino al sesto grado gravanti sugli immobili e la presenza di pegni e privilegi gravanti sul patrimonio della società. Per contro, in atti è emerso che la banca ha concesso alla società un affidamento complessivo di oltre due miliardi di lire, come si evince dal documento prodotto nel giudizio di primo grado dalla stessa banca, documento formato da quattro facciate, intestato “lettera di risposta al cliente”, con le condizioni che regolano l’apertura di credito in conto corrente fra la banca e la società, debitamente sottoscritto dalla cliente.   La Corte di Cassazione, nel caso di specie, in presenza agli atti del fascicolo di primo grado del documento che attesta la concessione di un fido al cliente e l’indicazione dell’ammontare concesso, ha affermato il principio di diritto secondo cui le rimesse effettuate dalla società alla banca nel periodo “sospetto” in presenza di un’apertura di credito non hanno natura solutoria, bensì natura ripristinatoria della provvista e, pertanto, non sono revocabili. La sentenza in commento, dunque, ribadisce il principio per cui hanno indubbiamente carattere solutorio e, pertanto, sono revocabili ai sensi dell’art. 67, 2° comma, L.F. solo quelle rimesse volte ad eliminare o quanto meno a ridurre l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca a discapito degli altri creditori. Più precisamente, i giudici di legittimità hanno affermato che sono revocabili soli i versamenti volti ad eliminare o a ridurre lo , atteso che solo in questo caso il debito è liquido ed esigibile ed il pagamento assume una vera e propria funzione solutoria. Per completezza appare doveroso segnalare anche l’orientamento di segno opposto  della Suprema Corte, la quale in una pronuncia del 2007 (sent. n. 23107 del 6/11/2007 in Il Fallimento n. 5/08) ha affermato il principio in virtù del quale “in tema di revocatoria fallimentare, per stabilire se le rimesse su conto corrente bancario assistito da una apertura di credito abbiano natura solutoria, occorre verificare se i versamenti siano confluiti su un conto passivo in corso di ordinario svolgimento del rapporto in funzione ripristinatoria o siano intervenuti in una situazione caratterizzata dalla mancanza o dal superamento della concessione del credito; tale valutazione deve operarsi con riferimento al momento dell’effettuazione dei singoli versamenti e non ex post, in relazione alla mancata utilizzazione del credito da parte del cliente, salvo che risulti provata la chiusura anticipata del conto o il blocco nella concessione dei blocchetti degli assegni ovvero condotte negoziali sintomatiche in modo univoco della natura solutoria dei versamenti". In dottrina ed in giurisprudenza, tra l’altro, è stata ritenuta la revocabilità delle rimesse effettuate su un conto corrente affidato, qualora risulti che queste abbiano concretamente e definitivamente concorso a ridurre il debito sorto a carico del cliente verso la banca  in conseguenza della utilizzazione del fido, in quanto non seguite da ulteriori prelievi. L’effetto delle rimesse in tal caso sarebbe di soddisfare il credito della banca, in palese violazione della par condicio creditorum. Un indirizzo non dissimile è stato espresso dalla sentenza n. 9064/1992 della Cassazione civile, secondo cui sono revocabili, sempre in un conto assistito da apertura di credito, le rimesse che appaiono, con accertamento ex post, avere definitivamente concorso a ridurre il debito verso la banca. Detta ipotesi è stata poi individuata nel caso in cui il conto sia stato chiuso anticipatamente, determinando in tal modo un rientro della banca stessa. In epoca successiva la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, nel caso in cui la rimessa sia effettuata su di un conto affidato, la natura solutoria può essere certo accertata ex post, ma detto accertamento richiede la presenza di ulteriori specifiche circostanze di fatto, puntualmente indicate nell’anticipata chiusura del conto o nella indisponibilità di fatto della provvista per il rifiuto della banca di rilasciare altri blocchetti di assegni, ovvero nella revoca del fido. La chiusura del conto, dunque, è tale da rendere incontrovertibile la funzione solutoria della rimessa (tra le tante Cass. n. 20935/2005; Cass. n. 13313/1999; Cass. n. 9064/1992). Da ultimo occorre necessariamente far riferimento alla novella dell’art. 67, terzo comma, lett. b, L.F., la quale dichiara non revocabili le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca. Detta norma va tra l’altro coordinata con l’art. 70 L.F., terzo comma, così come modificato dal decreto correttivo n. 169/2007, in cui si è stabilito che la banca, in quanto terzo revocato, deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto  dalle sue pretese  e l’ammontare residuo delle stesse. In base a ciò la revocatoria avrà  ad oggetto una somma pari alla differenza tra il massimo scoperto raggiunto nel periodo in cui è provata la scientia decoctionis e il saldo finale, poiché tale differenza indica la riduzione subita dall’esposizione debitoria del fallito  in questo periodo. Ne consegue che non è più attuale la distinzione tra rimesse solutorie affluite  su conto scoperto e rimesse ripristinatorie affluite su conto passivo. L’esplicita adesione alla teoria della differenza fra massimo scoperto e saldo finale ne comporta il necessario abbandono (in tal senso G. Cavalli, commento all’art. 67, terzo comma, lett. b, in “Il Nuovo diritto fallimentare”, diretto da A. Iorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna 2006, 970) e di conseguenza un totale ribaltamento di prospettiva, imponendo una valutazione unitaria delle vicende subite dal rapporto di conto corrente in periodi sospetto. La effettiva funzione solutoria o ripristinatoria dei versamenti affluiti sul conto potrà essere accertata solamente ex post, alla luce di tutte le operazioni compiute fino al momento della chiusura del conto, revocando non solo gli accrediti che abbiano comportato un rientro dagli sconfinamenti, ma anche le rimesse che, sebbene avvenute nei limiti dell’apertura di credito, non siano state più seguite dai successivi prelievi e, quindi, abbiano rappresentato, con valutazione ex post un rientro per la banca.   ...

