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Rivista di informazione giuridica per avvocati e studi legali: expartecreditoris.it
Aggiornato: 49 min 15 sec fa

PARAMETRI FORENSI: in vigore i nuovi criteri di liquidazione

Gio, 03/04/2014 - 10:16
3 aprile 2014 In vigore da oggi i nuovi criteri di liquidazione dei compensi degli avvocati. È del 02.04.2014, infatti, la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale del 10 marzo 2014 n.55, recante la “determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”. Molte le novità, già anticipate su questa rivista all’indomani dell’emanazione del Regolamento, da parte del ministro Orlando. Tra le più rilevanti si segnala la previsione dell’art.2, comma 2, a mente del quale “oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all’avvocato è  dovuta – in ogni caso ed anche in caso di determinazione contrattuale – una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura  del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, fermo restando quanto previsto dai successivi articoli 5, 11 e 27 in materia di rimborso spese per trasferta”. Previsto anche un criterio di liquidazione dei compensi per le “prestazioni di assistenza stragiudiziale”, che, ai sensi dell’art.18 del decreto in esame, sono “onnicomprensivi in relazione ad ogni attività inerente l’affare”.   Per il dettaglio si rinvia alla consultazione del decreto, con relative tabelle già pubblicate su questa rivista, che si riporta in allegato. Si ricorda che i nuovi parametri forensi si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del d.m. in oggetto, criterio che, in considerazione del lasso di tempo trascorso dalla promulgazione della legge n.247/2012 (di cui il decreto costituisce attuazione), potrà suscitare qualche perplessità interpretativa - di carattere intertemporale – che la giurisprudenza sarà chiamata a risolvere (si pensi, in particolare, alle attività svolte sotto la vigenza della precedente normativa e liquidate dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale di attuazione). ...

AVVOCATI - ASTENSIONE - MODALITÀ DI COMUNICAZIONE - TERMINE DUE GIORNI PRIMA DELL’UDIENZA

Gio, 03/04/2014 - 08:52
L'adesione del difensore di fiducia all'astensione collettiva degli avvocati dalle udienze, perché possa ritenersi legittima, deve essere comunicata al giudice procedente secondo quanto prevede l'art. 3 del “Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati”; perciò, la dichiarazione di adesione all'astensione, ove non sia comunicata (personalmente o tramite sostituto) in udienza, deve essere comunicata con atto scritto nella cancelleria del giudice procedente almeno due giorni prima della data stabilità per l'udienza e non oltre l'orario di chiusura dell'ufficio.  È questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n.13215 del 21/03/2014, in merito alla legittimità della richiesta di adesione da parte di un avvocato, all’astensione di categoria proclamata dall’ Organismo Unitario dell’Avvocatura (O.U.A.). La sentenza ha deciso sul ricorso proposto da un legale che, nell’ambito di un procedimento penale giunto al terzo grado di giudizio, aderiva allo sciopero indetto dal sindacato di categoria, comunicando la dichiarazione di astensione alla cancelleria della Corte di Cassazione oltre il termine di due giorni prima dell’udienza, fissato dall’art.3 del “Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati” e chiedendo, contestualmente alla comunicazione stessa, il rinvio della trattazione del ricorso. La Corte ha rigettato tale richiesta considerando illegittima l’astensione sulla base del presupposto che il “Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati” è vincolante e che quindi, in tanto il professionista può legittimamente aderire alle astensioni proclamate dalle associazioni di categoria, in quanto si adegui alle prescrizioni del detto codice di autoregolamentazione. A norma dell’art. 3 di tale Codice, infatti, la mancata comparizione in udienza da parte dell’avvocato "affinché sia considerata in adesione all'astensione regolarmente proclamata ed effettuata ai sensi della presente disciplina, e dunque considerata legittimo impedimento del difensore, deve essere alternativamente: a) dichiarata - personalmente o tramite sostituto del legale titolare della difesa o del mandato - all'inizio dell'udienza o dell'atto di indagine preliminare; b) comunicata con atto scritto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero, oltreché agli altri avvocati costituiti, almeno due giorni prima della data stabilita". A nulla vale, inoltre, sottolineano ancora gli Ermellini, che "il difensore abbia inviato la comunicazione via fax nelle ore pomeridiane dell’ultimo giorno utile. Infatti, la prescrizione del termine ultimo di due giorni precedenti l'udienza, per il tempestivo invio della comunicazione, va inteso nel senso che la comunicazione effettuata nell'ultimo giorno utile deve pervenire nell'ufficio di cancelleria nell'orario di apertura dello stesso"....