ESECUZIONE FORZATA: SUCCESSIONE NELLA LEGITTIMAZIONE ATTIVA NEL PROCESSO ESECUTIVO

Gio, 10/04/2014 - 08:39
Per effetto della fusione per incorporazione la società incorporata non si è estinta, né per effetto della fusione è sorto un nuovo soggetto giuridico distinto sa quello incorporato ma si è verificata solo una vicenda modificativa in forza della quale la società risultante dalla fusione prosegue in tutti i rapporti anteriori alla fusione. Così si è pronunziato il Tribunale di Napoli Giudice dell’Esecuzione dr. Anna Giorgia Carbone, rigettando la richiesta di sospensione della procedura esecutiva avanzata dai debitori esecutati sul presupposto del difetto di legittimazione ad agire e del difetto di titolarità del credito. L’ordinanza in esame affronta il problema della fusione per incorporazione della società titolare del credito in altra società incorporante durante la pendenza del processo esecutivo e si pone il linea con i precedenti giurisprudenziali ed in particolare con la sentenza della Corte di Cassazione n. 6058 del 18/4/2012 secondo cui la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell'ipotesi di fusione paritaria, ma attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo - modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, verificandosi  un mutamento formale di un'organizzazione societaria già esistente, per cui la società incorporata sopravvive in tutti i suoi rapporti alla vicenda modificativa nella società incorporante. È da premettere che l’istituto è stato oggetto della riforma del diritto societario, avvenuta con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in attuazione della L. 3 ottobre 2001, n. 366, e quelle successive, che – tra l’altro – ha eliminato quale effetto naturale della fusione l’estinzione della società incorporata. È da segnalare che - già prima della riforma - l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione (cfr. Cass. n. 4679/02; Cass. n. 10595/01) era quello di ritenere che la fusione per incorporazione realizzasse una successione a titolo universale corrispondente alla successione "mortis causa" e producesse gli effetti, tra loro interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che diveniva il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. Successivamente alla riforma e a seguito della nuova formulazione dell’art.2504 bis cc, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, valorizzando la lettera della disposizione, che non contiene più il riferimento all'effetto estintivo e sottolinea che la società che risulta dalla fusione o quella incorporante prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, ha affermato che la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell'ipotesi di fusione in senso stretto, ma attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione.  Si verifica, dunque, una vicenda meramente evolutivo - modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo (Cfr. ordinanza n. 2637/2006 seguita da Cass. Civ. n. 14526/2006), con la conseguenza che la fusione secondo la nuova norma è una mera modifica che lascia sopravvivere tutte le società partecipanti alla fusione, sia pure con un nuovo assetto organizzativo reciprocamente modificato, e senza alcun effetto successorio ed estintivo, attuandosi il semplice mutamento formale di un'organizzazione societaria già esistente. Consegue che: -la fusione non genera alcun mutamento nella titolarità dei rapporti giuridici anche se posti in essere prima della fusione, restando la sostituzione nella titolarità dei rapporti pregressi limitata ai soli rapporti che in precedenza facevano capo alle società incorporate; -l’originaria società intervenuta nel processo esecutivo, essendo sempre società incorporante, non può ritenersi estinta, con la conseguente validità della procura alle liti da questa rilasciata al legale costituito....

ASSEGNO – FIRMA TRAENZA FALSA - TRACCIATO PIATTO – ESAME TATTILE -–

Mer, 09/04/2014 - 15:59
Nel caso di falsificazione di assegno bancario nella firma di traenza, la misura della diligenza richiesta alla banca nel rilevamento di detta falsificazione è quella dell'accorto banchiere, avuto riguardo alla natura dell'attività esercitata, alla stregua del paradigma di cui al secondo comma dell'art. 1176 cod. civ. Ne consegue che spetta al giudice del merito valutare la rispondenza al predetto paradigma della condotta richiesta alla banca in quel dato contesto storico e rispetto a quella determinata falsificazione, attivando così un accertamento di fatto volto a saggiare, in concreto e caso per caso, il grado di esigibilità della diligenza stessa; verifica che, di regola, verrà a svolgersi in base ad un apprezzamento rivolto a verificare se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o, piuttosto, se la falsificazione stessa sia, invece, riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche. Questo il principio di diritto espressamente enunciato dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 6513 del 20/03/2014, ha statuito in materia di accertamento della responsabilità della banca per il danno patito da un correntista apparentemente traente del titolo a fronte del pagamento da parte dell'istituto di un assegno bancario falsificato nella firma di traenza che presentava un tracciato assolutamente piatto. In particolare, la decisione trae origine da una azione proposta dal correntista nei confronti della Banca negoziatrice del titolo, assumendo che, in stanza di compensazione, sarebbe stato omesso un adeguato controllo della firma di traenza. Il Tribunale capitolino, ritenendo sussistente la responsabilità degli istituti di credito convenuti in giudizio in concorso di colpa, in accoglimento della domanda attorea, li condannava al pagamento dell’importo ritenuto dovuto. Dopo aver dato ragione in primo grado alla società correntista, proposto appello da parte della Banca, poi, la Corte territoriale aveva escluso la responsabilità della banca, ritenendo «non sufficiente la mera rilevabilità dell'alterazione, occorrendo che la stessa sia visibile ictu oculi, in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né deve essere un esperto grafologo».  Per la Corte territoriale, infatti, «non poteva attribuirsi valore dirimente alla “pretesa rilevabilità al tatto dell'assoluta piattezza del tracciato grafico”, posto che esistono tipologie di scritture (penna roller o stilografica) “la cui percepibilità al tatto è estremamente difficile e comunque condizionata a capacità percettive individuali e non esigibili da un cassiere pur diligente e scrupoloso”». Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il correntista, deducendo che l’esame tattile del titolo di credito potesse avere un rilevanza in considerazione del grado di diligenza richiesto all’accorto banchiere nell’esame degli assegni ai sensi dell'art. 1176 cc, secondo comma. Il Supremo Collegio, nell’affermare il principio innanzi riportato in ordine alla valutazione della sussistenza della responsabilità del Banchiere, è partito dall’indagare se, a fronte del pagamento di un assegno bancario falsificato nella firma di traenza, che presentava "un tracciato assolutamente piatto", sussista la responsabilità della banca trattaria per il danno patito dal correntista apparentemente traente di detto assegno. La Corte di Cassazione, dopo aver rilevato che la decisione assunta dalla Corte territoriale era conforme all’orientamento dalla stessa affermato - secondo cui la rilevabilità dell'alterazione deve essere  visibile ictu oculi, in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, nè deve essere un esperto grafologo- ha evidenziato la necessità di valutare la diligenza richiesta all'istituto di credito secondo standard oggettivi i quali tengano conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento e che, al tempo stesso, vengano ad adeguarsi alla realtà peculiare dello specifico rapporto contrattuale interessato. I Giudici del palazzaccio, infatti, hanno precisato che l'indirizzo prevalente, che individua la diligenza a cui è tenuta la Banca in quella di cui all'art. 1176 cc, secondo comma, e cioè quella richiesta nell’esercizio dell’attività professionale, non è contraddetto da quelle pronunce  che affermano che la stessa non tenuta a disporre di attrezzatura con strumenti meccanici o chimici per il  controllo dell'autenticità delle sottoscrizioni e gli impiegati non sono tenuti a dotarsi di una solida competenza in materia grafologica. Tuttavia, tale apprezzamento – come espressamente affermato dalla Corte di legittimità a supporto della fondatezza del ricorso proposto - non può prescindere “dalla considerazione del carattere dinamico del concetto di diligenza e dalla sua specifica connotazione tecnica, rivelata dall'art. 1176 c.c., comma 2, per cui, in quanto valutazione attinente ad una clausola generale, essa non può essere cristallizzata, ma deve modularsi in base alle condizioni, storicamente date, del contesto in cui si svolge l'attività professionale che, di volta in volta, viene in rilievo”. Su tale principi, la Corte di legittimità  ha affermato che spetta al giudice di merito valutare in concreto se il falso possa o meno essere oggetto di riscontro attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile da parte dell'impiegato e secondo la competenza teorica-tecnica comune, ovvero se necessiti di strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo, o, piuttosto, se la falsificazione stessa sia riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo. La Cassazione, quindi, all’orientamento affermatosi in giurisprudenza in ordine alla responsabilità della banca per il pagamento dell’assegno con firma falsa, aggiunge, con la sentenza in commento, una precisazione stabilendo che la valutazione deve essere effettuata  in concreto e rispetto al momento storico e al particolare contesto prescindendo dal possesso  da parte della Banca di particolari apparecchiature specialistiche o, comunque, eccedenti la portata tipica dell'attività esercitata, ma dovendo la stessa però attrezzarsi in forza di cautele attuali ed adeguate, che possono essere agevolmente apprestate secondo il profilo tecnico della diligenza ad essa richiesta. La Cassazione ha, quindi, accolto il ricorso ritenendo che tale indagine non era stata congruamente effettuata dalla Corte territoriale per non aver effettivamente ed in concreto valutato la difficoltà di rilevamento della falsificazione. Il Giudice di merito, quindi, nel valutare la responsabilità del banchiere, dovrà prima accertare il grado di difficoltà per individuare la falsificazione della firma e, cioè, individuare quale sarebbe stato il controllo idoneo richiesto per tale verifica – esame visivo o tattile, strumenti comuni, apparecchiature tecniche sofisticate - e, quindi, stabilire all’esito di tale accertamento se la Banca abbia o meno adottato la misura della diligenza richiesta dall’ordinamento. In conclusione l’esame visivo o tattile può essere rilevante per la determinazione della responsabilità dell’accorto banchiere....