CENTRALE RISCHI: segnalazione a sofferenza legittima, anche per credito di modesto importo

Mer, 02/04/2014 - 14:52
La stato di sofferenza è il risultato di una valutazione della situazione finanziaria complessiva di una società, per cui la sua segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia è legittima nel caso in cui questa si trovi in uno stato di profonda crisi di liquidità, anche se l’intermediario finanziario vanti nei confronti della società un solo credito di modesto importo. È questo il principio espresso dal Tribunale di Bologna, dott.ssa Alessandra Arceri, con ordinanza emessa in data 11 marzo 2014 che ha rigettato la domanda cautelare di ordine di cancellazione o sospensione della segnalazione a sofferenza del nominativo in Centrale Rischi presso la Banca d’Italia. La società ricorrente, infatti  aveva lamentato l’insussistenza dei presupposti per effettuare la detta segnalazione per non essere presenti protesti, esecuzioni o istanze di fallimento che avrebbero fatto presagire l’insolvenza fallimentare oltre ad essere l’inadempimento di un solo credito, peraltro, di un modesto importo specie se confrontato al fatturato complessivo. Il Giudice, pur rilevando le circostanze dedotte dalla ricorrente a supporto della riconoscibilità della tutela cautelare, ha ritenuto la segnalazione a sofferenza da parte dell’Istituto di credito legittima poiché compiuta all’esito di una verifica dei rilevamenti finanziari e dati di bilancio di tenore inequivocabile, che davano conto della indisponibilità di liquidità immediata in considerazione di uno sbilanciato indebitamento, conseguenti al mancato incasso dei propri crediti di contributi pubblici. Il Tribunale, perciò, ritenendo carente nella fattispecie il presupposto del fumus boni juris, ha rigettato la domanda cautelare condannato la soccombente alle spese del giudizio. La decisione in commento evidenzia  un mutamento della giurisprudenza in ordine agli aspetti  da ricercare ai fini della valutazione sulla legittimità di una segnalazioni in Centrale Rischi, individuando nella crisi di liquidità un fattore di rischio determinante  ai fini della sussistenza o meno del fumus per ordinarne la cancellazione. Per ulteriori approfondimenti sulle segnalazioni alla Centrale Rischi si riporta ai seguenti articoli: CENTRALE RISCHI: è competente il Tribunale del luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei dati. Ordinanza | Tribunale La Spezia, dott. Ettore Di Roberto | 29-01-2014    CENTRALE RISCHI: anche se illegittima, non produce alcun danno non patrimoniale per il fideiussore È escluso il danno all'immagine e all'onore per il garante in considerazione del limitato accesso. Sentenza | Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Casoria - dott. Giuliano Tartaglione | 31-01-2014 | n.1549 Segnalazioni a sofferenza – ammissibilità rimedio cautelare ex art.700 cpc Il provvedimento di cui all’art. 10 comma 6 d.lgs 150/2011 è solo eventuale e deve essere adottato in caso di inerzia dell’intermediario. Ordinanza | Tribunale di Verona, Giudice unico dott. Massimo Vaccari | 18-03-2013  SEGNALAZIONE IN CAI: inammissibilità del ricorso ex art.700 cpc L’illegittima segnalazione va tutelata con il rimedio cautelare tipico ex artt.10 e 5 D.Lgs. 150/2011. Sentenza | Tribunale di Verona, Giudice Unico dott. Andrea Mirenda | 14-01-2013 SEGNALAZIONI ALLA CENTRALE DEI RISCHI E QUESTIONI DI RESPONSABILITA’ CIVILE Responsabilità delle Banche. Articolo giuridico | 24-04-2013 SEGNALAZIONE CENTRALE RISCHI: si impone alla banca una valutazione prognostica sulle ragioni dell’impedimento del cliente La diffida di pagamento e l’emissione di un decreto ingiuntivo non sono sufficienti a comprovare l’insolvenza del soggetto. Ordinanza | Tribunale di Marsala, sezione feriale dott. Pasquale Russolillo | 05-08-2013...

CENTRALE RISCHI: competenza inderogabile del Foro del consumatore

Mer, 02/04/2014 - 13:51
Quando la tutela contro il trattamento dei dati personali venga invocata nell'ambito di un rapporto di consumo, competente è il giudice del luogo di residenza o di domicilio elettivo del consumatore come previsto dal d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, lett. u), in quanto la competenza del consumatore è inderogabile e prevale anche su quella del titolare del trattamento dati, prevista dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 152 e ora dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10. Così si è pronunciata la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 5705, emessa in data 12/02/2014. Nel caso di specie un soggetto era stato segnalato alle Centrali Rischi da una società finanziaria, per il mancato versamento di una somma a saldo di un contratto di mutuo, che lo stesso aveva contestato come indebita. Vistosi negati ulteriori finanziamenti da altri istituti di credito a causa della segnalazione in black list della centrale rischi di varie società, il soggetto segnalato proponeva ricorso innanzi il Tribunale di Palermo, domandando che venisse dichiarato non dovuto il credito vantato, che fosse dichiarata illegittima la sua iscrizione nelle Centrali rischi delle predette società e che i convenuti fossero condannati in solido al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Il Tribunale, pur condividendo la giurisprudenza di legittimità che aveva già avuto modo di affermare la prevalenza della tutela del consumatore sulla disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, aveva dichiarato la propria incompetenza territoriale rimettendo la causa dinanzi ai giudici considerati competenti alla luce dell’art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003, avendo ritenuto di escludere che il finanziamento fosse stato concesso nell’ambito di un rapporto di consumo per essere stato contratto in veste di avvocato. Avverso tale pronuncia veniva proposto regolamento di competenza dinanzi alla Corte di Cassazione dalla parte ricorrente. Il Supremo Collegio, quindi, dopo aver rilevato la correttezza della ricostruzione da parte del Giudice del merito, secondo cui, quando la tutela contro i trattamenti personali venga invocata nell’ambito di un rapporto di consumo, il Foro del consumatore prevale su quello sulla privacy, ha affermato la competenza del giudice del luogo di residenza o di domicilio elettivo del consumatore, che è una competenza esclusiva che prevale su ogni altra e, quindi, anche su quella  di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 che deroga alle norme codicistiche, sul rilievo che il finanziamento da cui la segnalazione contestata andava inquadrato nell’ambito di un rapporto di consumo. Gli ermellini hanno, infatti, precisato che la normativa sulla tutela del consumatore è prevalente, non solo perché successiva, ratione temporis, a quella sul trattamento dei dati personali, ma anche perché, alla luce di un contemperamento di interessi, la tutela del consumatore ha un’importanza primaria nell’ordinamento giuridico italiano ed europeo. Infatti, anche se non richiamata dalla Costituzione italiana, a partire dagli anni ’80, quest’ultima è stato oggetto di un’attenta legislazione, nazionale e comunitaria, che ha posto tale argomento ad un livello tale da essere paragonabile a quello di un diritto costituzionale. La tutela del consumatore, in via di principio applicabile alla persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta, rinviene le ragioni di fondo della protezione accordata in una presunzione di inesperienza e soprattutto debolezza contrattuale dello stesso nei confronti della controparte, che, in quanto professionista che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale è ragionevolmente molto meglio attrezzata a gestire tutte le fasi del contratto, per cui, a maggior ragione, non può non essere prevista una tutela anche processuale, attraverso la previsione di un foro comodo per l'utente. La diversa decisione del giudice di legittimità, quindi, è stata determinata dalla qualificazione del rapporto come di consumo e non tra professionisti da cui discende la applicazione della relativa tutela. Ed, infatti, i Giudice del Palazzaccio hanno rilevato che dagli atti altro non è emerso se non che la richiesta di concessione del finanziamento era stata avanzata da un soggetto presentatosi nella qualità di professionista in quanto avvocato per l'acquisto di un'autovettura e, pertanto, era da escludere che l'autovettura fosse stata inequivocabilmente scelta per essere destinata a un uso esclusivamente o prevalentemente professionale. La Corte ha ribadito il principio più volte affermato secondo cui, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela del consumo, la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche e solo se e in quanto le stesse concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, laddove deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che stipuli il contratto o nell'esercizio della sua attività imprenditoriale o professionale o per uno scopo a questa connesso. Una diversa qualificazione del rapporto intercorso, infatti- chiarisce la Suprema Corte – significherebbe compiere una torsione interpretativa contraria alla lettera e allo spirito della legge a tutela dei consumatori rendendo ipotetico e marginale il collegamento funzionale del contratto all’esercizio dell’attività professionale.  In conclusione l’accertamento di un rapporto di consumo ha imposto la deroga alla competenza per territorio in favore del foro del consumatore nei confronti di tutti gli istituti di credito. La Corte ha quindi accolto il ricorso e dichiarato la competenza del Tribunale del luogo in cui ha residenza il mutuatario-consumatore, condannando gli istituti di credito alle spese del giudizio. Per ulteriori approfondimenti sul punto si segnala una recente pronuncia del Tribunale di La Spezia, del 29/01/2014, con la quale richiamando l’ordinanza della Corte di Cassazione n.23280/07, si è sancito l’inderogabilità della competenza del Foro ove ha sede il titolare del trattamento dei dati, così come definito dall’art. 4, d.lgs. 196/03. In tale fattispecie, però, il soggetto che ha lamentato l’illegittimo utilizzo dei dati personali non aveva allegato di aver agito nell’ambito di un rapporto di consumo. CENTRALE RISCHI: è competente il Tribunale del luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei dati...