AVVOCATI: l’obbligo previdenziale sussiste esclusivamente per l’attività professionale in senso stretto

Mer, 09/04/2014 - 14:49
Non è tenuto a comunicare i suoi redditi alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, l’avvocato che svolge solo collaborazioni per conti di imprese, amministrazioni o riveste cariche all’interno di società. Tale obbligo previdenziale sussiste esclusivamente per l’attività libero- professionale in senso stretto. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 7559 del 1 aprile 2014, ha respinto il ricorso proposto dalla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense avverso la decisione della Corte d’appello di Napoli. Tale sentenza confermava, infatti, la decisone del Tribunale di accogliere l’opposizione di un legale alla cartella esattoriale inviatagli dalla stessa Cassa in relazione a volumi di affari mai comunicati. Nel caso di specie, il professionista, iscritto all’albo ma non alla Cassa, riteneva per tale motivo di non dover trasmettere all’ente la comunicazione circa il volume d’affari prodotto. La Cassa, dal canto suo, lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 10, 11 e 12 della legge 20.9.1980, n.576, sostenendo che erravano i giudici d'appello nel ritenere il professionista non tenuto all'adempimento dell'invio delle dichiarazioni reddituali obbligatorie per il solo fatto della sua iscrizione all'Albo professionale e non alla Cassa Forense. Tale affermazione sarebbe in contrasto con la formulazione letterale dell'art. 17, comma 1, della legge n. 576/80 e con la "ratio" della istituzione dell'adempimento della comunicazione reddituale di cui al cosiddetto "Mod. 5". Ebbene, la Corte ha disatteso le doglianze della ricorrente sulla base del presupposto per cui sebbene costituisca "illecito disciplinare, a norma dell'art. 17 della legge 20 settembre 1980, n. 576, la condotta dell'avvocato iscritto all'albo che ometta di inviare alla Cassa nazionale forense le comunicazioni relative all'ammontare dei redditi professionali dichiarati ai fini IRPEF e IVA, anche se il professionista non sia iscritto alla Cassa, è pur vero che "l'obbligo per gli iscritti alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori di versare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume d'affari ai fini dell'I.V.A. si riferisce soltanto ai redditi derivanti dallo svolgimento dell'attività professionale. Pertanto, restano esclusi i redditi percepiti da un avvocato in conseguenza dell'attività svolta quale consigliere di amministrazione di una società di capitali, in difetto di prova circa il fatto che gli stessi possano ricondursi in qualche modo all'esercizio di attività professionale”. Alla luce di tali considerazioni, la Corte, accertato che nel caso di specie non fosse stata fornita nessuna prova del fatto che la partecipazione del legale all'attività del consiglio di amministrazione avesse richiesto le stesse competenze tecniche ordinariamente utilizzate nell'esercizio dell'attività professionale, ha confermato la decisione del giudice di merito rigettando il ricorso e condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite....

Sono a titolo gratuito gli atti di apporto patrimoniale a fondi segregati e separati quando nulla o poco è indicato sui vantaggi

Mer, 09/04/2014 - 09:19
Si ringrazia per la segnalazione del provvedimento l'Avv. Francesco Fiore del foro di Avellino  La costituzione di un patrimonio segregato e separato quando non accompagnato da un trasparente piano di informazione sulla natura e sulla quantità delle prestazioni collegate al suo funzionamento, determina l’inevitabile presunzione di gratuità degli atti di apporto al fondo e di destinazione di essi allo scopo di sottrarre beni alla garanzia patrimoniale dei creditori di cui all'art. 2740 c.c. Così si è pronunciato il Tribunale di Nola, GI dr. Eduardo Savarese, con la sentenza n.2649 pubblicata in data 29 ottobre 2013, accogliendo l’azione revocatoria ex art. 2901 cc avente ad oggetto gli atti dispositivi posti in essere dai debitori e attuativi della destinazione degli immobili su patrimoni separati e segregati, costituiti per scopi assistenziali e previdenziali.  In particolare il Tribunale ha qualificato gli atti impugnati a titolo gratuito, in quanto dall’esame degli stessi, in cui non era data alcuna indicazione chiara circa la loro natura ed i loro meccanismi di funzionamento, non era desumibile alcun elemento concreto circa la prospettiva di un collegamento seppure indiretto tra il depauperamento subito a seguito del trasferimento degli immobili e il guadagno di tipo assistenziale e previdenziale garantito ai disponenti. Conseguentemente la costituzione di un patrimonio segregato e separato – secondo la ricostruzione del Giudice - non può che apparire nel mondo dei traffici ed al ceto creditorio, quale segregazione di informazioni sulla consistenza del patrimonio dei debitori da cui deriva la inevitabile presunzione di gratuità degli atti di apporto al fondo e di destinazione di essi a null’altro che a sottrarre i beni dei debitori alla garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 2740 cc. Nel merito, quindi, la domanda è stata ritenuta fondata sia perché sussistente l’eventus damni, posto che i convenuti avevano alienato tutti i loro beni, sia il consilium fraudis, provato per presunzioni, tenuto conto della tempistica degli atti, della sopravvenuta impossidenza dei debitori e della tipologia dell’atto. La sentenza in esame offre uno spunto di riflessione sulla prassi sempre più frequente del ricorso allo strumento del patrimonio separato in deroga ai principi della responsabilità patrimoniale generica del debitore (art. 2740, 1° co., c.c.) e della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.), al punto che alcuni hanno sostenuto che il sistema tradizionale della responsabilità patrimoniale non è più una garanzia sicura per i creditori. La norma che più di ogni altra ha contribuito a ribaltare i vecchi principi della responsabilità patrimoniale generale del debitore e della par condicio creditorum è stata quella di cui all’art. 2645 ter cc, secondo cui chiunque può costituire, su beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, vincolo di destinazione su di una massa patrimoniale, la quale rimane separata rispetto alla restante parte del patrimonio a condizione, però, che realizzi interessi meritevoli tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.  Tale disposizione non prevede né la tipizzazione delle possibili finalità cui deve essere preordinato il vincolo di destinazione, né regole specifiche con cui condurre l’amministrazione e la gestione dei beni oggetto di vincolo, ma prevede come unico limite una generale compatibilità della sua destinazione con gli interessi meritevoli di tutela dall’ordinamento giuridico ex art. 1322 c.c. Il creditore, dunque, non può più fare affidamento sul principio della generale responsabilità patrimoniale del debitore in quanto le limitazioni a questa responsabilità non sono più limitati ai soli “casi stabiliti dalla legge”, come recita il secondo comma dell’art. 2740 c.c., ma sono aperte all’autonomia negoziale dall’art. 2645 ter che individua come unico limite la realizzazione di interessi meritevoli di tutela. In questo modo però la perdita del requisito della tipicità fa sì che questo strumento possa prestarsi più facilmente ad intenti fraudolenti come nel caso della sentenza in commento, in cui i fondi separati sebbene siano stati costituiti allo scopo ufficiale di ottenere prestazioni di natura assistenziale e previdenziale, in realtà perseguiva l’unico obiettivo di sottrarre beni ai creditori trafugando tutti gli immobili di proprietà. Ecco perché il generico riferimento agli interessi meritevoli di tutela comporta l’ovvia e necessaria esigenza di conciliare la meritevolezza cui è preordinata la costituzione del vincolo di destinazione con l’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale secondo il principio generale contenuto nell’art. 2740 cc....