ESECUZIONE FORZATA: il creditore procedente può rettificare l’atto di provenienza degli immobili staggiti

Mer, 02/04/2014 - 11:09
Se uno degli immobili pignorati, pur essendo fisicamente descritto,  non viene riportato nei suoi dati catastali nell’atto di provenienza e nella relativa trascrizione, il notaio deve rettificare l’atto di provenienza, aggiungendovi il subalterno omesso, il tutto al fine di consentire l’idoneo acquisto dell’aggiudicatario onde prevenire eventuali futuri pregiudizi.  Così si è pronunziato il Tribunale di Napoli, Giudice dell’Esecuzione dott. Antonio Attanasio,  il quale ha onerato il creditore procedente, che - medio tempore - aveva già emendato la trascrizione del pignoramento, di rettificare l’atto di provenienza degli immobili pignorati, ove era omessa l’indicazione del subalterno afferente il lastrico solare, pur se fisicamente descritto.  La pronunzia è conforme a quanto disposto dall’art. 59-bis del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 110, che prevede la facoltà del notaio di rettificare, fatti salvi i diritti dei terzi, un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, contenente errori od omissioni materiali relativi a dati preesistenti alla sua redazione, provvedendovi, anche ai fini dell’esecuzione della pubblicità, mediante propria certificazione contenuta in atto pubblico da lui formato.   Per rettifica deve intendersi la correzione di un errore materiale, costituito da un’“inesattezza rilevabile ictu oculi” o da una “mera svista o disattenzione nella redazione”, rilevabile dallo stesso documento autentico da rettificare o da altro documento o pubblico registro preesistente, avente la medesima efficacia probatoria e causato dall’errata ed involontaria percezione di un dato reale esterno, che non deve ingenerare incertezza sul reale contenuto dell’atto, che è irregolare e non invalido.   La rettifica consiste, infatti, in una dichiarazione di scienza, per la quale - da un lato - si accerta l’esistenza di un errore nel senso sopra specificato e - dall’altro - si provvede alla correzione, ossia all’enunciazione del reale contenuto del dato errato. Tale strumento non è, invece, utilizzabile quando si deve modificare il contenuto precettivo dell’atto, in cui è contenuto l’errore, nel caso in cui sussistano elementi di incertezza riguardo all’esistenza o al contenuto dell’errore e  sia necessaria l’attività di interpretazione del contenuto dell’atto e di indagine nel processo psicologico degli autori dello stesso....

AVVOCATI: PUNITA LA NEGLIGENZA “INCONSAPEVOLE” CHE PREGIUDICHI IL CLIENTE

Mer, 02/04/2014 - 08:27
È responsabile nei confronti del cliente l’avvocato che dilazioni lo svolgimento del processo a danno dell’assistito, chiedendo continui rinvii delle udienze, a nulla rilevando l’eventuale negligenza “inconsapevole”. È quanto si ricava dalla recente sentenza della Cassazione n. 5410, pronunciata lo scorso 7 marzo 2014, all’esito di un procedimento che vedeva coinvolti un avvocato ed il proprio assistito. Nel caso di specie, la sentenza trae origine da un giudizio di responsabilità professionale nell’ambito del quale una cliente aveva proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello con cui si affermava che  il legale della stessa, appellato,  non poteva considerarsi responsabile dei rinvii giudiziari, essendo notorio che tali rinvii sono sempre fisiologici e dovuti alle enormi pendenze giudiziarie che non consentono le trattazioni dei processi in corso di una od al più di due udienze. Ebbene la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto fondate le censure della ricorrente, notando come la Corte di appello si fosse limitata a riprodurre letteralmente la motivazione della sentenza di primo grado, escludendo illogicamente una consapevole negligenza da parte del legale, quasi che una negligenza inconsapevole non potesse essere altrettanto ingiustamente pregiudizievole per il cliente e per i relativi interessi. Pregiudizio che a ben guardare – anche alla luce delle prove e degli atti di causa – era stato effettivamente subito dall’assistito, e che con tutta evidenza poteva essere “evitato” se solo il professionista avesse adottato la condotta doverosa. Né, al contrario, poteva dirsi integrata “una qualche lieve leggerezza” così come ritenuto dal locale Consiglio dell’ordine. Alla luce di tali considerazioni, la Corte di legittimità, ritenuta che il legale fosse responsabile dei rinvii dallo stesso richiesti,  ha cassato la sentenza impugnata con conseguente rinvio della causa alla competente corte territoriale....

CONCORDATO IN BIANCO: è sufficiente che il ricorso sia sottoscritto solo dal difensore munito di procura

Mar, 01/04/2014 - 16:54
“Allorchè il ricorso contenga (come consentito dal novellato art. 161 co. VI L.F.) solo una domanda di concordato cd. “in bianco”, riservandosi l’imprenditore di presentare la proposta, il piano e gli altri documenti prescritti, è sufficiente che il ricorso sia sottoscritto dal difensore munito di procura alle liti, posto che l’atto contiene evidentemente solo una domanda giudiziale, ma non certamente il piano per la soluzione negoziata della crisi”. Con la sentenza in esame, la Corte di Appello di Napoli, in accoglimento del reclamo proposto dalla società fallita, ha revocato la sentenza che ne aveva dichiarato il fallimento, motivando la propria decisione sulla base di un’interpretazione sistematica delle norme che regolano l’accesso alle nuove procedure di gestione della crisi da sovraindebitamento dell’impresa. Nel caso di specie, il Tribunale aveva ritenuto inammissibile il ricorso ex art. 161 co. VI L.F., presentato da una società in liquidazione per ottenere l’accesso alla procedura di cd. “concordato in bianco”, per non aver il legale rappresentante della proponente apposto la propria firma in calce all’istanza in parola (sottoscritta esclusivamente dal difensore della società, munito di procura alle liti). Essendo già pendente la fase d’istruttoria prefallimentare, il Giudice di primo grado, riscontrata l’insussistenza delle esimenti di cui all’art.1 L.F., ne aveva conseguentemente dichiarato il fallimento. Nell’accogliere il reclamo, il Collegio muove dall’assunto secondo cui, sulla base del comb. disp. degli artt. 6 e 161 L.F., 82, 83 e 125 c.p.c., sia il ricorso ai sensi dell’art. 161 co. I L.F., che l’istanza per ottenere l’ammissione alla fase del cd. “concordato con riserva”, debbano essere proposti con il patrocinio di un difensore. Ciò posto, la Corte partenopea ha proseguito nel proprio iter motivazionale rilevando che, con le modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito nella Legge n. 134 del 7 agosto 2012 (e le ulteriori novità normative disposte con il cd. “decreto del fare”), il Legislatore ha inequivocabilmente inteso scindere in due diversi momenti formativi l’atto complesso che consente all’imprenditore di accedere alla procedura di concordato, così distinguendo la “domanda” contenuta nel ricorsoredatto ai sensi dell’art. 161 co. VI L.F. (da intendersi come la  mera richiesta di ammissione alla fase cd. di “preconcordato”); dalla “proposta” (da depositare alla scadenza del termine a tal fine concesso dal Tribunale), nella quale l’effettivo intento negoziale del debitore viene esplicitato mediante l’indicazione delle modalità quantitative, qualitative e temporali di soddisfacimento dei creditori, in uno con il piano delle attività tese alla soluzione della crisi d’impresa. Ritiene dunque la Corte che, se a mente dell’art. 161 co. VI L.F., “l’imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato….riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione…entro un termine fissato dal giudice”, non v’è dubbio che l’obbligo di sottoscrizione imposto al legale rappresentante della società (secondo il comb. disp. degli artt. 152 e 161 co. I L.F.) debba riferirsi alla suddetta proposta contenente le condizioni del concordato ed il piano per la soluzione negoziata della crisi; e non già al ricorso (privo di ogni contenuto negoziale) con cui si chiede esclusivamente l’accesso alla fase preconcordataria, essendo sufficiente che quest’ultimo venga sottoscritto dal difensore munito di valida procura alle liti. Si segnala che la sentenza oggetto di impugnazione è già stata oggetto di  esame da questa rivista, si veda : CONCORDATO IN BIANCO: IL RICORSO VA FIRMATO DALL’IMPRENDITORE IN DISSESTO Dichiarata inammissibile una proposta di concordato sottoscritta dal solo avvocato e non dal debitore. Sentenza | Tribunale di Napoli, Giudice relatore dott. Nicola Graziano | 12-09-2013 | n.274...

CTU: la relativa nullità deve essere eccepita entro la prima istanza o difesa successiva al deposito

Mar, 01/04/2014 - 16:16
Deve ritenersi che l’eccezione di nullità della consulenza tecnica d'ufficio, dedotta per vizi procedurali inerenti alle operazioni peritali, avendo carattere relativo, resti sanata se non fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito, per tale intendendosi anche l'udienza successiva al deposito, nella quale il giudice nella quale il giudice abbia rinviato la causa per consentire l'esame della relazione, poiché la denuncia di detto inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto della relazione. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione sesta, con ordinanza n.5995 pronunziata in data 14/03/2014 relativamente al deposito tardivo di una consulenza tecnica d’ufficio. Nel caso di specie, i ricorrenti avevano impugnato la sentenza della Corte di Appello di Catania che, nell’ambito di una controversia sullo scioglimento di una comunione ereditaria, non aveva rinnovato, per mera negligenza, la ctu depositata tardivamente dal perito incaricato di definire l’esatto valore delle quote ereditarie in questione dichiarando inammissibile la doglianza di nullità avanzata dagli stessi contro la ctu. Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto corrette le osservazioni della Corte territoriale secondo cui la mera circostanza del deposito tardivo della relazione c.t.u. non ha alcuna conseguenza invalidante, potendo essa incidere solo sulla determinazione del compenso previsto dalla legge. I giudici di legittimità hanno ritenuto altresì infondata la censura sollevata dai ricorrenti, atteso che la Corte di Appello aveva rilevato la tardività dell’eccezione di supposta nullità della relazione del c.t.u. dedotta dagli appellanti  sul presupposto che la stessa non fosse stata formulata nella prima effettiva udienza celebratasi dopo il deposito della medesima relazione dell’ausiliario del giudice. Alla luce di tali considerazioni, dunque, la Cassazione ha rigettato il ricorso condannando i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio....