ESTRATTI CONTO: l’approvazione tacita da parte del correntista vincola il fideiussore

Mar, 08/04/2014 - 16:14
“Nel caso di decadenza del correntista ex art. 1832 cc dal diritto di impugnare gli estratti conto, il fideiussore, chiamato a pagare quanto dovuto, non può sollevare contestazioni attesa la definitività degli stessi che sono, pertanto, vincolanti anche per il garante”. Così si è espresso il Tribunale di Napoli, seconda sezione civile, Giudice Onorario di Tribunale Avv. Vincenzo Scalzone, con la sentenza n.4905 del 28/03/2014. In particolare, nell’ambito di un giudizio di merito proposto nei confronti di un Istituto di credito dalla società correntista per la restituzione di somme indebitamente corrisposte, il Tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale condannando i fideiussori chiamati in causa al pagamento dell’importo dovuto alla Banca sul rilievo che la mancata contestazione tempestiva degli estratti conto inviati al cliente comportano la decadenza dal diritto di impugnazione ai sensi dell’art.1832 c.c. Va rilevato che, in corso di causa, era intervenuta la dichiarazione di fallimento della società attrice ed il giudizio era, quindi, proseguito, ad istanza della Banca, nei confronti del solo fideiussore costituito non comparso dopo la detta riassunzione.  Il Giudice partenopeo, quindi, ha accolto la domanda riconvenzionale della Banca sul rilievo che l’estratto di conto corrente aveva assunto valore incontrovertibile della esposizione debitoria della società per non aver quest’ultima sollevato contestazioni nel termine previsto. In particolare, il giudicante, rifacendosi all’orientamento della giurisprudenza di legittimità affermatasi sin dal 2003, ha ribadito che l’estratto, trascorso il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, è idoneo a fungere da prova anche nel giudizio instaurato dal cliente. Il Tribunale, poi, rilevato che la fideiussione in atti, costituiva, per le clausole in essa contenute, un contratto autonomo di garanzia, ha espressamente affermato, richiamando la decisione della Corte di Cassazione n. 13889 del 9.6.2010, che qualora il cliente sia decaduto dal diritto di impugnare le risultanze degli estratti conto queste diventano vincolanti anche per il fideiussore  laddove non è fornita prova di eventuali contestazioni  mosse nei confronti della banca. I fideiussori – come affermato dalla costante giurisprudenza - non sono titolari, dunque, di un autonomo diritto di impugnazione delle risultanze contabili della Banca non impugnate tempestivamente dal correntista. Il Giudice ha evidenziato, inoltre, che in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non è possibile applicare al contratto autonomo di garanzia il dettato di cui all’art.1957 cc sull’onere del creditore di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, atteso che, tale disposizione instaura un collegamento ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale e, quindi, rientra tra le disposizioni su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio e per questo motivo inapplicabile in caso di obbligazione di garanzia autonoma. Sulla base di tali considerazioni e ritenendo gli estratti conto ordinari funzionali alla certificazione delle movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, il Tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla Banca, condannando i fideiussori in solido al pagamento del credito principale e delle spese di giudizio....

CONTRATTO DI TRASPORTO - RESPONSABILITÀ VETTORE – PROVA LIBERATORIA

Mar, 08/04/2014 - 15:18
In materia di contratto di trasporto, per restare esente da responsabilità, il vettore deve fornire la specifica prova positiva che il danno ed il conseguente inadempimento sono dovuti ad evento positivamente identificato, a lui estraneo e non imputabile, nel senso che la perdita o avaria sia derivata da caso fortuito, dalla natura o da vizi delle cose da trasportare o del loro imballaggio ovvero da fatto del mittente o del destinatario. È quanto stabilito dal Giudice onorario del Tribunale di Napoli, in persona dell’Avv. Vincenzo Scalzone, che con la sentenza del 28/11/2013 ha ribadito un consolidato orientamento giurisprudenziale in merito alla responsabilità per perdita di cose in materia di trasporto. Nel caso di specie, le parti in causa avevano stipulato un contratto di trasporto il quale, come noto,  si ha quando un soggetto (vettore) si obbliga nei confronti di altro soggetto (mittente) a trasferire persone o cose da un luogo ad un altro mediante una propria organizzazione di mezzi e di attività personali, tale contratto si perfeziona con l’incontro dei consensi del mittente e del vettore, indipendentemente dalla consegna della cosa, la quale attiene alla fase dell’esecuzione e non alla conclusione del negozio. Successivamente, la società convenuta aveva trasmesso una denuncia di furto alla società attrice con cui si esponeva l’asportazione della merce oggetto del contratto di trasporto. Ebbene, il Giudice, accertato che non era stata fornita dalla parte convenuta, rimasta contumace, la prova liberatoria di cui all’art. 1693 cod. civ., e preso atto che nel corso del giudizio era stato deferito interrogatorio formale al legale rappresentante della società convenuta, il quale non era comparso per renderlo, ha deciso per l’accoglimento della domanda attorea, condannando la società di trasporto al risarcimento del danno ed al pagamento delle spese di lite....

CONCORDATO FALLIMENTARE: la proposta precede la nomina del professionista ex art. 124, comma 2, L.F.

Mar, 08/04/2014 - 08:57
La proposta di concordato fallimentare ex art. 124 L.F. precede la nomina del professionista da parte del Tribunale ai fini della determinazione del valore di mercato dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. La funzione dello stimatore è infatti quella di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della proposta concordataria il che, presuppone, che la proposta sia già in essere e che non debba invece seguire alla nomina del professionista. È quanto stabilito dalla Corte d'Appello di Firenze, nella persona del presidente dott. Emanuele Riviello, che con il decreto depositato il 25/3/2014, ha emesso un’interessante pronuncia in materia di procedura di concordato fallimentare e nomina del professionista designato dal Tribunale. Nel caso di specie, una società di investimento proponeva reclamo avverso il provvedimento del Tribunale di Firenze, con il quale era stata respinta l’istanza di nomina di un professioni-sta ex art 124 L.F. richiesta dalla stessa reclamante nell’ambito di una proposta di concordato fallimentare. Come noto, l’art. 124 L.F disciplina un’ipotesi di cessazione del fallimento tramite la proposta di concordato (per il soddisfacimento di tutti i creditori ammessi al passivo) e la  possibilità per i creditori muniti di privilegio di non esser soddisfatti integralmente sempreché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato, in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni come indicato nella relazione giurata dell’esperto nominato dal Tribunale. Orbene è proprio dalla lettura della detta norma (in linea con quanto previsto dall’art.160 LF, in materia di concordato preventivo), che emerge la volontà del legislatore di far precedere la proposta di concordato alla designazione da parte del Tribunale dell’esperto stimatore. La volontà è chiara ed evidente, ossia far precedere la nomina dell’esperto alla formulazione della proposta e tanto, sia al fine di evitare nomine che possano avere funzione meramente esplorativa, sia al fine di evitare l’istanze di nomina volte esclusivamente ad acquisire conoscenza di dati relativi alla procedura che dovrebbero, invece, rimanere riservati. Del resto, osserva la Corte, il proponente ben può ottenere i dati contabili e finanziari attraverso l’acquisizione di notizie al GD il quale ha la facoltà di autorizzare il curatore (con le opportune cautele per il mantenimento della riservatezza) a fornire le informazioni utili e necessarie per la predisposizione del detto progetto. I Giudici alla luce delle dette motivazioni, hanno respinto il reclamo e condannato la reclamante al pagamento delle spese di giudizio affermando a chiare lettere il principio per cui la designazione dello stimatore è successiva alla predisposizione di una proposta di concordato....