Equa riparazione: indennizzabile anche il ritardo nell’adempimento al “decreto Pinto”

Mar, 01/04/2014 - 16:00
Il cittadino che, ottenuta l’equa riparazione ex legge Pinto, si sia visto costretto a promuovere processo di esecuzione forzata per ottenere l’adempimento dell’Amministrazione, a seguito del ritardo di quest’ultima, ha diritto ad un ulteriore indennizzo, o “equa soddisfazione”. Tale principio, tuttavia, va coordinato con il “principio della domanda”, ragion per cui, se il cittadino abbia qualificato la propria richiesta come risarcimento per il ritardo nell’adempimento – e non come equa riparazione per l’irragionevole durata del processo esecutivo – la domanda non può trovare accoglimento nelle forme e nei modi previsti dalla legge Pinto, ma il diritto all’equa “soddisfazione” va fatto valere direttamente innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, atteggiandosi a generale rimedio per l’effettività della tutela giurisdizionale. Questo, in estrema sintesi, il dictum della sentenza n.6312 della Cassazione civile, a Sezioni Unite, del 19.03.2014, con la quale è stato definitivamente chiarito l’ambito di operatività della legge n.89/2001 (c.d. legge Pinto), anche nell’ottica di una corretta individuazione della giurisdizione delle Corti italiane, in rapporto con le funzioni ed i poteri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel caso all’esame delle Sezioni Unite, la Corte d’Appello di Firenze, adita per ottenere l’equa riparazione per irragionevole durata del processo, aveva condannato il Presidente del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 2.500,00, oltre interessi e spese legali; tuttavia, nel perdurante inadempimento del Ministero competente all’erogazione della detta somma, il ricorrente si era visto costretto a promuovere procedimento di esecuzione forzata nella forma dell'espropriazione presso terzi, conclusasi con ordinanza di assegnazione. Orbene, atteso che, tra la data del decreto e quella dell'ordinanza di assegnazione del predetto credito da indennizzo, erano trascorsi due anni circa, il cittadino “danneggiato” aveva promosso un nuovo procedimento per ottenere un indennizzo per il detto ritardo innanzi alla Corte d’Appello fiorentina, la quale aveva rigettato il ricorso, affermando che "...la domanda di equa riparazione L. n. 89 del 2001, ex art. 3, può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere ...". In altre parole, i Giudici avevano considerato la domanda del ricorrente non come domanda di “equa riparazione” per irragionevole durata del processo, bensì come autonoma richiesta di risarcimento per la “mora debendi” (in relazione al ritardo della Pubblica Amministrazione nell’erogazione della somma richiesta), onde il rigetto della richiesta ed il conseguente ricorso per cassazione da parte del cittadino. L’articolata decisione del plenum si apre con un’accurata ricostruzione della giurisprudenza di legittimità e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su casi analoghi. Questione preliminare la valutazione delle due fasi di un giudizio (di cognizione e di esecuzione), ai fini dell’individuazione della “ragionevole durata” del processo. Due gli orientamenti che, in tal senso, vengono in rilievo: 1. le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27365 del 2009, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all'art. 6 della CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere che, per effetto di detta norma sovranazionale, sono diritti e obblighi, ai quali, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonchè il processo di cognizione del giudice amministrativo e quello di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione appunto alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l'ulteriore conseguenza che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi (di cognizione, da un lato, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro) e, perciò, solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi, è possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, l'equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza (cfr., ex plurimis, le successive sentenze conformi nn. 16828 del 2010, 820 e 13739 del 2011); 2. la Corte EDU ha affermato costantemente che, al fine di stabilire se un processo ha avuto durata ragionevole, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, deve considerarsi globalmente la fase di cognizione e quella di esecuzione, promossa per la realizzazione del diritto fatto valere in giudizio ed, in particolare, con la sentenza del 29 marzo 2006 (Cocchiarella c/ Italia), sarebbe illusorio se l'ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L'esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell'articolo 6 (vedi, inter alia, Hornsby contro la Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Reports 1997 - II, pagg. 510 - 11, p.40 e segg., e Metaras contro la Grecia, n. 8415/02, p.25, 27 maggio 2004).  Tra l’altro, a conferma di tale orientamento, la Corte Costituzionale ha più volte sottolineato la natura “costituzionalmente necessaria” della fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia. Ciò esposto, considerato che il primo dei due orientamenti è stato dettato in relazione allo specifico caso di un processo amministrativo seguito dal giudizio di ottemperanza, tenuto conto dell’importanza massimale della questione, si comprende il motivo della sottoposizione di quest’ultima alle Sezioni Unite. In sintesi, le questioni sottoposte a queste ultime, possono essere così sintetizzate: a) se il ritardo nella "realizzazione" del diritto all'indennizzo ed agli interessi, di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, già fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della stessa L. n. 89 del 2001, possa o no esser fatto valere mediante domanda di (ulteriore) equa riparazione per il ritardo nella realizzazione, e se, in particolare, il processo di