ESECUZIONE FORZATA: SONO PROVVISORIAMENTE ESECUTIVI I CAPI DELLA SENTENZA CHE CONTENGONO UNA CONDANNA

Lun, 07/04/2014 - 16:47
È provvisoriamente esecutivo anche il capo della sentenza contenente la condanna alle spese del giudizio anche nel caso in cui la sentenza accolga azioni non di condanna oppure rigetti qualsiasi tipo di domanda.  E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la sentenza n.7198 del 27/03/2014, riformando la sentenza di appello, che aveva dichiarato l'illegittimità dell'esecuzione avviata in forza della sentenza contenente la condanna accessoria alla rifusione delle spese processuali sul presupposto, che, essendo di mero rigetto, non riportava statuizioni di condanna nel merito e quindi non poteva ritenersi provvisoriamente eseguibile. Con la pronunzia in esame la Corte ha confermato l’orientamento per il quale ai sensi dell’art. 282 cpc, nella formulazione novellata dall’art. 33 della legge 535 del 1990, che ha introdotto nell’ordinamento la regola dell’immediata efficacia endoprocessuale di qualsiasi pronuncia di condanna, sono provvisoriamente esecutivi tutti i capi della sentenza che contengono una condanna, compreso il capo contenente la condanna alle spese del giudizio, anche nei casi in cui la sentenza accolga azioni non dio condanna oppure rigetti qualsiasi tipo di domanda....

AVVOCATI: la sanzione disciplinare è efficace dal momento della notifica

Lun, 07/04/2014 - 11:18
La sanzione disciplinare di sospensione che colpisce il singolo avvocato è efficace a partire dal momento in cui il Consiglio Nazionale Forense notifica il provvedimento. È questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.14013 emessa in data 25 marzo 2014. Nel caso di specie un avvocato presentava ricorso dinanzi alla Suprema Corte per contestare la sentenza di secondo grado che confermava la sanzione disciplinare emessa nei sui confronti per aver esercitato abusivamente la professione per più di sei mesi nonostante fosse stato colpito dalla sanzione di sospensione dall'esercizio della professione forense. Il professionista contestava che la notificazione della sentenza del CNF, dalla quale decorreva l'esecutività della sanzione disciplinare, era stata compiuta al domicilio del suo difensore e non presso la sua abitazione o nel suo studio, per cui solo nel mese successivo aveva saputo che la sanzione era divenuta esecutiva. Inoltre andava affermando che la sanzione disciplinare diventa esecutiva non al momento della notificazione all’interessato, ma solo dopo che il Consiglio dell’Ordine al quale l’avvocato è iscritto, una volta ricevuta la comunicazione della sentenza dal Consiglio Nazionale Forense, la notifica a sua volta all’interessato. In merito al primo motivo la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per la semplice circostanza che  la censura non era stata oggetto di  corrispondente doglianza durante la fase di merito. In merito invece al secondo motivo, gli Ermellini hanno affermato che la sanzione disciplinare diviene esecutiva non dalla notifica del provvedimento del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, provvedimento che tra l’altro non è previsto da alcuna norma giuridica, ma  esclusivamente dal giorno della notifica all’interessato della sanzione disciplinare. I giudici di legittimità hanno perciò dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali....

OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO INAMMISSIBILE: il debitore può ancora difendersi