esecuzione forzata, eventualmente promosso per ottenere la realizzazione medesima, possa qualificarsi o no del tutto autonomo rispetto al precedente processo di cognizione di formazione del titolo;  b) se il rimedio al ritardo nell'adempimento della Pubblica Amministrazione - per il tempo trascorso tra il definitivo riconoscimento del diritto all'indennizzo e la realizzazione di tale diritto (pagamento) - debba necessariamente consistere in un ulteriore indennizzo liquidato al titolare del diritto ai sensi della legge n. 89 del 2001, ovvero possa consistere anche nel riconoscimento degli interessi moratori. Presupposto dell’analisi è il riferimento al principio costituzionale di “effettività” della tutela giurisdizionale, di cui all'art. 24 Cost., comma 1, art. 111 Cost., commi 1 e 2, e art. 113 Cost., commi 1 e 2, in relazione al quale è stata individuata la necessarietà costituzionale della “fase” esecuzione coattiva. Orbene, proprio la denominazione “fase” induce a ritenere che quest’ultima, riferendosi ad una situazione soggettiva sostanziale di vantaggio già riconosciuta nella precedente “fase” della cognizione, alluda ad un processo “unico, nel quale il diritto rivendicato diventa effettivo solo al momento dell’esecuzione (ove necessaria). Tanto ha affermato, in particolare, la Corte di Strasburgo in varie pronunce (una su tutte la sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006 – Cocchiarella c/ Italia), nelle quali ha ribadito che “l’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve […] essere considerata come parte integrante del ‘processo’ ai fini dell’art.6” della CEDU. Così, se “si attenuano, fino a scomparire, le ‘differenze funzionali e strutturali’ (richiamate dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009) tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata - peraltro certamente esistenti e rilevanti ad altri fini, vale a dire sul piano dell'interpretazione e dell'applicazione della disciplina processuale dettata dalla legislazione ordinaria”, va però operata un’altra importante distinzione, sotto il profilo sostanziale: quella tra il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo e quello “all’esecuzione delle decisioni interne esecutive”, il quale costituisce una situazione soggettiva differente, alla quale, in altre decisioni della Corte EDU (es. sent. Simaldone c/ Italia), va accordata tutela in via autonoma. In altri termini, più volte la Corte di Strasburgo ha affermato che “il ritardo nel pagamento delle somme Pinto costituisce una violazione autonoma dell’art. 6 della Convenzione (diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive)” e pertanto non vi sono “motivi per derogare a tale approccio” (sent. 16 luglio 2013, Gagliardi c/ Italia, n.50). Alla luce di tale distinzione, gli Ermellini puntualizzano che non basta la sola considerazione unitaria del processo (e, quindi, dello stesso processo “Pinto”) perché possa dedursi che, nell’ordinamento italiano, la norma sostanziale astrattamente idonea ad assicurare la tutela di entrambi i diritti (quello alla ragionevole durata del processo e quello all’effettività della tutela giurisdizionale) sia, appunto, la legge 89/2001. Anzi, la stessa lettera della legge “Pinto” (art.2, comma 1) induce a ritenere che la fattispecie del ritardo della Pubblica Amministrazione nel pagamento delle somme a titolo di “equa riparazione” fuoriesca dall’ambito di tutela di tale normativa. E d’altronde, tale principio sembra ben chiaro alla giurisprudenza amministrativa già da tempo, laddove, come nel caso della  pronuncia del TAR LAZIO, sez. I, n.8746, già oggetto di commento su questa rivista, a venire in rilievo è l’autonomo risarcimento del danno da ritardo, a carico dell’Amministrazione, qualora il Ministero non abbia corrisposto le c.d. somme “Pinto”. Il fatto che il legislatore del 2001, nell’accordare il diritto all’equa riparazione, non abbia inteso regolamentare l’autonoma fattispecie del ritardo della Pubblica Amministrazione nella corresponsione delle somme a tale titolo liquidate, per le Sezioni Unite non costituisce indice di illegittimità costituzionale della normativa, atteso che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo accorda ampia discrezionalità agli Stati membri nella regolamentazione degli strumenti posti a presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Riguardo a quest’ultima fattispecie, la Cassazione sottolinea che la Corte EDU ha anche affermato che "[...] è inopportuno chiedere a una persona, che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato, alla fine di un procedimento giudiziario, di proporre poi un procedimento di esecuzione per ottenere soddisfazione”. e pertanto questa, adita in via diretta, ha accordato ai ricorrenti una somma a titolo di "equa soddisfazione" ai sensi dell'art. 41 della Convenzione, più volte ritenendo peraltro insufficiente ("non determinante"), quale rimedio a detto ritardo, il riconoscimento dei soli interessi moratori (cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze 10 dicembre 2013, Limata ed altri contro Italia, n. 24, e 31 marzo 2009, Simaldone contro Italia, n. 63, cit.). Pertanto, ad avviso del Supremo Collegio, la questione va risolta anzitutto attraverso una corretta applicazione del principio della domanda, espresso dall’art.99 cpc. Vale a dire che, preliminarmente – e tenuto conto dell’intrinseca differenza delle situazioni sostanziali e degli strumenti processuali di tutela – ogni singola fattispecie deve essere differenziata a seconda che il ricorrente abbia chiesto l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo Pinto, ovvero per il ritardo nel pagamento del già riconosciuto indennizzo e degli interessi oggetto della pronuncia di condanna con il decreto Pinto definitivo. A tal proposito, le Sezioni Unite distinguono varie ipotesi (e altrettante prospettazioni) alternative, che di seguito si riportano: A) Il caso in cui