Lun, 07/04/2014 - 09:01
Qualora nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vengano introdotti con l'opposizione fatti estintivi, modificativi od impeditivi dell'esistenza del credito di cui al decreto verificatisi dopo la sua pronuncia e prima della scadenza del termine per l'opposizione oppure qualora nel corso del giudizio di opposizione vengano introdotti fatti di quella natura verificatisi dopo la proposizione dell'opposizione,  nell'ipotesi in cui il debitore non abbia formulato domanda di accertamento della verificazione dei detti fatti (nella quale su di essa vi dovrà essere pronuncia), la pronuncia di inammissibilità dell'opposizione per ragioni di rito, come la tardività o il difetto di procura (nel regime anteriore alla l. n. 69 del 2009), una volta passata in cosa giudicata, non preclude la possibilità di dedurre quei fatti o con azione di accertamento negativo, o se minacciata o iniziata l'esecuzione, sulla base del decreto, rispettivamente con l'opposizione al precetto o con l'opposizione all'esecuzione. La vertenza esaminata dalla Suprema Corte di Cassazione ha avuto origine con il rigetto da parte del Tribunale di Matera di una opposizione proposta da un Comune avverso l’esecuzione intrapresa in forza di un decreto ingiuntivo ottenuto da una  “A.T.I.” - “Associazione temporanea di imprese”. Con l'opposizione all'esecuzione, il Comune ha eccepito che la creditrice aveva radicato il procedimento esecutivo sulla base di un credito inesistente, poiché l'Amministrazione aveva provveduto al pagamento del proprio debito nelle more dello svolgimento del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo. L'ente territoriale ha inoltre contestato il fatto che la creditrice non aveva né abbandonato il giudizio né rappresentato al giudice dell'opposizione l'avvenuto pagamento del debito,  ottenendo così la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. A sostegno delle proprie ragioni, l'A.T.I. ha invece dedotto che l'opposizione al decreto ingiuntivo era stata rigettata con sentenza pronunciata dal Tribunale di Matera che l'aveva dichiarata inammissibile per difetto dello jus postulandi del difensore costituito nell'interesse dell'opponente con conseguente passaggio in cosa giudicata del decreto ingiuntivo poi azionato in via esecutiva. Il Tribunale di Matera ha rigettato l'opposizione all'esecuzione sulla base del fatto che i pagamenti risultavano anteriori alla formazione del titolo esecutivo per effetto della declaratoria di inammissibilità dell'opposizione al decreto ingiuntivo. La Corte di Appello di Potenza ha successivamente rigettato l'appello proposto dal Comune, confermando la tesi - già sostenuta dal Giudice di primo grado - secondo cui i pagamenti effettuati dall'ente non avrebbero potuto farsi valere nel giudizio di opposizione all'esecuzione, essendo intervenuti prima della formazione del giudicato del decreto ingiuntivo. Detti pagamenti avrebbero indi dovuto essere contestati nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo. Il Comune ha proposto ricorso per cassazione, deducendo in particolare la violazione dell'art. 653 cpc e dell'art. 2909 cc. In considerazione del fatto che la pronuncia di rigetto dell'opposizione al decreto ingiuntivo non si sostituisce - ai sensi dell'art. 653 cpc - come titolo esecutivo al provvedimento monitorio, il ricorrente ha eccepito che il decreto stesso avrebbe dovuto essere qualificato come non opposto, poiché l'opposizione era stata dichiarata inammissibile. Secondo quanto sostenuto dal Comune, la cosa giudicata avrebbe pertanto dovuto formarsi alla data della pronuncia del decreto ingiuntivo o al più tardi al momento in cui era scaduto il termine per proporre opposizione. I pagamenti, invero, erano stati effettuati dopo che era oramai scaduto il termine per proporre opposizione, per cui non potevano ritenersi coperti dalla formazione del giudicato, potendo essere legittimamente dedotti con l'opposizione all'esecuzione. In termini analoghi, il ricorrente ha sostenuto che l'eccezione di avvenuto pagamento avrebbe potuto essere contestata con l'opposizione all'esecuzione, sebbene i versamenti fossero stati eseguiti dopo la definitività del decreto ingiuntivo per mancanza di opposizione. Il ricorrente ha dunque contestato la decisione assunta dai Giudici di merito, i quali avevano erroneamente ritenuto di applicare il principio in forza del quale con l'opposizione all'esecuzione non possono farsi valere i fatti anteriori alla formazione del titolo esecutivo, perché, così facendo, era stata identificata la formazione del titolo posto alla base dell'esecuzione con il momento della pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità dell'opposizione.  Con una articolata motivazione, la Cassazione ha ritenuto fondati i motivi di impugnazione formulati dal ricorrente. I Giudici di legittimità hanno innanzitutto evidenziato che la declaratoria di inammissibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo – intervenuta quindi per ragioni di rito –  determina come conseguenza il non aver messo in discussione l'accertamento del credito avvenuto inaudita altera parte con il provvedimento monitorio. La declaratoria di inammissibilità preclude infatti la possibilità di esaminare le ragioni poste a fondamento dell'opposizione al decreto ingiuntivo. I motivi di opposizione possono racchiudere sia fatti già esistenti al momento della pronuncia del decreto ingiuntivo sia fatti sopravvenuti rispetto all'emanazione del provvedimento monitorio, sino alla scadenza per proporre l'opposizione. Con riferimento alle preclusioni derivanti dalla riferita declaratoria di inammissibilità, la Cassazione ha tuttavia ritenuto che la questione possa porsi in termini diversi nel momento in cui si ammetta o meno la possibilità di ottenere l'esame dei fatti in una sede differente rispetto a quella dell'opposizione a decreto ingiuntivo quale è l'opposizione all'esecuzione. I Giudici di legittimità hanno osservato che la declaratoria di inammissibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo determina indubbiamente la formazione della cosa giudicata sul provvedimento, in quanto l'oggetto del giudizio è rappresentato dal riconoscimento dell'esistenza della ragione creditoria al momento della pronuncia del decreto stesso. Deve pertanto ritenersi preclusa – in detto contesto - la possibilità di porre in discussione in altra sede – anche con l'opposizione all'esecuzione – l'esistenza della ragione creditoria attraverso il ricorso a fatti esistenti al momento della pronuncia del provvedimento monitorio, giacché detti fatti avrebbero dovuto essere dedotti con l'opposizione al decreto ingiuntivo. I fatti estintivi, impeditivi o modificativi della situazione creditoria riconosciuta nel decreto ingiuntivo verificatisi dopo la pronuncia del provvedimento monitorio e nelle more del decorso del termine per proporre opposizione vanno invece proposti con l'opposizione. Nel caso invece in cui il debitore si trovi nella condizione di non avere ragioni di contestazione del credito  nel momento in cui è stato emesso il provvedimento monitorio, ma possa soltanto eccepire fatti estintivi, modificativi od impeditivi sopravvenuti, la Cassazione ha evidenziato comel'opposizione al decreto ingiuntivo non rappresenti il mezzo con cui far valere detti fatti allorché il creditore non concordi sulla loro verificazione. I Giudici di legittimità affermano, infatti, che l'opposizione al decreto ingiuntivo serve ad impugnare la pronuncia che accerta l'esistenza del credito contestato dal debitore. Ci si deve invece porre in una prospettiva differente laddove i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito si verifichino in un momento successivo rispetto alla pronuncia del decreto ingiuntivo ed il creditore sollevi nel merito delle contestazioni durante o dopo la scadenza del termine per proporre opposizione contro il provvedimento monitorio. Sul punto, la Cassazione ha innanzitutto chiarito che il debitore possa, ma non sia obbligato, ad utilizzare lo strumento dell'opposizione al decreto ingiuntivo, al fine di dedurre fatti estintivi, modificativi od impeditivi verificatisi dopo la pronuncia del provvedimento e nelle more della pendenza del termine, nel caso in cui detti fatti siano stati contestati dal creditore prima della scadenza per proporre opposizione. Se tuttavia il termine è scaduto, il debitore ha la possibilità di esperire l'azione di accertamento negativo dell'esistenza del credito, potendo far valere i fatti sopravvenuti. In questo caso, il creditore non ha la possibilità di opporre al debitore la formazione del giudicato derivante dalla mancata proposizione dell'opposizione al decreto ingiuntivo. La formazione della cosa giudicata  impedirebbe difatti soltanto la facoltà di dedurre i fatti esistenti al momento della pronuncia del decreto ingiuntivo in quanto incompatibili con l'accertamento contenuto nel provvedimento monitorio divenuto irretrattabile. Se invece il creditore – scaduto oramai il termine per proporre l'opposizione contro il decreto ingiuntivo – abbia manifestato la propria pretesa o attraverso la notifica del precetto o con l'avvio di una procedura esecutiva - per effetto della concessione della esecutorietà del decreto per mancata opposizione ex art. 647 cpc - il debitore ha, comunque, la possibilità di far valere i fatti successivi alla pronuncia del provvedimento monitorio. Il debitore è difatti legittimato - in questo caso - a proporre l'opposizione al precetto o l'opposizione all'esecuzione, senza che si possa sostenere che, essendo l'esecuzione minacciata o iniziata in forza di un titolo esecutivo giudiziale, contro di essa non possano dedursi come motivi di opposizione ragioni che si sarebbero potute dedurre con l'opposizione. Con l'opposizione si devono infatti dedurre soltanto le ragioni di contestazione del credito stabilito nel decreto ingiuntivo esistenti al momento della pronuncia del provvedimento monitorio. Con riferimento alle contestazioni formulate dal creditore in merito ai fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito consacrato nel decreto ingiuntivo verificatisi durante la pendenza del termine per proporre l'opposizione ed eccepite dopo la sua scadenza, la Cassazione ha evidenziato che il debitore possa proporre l'azione di accertamento negativo oppure l'opposizione al precetto o all'esecuzione nel caso in cui venga minacciata od iniziata l'esecuzione forzata. La formazione della cosa giudicata sul decreto ingiuntivo non può – anche in detto contesto – precludere al debitore di poter allegare i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito, poiché essi non sono accertati dal provvedimento monitorio né vi è l'interesse a eccepirli con l'opposizione. Il debitore ha analogamente la possibilità di proporre l'azione di accertamento negativo o l'opposizione al precetto o all'esecuzione anche nel caso in cui i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito si siano verificati dopo la scadenza del termine per l'opposizione al decreto ingiuntivo senza che questa sia stata radicata, laddove sorgano contestazioni da parte del creditore.  Alla luce della ricostruzione in diritto sopra richiamata, la Cassazione si è – a questo punto– interrogata  in merito al caso in cui il debitore abbia azionato l'opposizione al decreto ingiuntivo al fine di far valere ragioni di contestazione esistenti al momento in cui è intervenuta la pronuncia del provvedimento monitorio o fatti verificatisi prima o dopo la scadenza del termine per proporre opposizione. Nel momento in cui è stata proposta l'opposizione al decreto ingiuntivo, i Giudici di legittimità hanno innanzitutto sottolineato che i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del credito riconosciuto nel provvedimento monitorio verificatisi dopo la scadenza del termine debbono essere fatti valere nel giudizio di opposizione senza che ciò comporti l'insorgere di preclusioni con riferimento alla contestazione dei fatti sopravvenuti. La Cassazione ha pertanto ritenuto che i fatti sopravvenuti alla proposizione dell'opposizione al decreto ingiuntivo debbono essere contestati nel giudizio di opposizione in caso di sua pendenza, restando escluso che il debitore li possa dedurre con altro mezzo sia esso l'azione di accertamento negativo o l'opposizione al precetto o all'esecuzione. Quando invece l'opposizione sia stata messa in decisione o risulti pendente il termine per l'impugnazione della sentenza che l'ha decisa o l'opposizione si trovi in sede di impugnazione, la Cassazione ha ritenuto che – in presenza di fatti sopravvenuti - siano esperibili i rimedi dell'opposizione al precetto o all'esecuzione dal momento che non sono applicabili i rimedi previsti dall'art. 283 cpc ed art. 373 cpc Per quanto concerne invece l'esito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo rispetto ai fatti estintivi, modificativi o impeditivi verificatisi dopo la sua proposizione sia che siano stati introdotti o meno dall'opponente, i Giudici di legittimità hanno evidenziato che il debitore non potrà far valere detti fatti in altra sede – con appunto l'opposizione al precetto o all'esecuzione - nel caso di rigetto dell'opposizione per effetto dell'efficacia preclusiva derivante da una pronuncia di merito. Se i fatti sono stati introdotti nel giudizio di opposizione, questi sono stati valutati dal Giudice del merito e quindi il debitore avrebbe dovuto reagire impugnando la pronuncia di rigetto. Qualora i fatti non sono stati introdotti, questi avrebbero dovuto essere necessariamente allegati nel giudizio di opposizione, così che il giudicato di rigetto copre il dedotto ed il deducibile, impedendo al debitore di farli valere in altra sede. Nel caso invece in cui l'opposizione al decreto ingiuntivo è stata definita con una pronuncia di rito e più precisamente, coma nel caso di specie, con una declaratoria di inammissibilità, la Cassazione ha evidenziato che il giudice dell'opposizione è tenuto a provvedere sulla domanda del debitore laddove siano stati allegati  fatti sopravvenuti dopo la pronuncia del provvedimento monitorio a prescindere dalla ritualità dell'opposizione stessa così come contestata dal creditore o d'ufficio dal giudicante. Il Giudice dell'opposizione è infatti comunque tenuto a provvedere sulla domanda di accertamento dando luogo ad una pronuncia di accertamento positivo o negativo dell'esistenza del credito in forza ai fatti sopravvenuti dedotti dal debitore. La Cassazione ha tuttavia evidenziato che normalmente il debitore si limita ad introdurre i fatti sopravvenuti alla pronuncia del decreto ingiuntivo come fatti rilevanti per la decisione sull'opposizione senza proporre quindi la domanda di accertamento del credito per il caso dell'inammissibilità dell'opposizione. Il Giudice del merito si  limita – in questo caso – a pronunciare la declaratoria di inammissibilità, ad esempio nel caso in cui l'opposizione sia stata proposta tardivamente o per difetto dello jus postulandi del difensore, senza entrare nel merito dell'esistenza dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi sopravvenuti alla pronuncia del decreto ingiuntivo. Con la pronuncia di rito diviene pertanto incontestabile l'accertamento del modo di essere della situazione creditoria esposta nel decreto ingiuntivo con conseguente riconoscimento dell'esistenza del credito al momento della pronuncia del provvedimento monitorio. La cosa giudicata che si viene a formare sul decreto ingiuntivo attiene, pertanto, sia alla ragione di rito sia alla situazione di merito, non potendo essere posto in discussione quanto disposto nel provvedimento monitorio per effetto della declaratoria di inammissibilità dell'opposizione. La Cassazione ha tuttavia sottolineato che il giudicato emergente dal decreto non può però riguardare i fatti estintivi, modificativi e impeditivi verificatisi dopo la pronuncia del provvedimento monitorio. Si tratta di fatti che non avrebbero potuto essere accertati né positivamente né negativamente quantunque fossero stati dedotti nel giudizio di opposizione per effetto della pronuncia di rito. I Giudici di legittimità hanno pertanto ritenuto che i  fatti estintivi, modificativi e impeditivi verificatisi dopo la pronuncia del decreto ingiuntivo non possono dirsi coperti dal giudicato derivante dalla pronuncia di inammissibilità dell'opposizione. La cosa giudicata coprirebbe invero soltanto i fatti esistenti al momento della pronuncia del decreto ingiuntivo. Ne consegue pertanto che il debitore può dirsi legittimato a  far valere i fatti estintivi, modificativi e impeditivi successivi alla pronuncia del decreto ingiuntivo attraverso l'opposizione al precetto o all'opposizione all'esecuzione, qualora il creditore minacci o inizi l'esecuzione per effetto della declaratoria di inammissibilità dell'opposizione. Nel caso di specie, l'inammissibilità dell'opposizione al decreto ingiuntivo aveva infatti determinato il formarsi della cosa giudicata soltanto sull'esistenza del credito al momento della pronuncia del provvedimento e non al momento del passaggio in giudicato della sentenza con la quale era stata dichiarata l'inammissibilità dell'opposizione. Il fatto estintivo del credito verificatosi nel giudizio di opposizione poteva essere dedotto con l'opposizione all'esecuzione ed avrebbe pertanto potuto e dovuto essere considerato dai Giudici di merito. I Giudici di legittimità, poi,  hanno rilevato che esistevano, pertanto, i presupposti per decidere nel merito la questione con l'accoglimento dell'opposizione all'esecuzione poiché la sentenza impugnata affermava che effettivamente il pagamento dei crediti era avvenuto in corso di giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e non poteva darsi rilievo alla preclusione derivante dalla formazione del giudicato. La Cassazione, quindi, ha accolto l'opposizione all'esecuzione ed ha dichiarato inesistente il diritto di procedere con l'esecuzione forzata....

AVVISO DI ACCERTAMENTO NULLO SE EMESSO SENZA ALLEGARE IL PROCESSO VERBALE DI CONSTATAZIONE

Lun, 07/04/2014 - 08:04
L’avviso di accertamento senza Processo verbale di constatazione è nullo quando non contiene il contenuto essenziale della pretesa fiscale. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione sesta, con ordinanza n.7493 pronunziata in data 31/03/2014 in materia di avviso di accertamento per IVA-IRPEG -IRAP. Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Napoli che aveva annullato l’avviso di accertamento per IVA-IRPEG –IRAP dall’ente di riscossione notificato all’amministratore di una società fallita e non anche alla curatela del fallimento, peraltro senza l’allegazione del PVC, previsto ex art.7 dello Statuto del Contribuente. Ad avviso dell’ente di riscossione, l’omessa allegazione dell’atto istruttorio poteva ritenersi compensata dalla sua conoscibilità, atteso che il PVC era stato notificato al fallito, il quale, a sua volta, avrebbe dovuto adempiere all’obbligo di consegnare al curatore tutta la documentazione in suo possesso. Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha escluso che l’astratta conoscibilità dell’atto non allegato al provvedimento potesse costituire utile surrogato dell’omissione, atteso che l’obbligo di allegazione previsto ex art.7 della legge n.212/2000 mira a garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio delle sue attività difensive, laddove, in mancanza, egli sarebbe costretto ad una attività di ricerca che comprimerebbe illegittimamente il termine a sua disposizione per impugnare. Gli ermellini hanno poi ribadito il principio di diritto già affermato con sentenza n.8778/2008 secondo cui la consegna al curatore dei documenti contabili della società non è circostanza rilevante ai fini della dimostrazione della conoscenza, da parte del suddetto curatore, del contenuto del processo verbale constatazione, ed hanno altresì affermato che è del tutto irrilevante la circostanza che il verbale sia stato consegnato al fallito, atteso che tra il fallito e il curatore non si configura un rapporto di immedesimazione o di rappresentanza tale da desumersi con certezza....

NOTAIO: le dichiarazioni mendaci del venditore in merito alla regolarità urbanistica sono fonte di responsabilità

Ven, 04/04/2014 - 16:34
Tempi duri anche per i notai, la giurisprudenza diventa rigida ed improntata alla certezza del diritto. L’affidamento nelle dichiarazioni, tenute dalle parti nella stipula di un contratto di compravendita di un immobile, e risultate poi mendaci, può costituire fonte di responsabilità per il professionista. È quanto stabilito dal Tribunale di Nola che, con sentenza n.886 depositata il 17/03/2014, Giudice dott. Dario Raffone, si è pronunciato sulla responsabilità di un notaio nell’ambito di un procedimento instaurato dall’acquirente di un immobile risultato difforme dall’autorizzazione amministrativa, diversamente da quanto dichiarato e documentato dall’alienante. L’acquirente riteneva responsabile il notaio (solidalmente con l’alienante) per aver illegittimamente ricevuto e stipulato un atto di compravendita di un bene che per le irregolarità urbanistiche che lo connotavano non poteva essere oggetto di circolazione giuridica. Regolarmente costituito in giudizio, il professionista ha contestato la domanda attorea sul presupposto che non era tenuto, nella sua qualità di notaio, a verificare l’effettiva corrispondenza al vero delle dichiarazioni provenienti dalle parti. In particolare, secondo il professionista, la detta indagine (conformità del manufatto compravenduto alle prescrizioni urbanistiche) avrebbe comportato accertamenti di natura tecnica non di sua competenza, ragion per cui non era possibile spingere la diligenza professionale del notaio fino a tali ambiti. Il Tribunale di Nola pronunciatosi sul punto, ha disatteso le opposizioni del professionista, imponendo allo stesso di verificare la corrispondenza delle dichiarazioni delle parti in merito ai beni compravenduti. È da premettere la circostanza che, ai fini dell’accertamento della responsabilità del notaio la Legge 28 febbraio 1985, n. 47 (in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) all’art. 40 nulla dice sul comportamento professionale che il notaio deve tenere nel rogare atti di compravendita di immobili che non risultano conformi agli estremi della concessione ad edificare o della licenza edilizia. Pur tuttavia, nel silenzio della norma, il Tribunale ha condannato il professionista dichiarandolo solidalmente responsabile con il venditore, in quanto non adempiendo adeguatamente il proprio mandato ex art.1176 c.c., non si è avveduto della mendacità delle dichiarazioni dell’alienante, procedendo a rogare un atto di vendita di un immobile per una consistenza diversa e inferiore da quella che si sarebbe potuta agevolmente rilevare dalla lettura dello strumento urbanistico menzionato nell’atto. Il Giudice ha specificato, infatti, che  il comportamento che in tale ambito è richiesto al notaio “non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia assicurata la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso o del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto medesimo”. Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha accolto la domanda dell’attrice condannando il notaio, in solido con il venditore, al pagamento delle spese di lite. La sentenza si inserisce nel solco delle pronunce che tracciano le linee guida circa la diligenza del notaio nell’esercizio del suo incarico, il quale svolge un attività particolarmente delicata, per gli speciali compiti attribuiti allo stesso dalla legge, per cui la stessa deve essere valutata con estremo rigore. Tale da poter così affermare che l’attività notarile sarà immune da rischi e da responsabilità ove il professionista abbia effettuato indagini diligenti al fine di una compiuta attività di controllo rispetto anche alle dichiarazioni effettuate dalle parti. Per approfondimenti sul tema, si legga: RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE: condannato il notaio che non adempie correttamente al proprio incarico Se nell’adempimento del proprio incarico professionale, il notaio incorre in errore e produce un danno al proprio cliente, deve risarcirlo  Sentenza | Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Prima Civile | 15-07-2013 RESPONSABILITÀ NOTAIO: il cliente deve provare il danno subito Il notaio è tenuto ad esercitare la propria professione con il grado di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c., comma 2  Sentenza | Tribunale di Treviso, Dott. Paolo Nasini | 28-06-2013  NOTAIO ROGANTE: RESPONSABILITÀ NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO DI PRESTAZIONE PROFESSIONALE L’opera del notaio deve estendersi a tutte quelle attività dirette ad assicurare la serietà e certezza dell'atto giuridico posto in essere tra le quali è compresa la attività di consulenza in relazione allo scopo tipico dell'atto.  Sentenza | Cassazione civile, sezione terza | 27-11-2012 | n.20991 ...

BUONI FRUTTIFERI POSTALI - SUCCESSIONE: è ammissibile lo scorporo senza quietanza liberatoria dei coeredi

Gio, 03/04/2014 - 16:22
In materia di comunione ereditaria, ove l’obbligazione oggetto di comunione sia costituita da buoni fruttiferi postali, gli stessi possono essere scorporati senza quietanza liberatoria di tutti i coeredi. Ne consegue che, ove una parte ne faccia richiesta, alla stessa dovrà esser liquidato l’ importo a lei spettante, tenendo a disposizione il residuo per gli altri coeredi. Così si è espresso il Giudice del Tribunale di Nocera Inferiore, dott. Gustavo Danise con ordinanza ex art.702 bis cpc del 03.04.2014. Con la detta pronuncia il Giudice ha deciso ed affrontato una problematica d’indubbia rilevanza pratica, consistente nel rifiuto delle Poste Italiane di dar luogo allo scorporo dei buoni fruttiferi postali caduti in successione ereditaria, ove non vi sia una quietanza congiunta dei coeredi. Ebbene l’adito Giudicante ha preso una posizione di netto contrasto con le prassi adottata, ingiustamente, dalle Poste Italiane, affermando che, nel caso di buoni fruttiferi postali, quali somme di denaro (e dunque obbligazioni divisibili), deve trovare applicazione il compendio normativo costituito dagli artt. 1295 c.c. “Salvo patto contrario, l'obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o di uno dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote” e 1314 c.c. "Se più sono i debitori o i creditori di una prestazione divisibile e l'obbligazione non è solidale, ciascuno dei creditori non può domandare il soddisfacimento del credito che per la sua parte, e ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte”. La ratio sottesa alla disciplina codicistica dedicata alle obbligazioni divisibili risponde a logiche di giustizia sociale, in quanto impedisce che l’esercizio di un diritto patrimoniale sia subordinato e condizionato alla volontà di terzi.  Nulla osta, pertanto, a che il debitore POSTE ITALIANE scorpori, dalla somma totale dei buoni fruttiferi, il minor importo richiesto da uno dei coeredi, tenendo a disposizione il residuo per gli altri coeredi....

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