il ricorrente abbia fatto valere il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, che può essere ulteriormente suddistinto, a seconda che sia stata dedotta in giudizio la durata irragionevole della sola "fase" di cognizione ovvero anche della promossa ed esaurita "fase" di esecuzione forzata del titolo definitivo ottenuto nella prima fase. A1) Nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative. A2) Nel caso in cui la "fase" della cognizione del processo "Pinto" si sia conclusa in senso favorevole al ricorrente, la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi (secondo la giurisprudenza della CEDU dianzi citata) e cinque giorni(in forza dell'art. 133 c.p.c., comma 2) dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 15658 del 2012, in fattispecie identica a quella in esame), con la conseguenza che, ove il predetto termine dilatorio non sia stato rispettato dall'Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto - procedimento, questo, da considerarsi, sulla base di tutte le considerazioni che precedono, quale "fase dell'esecuzione" di un unico processo, che ha inizio con la domanda di equa riparazione e fine con la conclusione di tale seconda fase -, la durata complessiva di tale processo è costituita dalla somma della durata delle due fasi, di cognizione e di esecuzione, con l'ulteriore conseguenza che, se tale complessiva durata eccede il termine di due anni (cfr., supra, lettera A1), sei mesi e cinque giorni, lo stesso titolare ha diritto all'equa riparazione commisurata a tale eccedenza, diritto da far esplicitamente valere - si ribadisce: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato, cioè del diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole - nelle forme e nei termini di cui alla L. n. 89 del 2001, in particolare entro sei mesi dalla data del provvedimento conclusivo della "fase" di esecuzione forzata (ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 4, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. d), data nella quale - si sottolinea - può non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme dovute. B) Il caso - in cui il ricorrente abbia fatto valere, invece, il diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive, cioè del decreto di condanna Pinto definitivo, dolendosi del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento delle somme relative - può essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l'esecuzione forzata del titolo così ottenuto, circostanze queste, come più volte sottolineato, da dedurre nel giudizio in modo adeguato e specifico. B1) Nel primo caso (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata) - ribadito che la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi e cinque giorni dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo -, il ricorrente ha il diritto - fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del "diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive" - ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all'entità del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella "realizzazione" dell'indennizzo e degli interessi (già riconosciuti per l'irragionevole durata del processo "presupposto"), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata. Tale diritto, tuttavia - per le anzidette ragioni, non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte di Strasburgo, come del resto accaduto numerosissime volte. B2) Nel secondo caso (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata), in cui cioè il titolare del diritto all'indennizzo ed agli interessi per l'irragionevole durata del processo presupposto abbia scelto di tenere un comportamento di "attesa" della realizzazione del suo credito senza svolgere ulteriori attività, facendo implicitamente valere soltanto il "mero ritardo", per così dire, nel pagamento delle somme corrispondenti, potrebbero astrattamente prospettarsi le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell'Amministrazione è costituito dal titolo della già pronunciata condanna al pagamento degli interessi "corrispettivi" dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono in interessi "moratori", dovuti appunto fino alla data dell'effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo - ed è questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo - è costituito, anche in questo caso, da un ulteriore indennizzo, dovuto dall'Amministrazione in forza dell'art. 41 della Convenzione, per la violazione dell'art. 6, prf. 1, sotto il più volte richiamato profilo del "diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive", e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all'Amministrazione medesima per il pagamento. Anche in questo caso, tuttavia, tale diritto non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU.  Alla luce delle prospettate ipotesi alternative, la Corte ha così rigettato il ricorso, atteso che la Corte d’Appello di Firenze aveva qualificato correttamente (rectius, motivando in maniera sufficiente, non contraddittoria ed immune da vizi logici e giuridici) la domanda come volta a far valere il danno per il ritardo del pagamento della P.A. – e non come richiesta di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo esecutivo. In conclusione, il cittadino che abbia ottenuto l’equa riparazione e, non indennizzato dall’amministrazione nel termine di sei mesi e cinque giorni, abbia percorso la strada del giudizio di esecuzione del decreto Pinto, non può avvalersi degli strumenti processuali di cui alla legge 89/2001 se intenda dedurre in giudizio – non il danno da irragionevole durata del processo esecutivo, bensì – l’autonomo diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive, a fronte del ritardo della P.A., con la conseguenza che dovrà adire direttamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere equa “soddisfazione”. La pronuncia delle Sezioni Unite, che si segnala per ampiezza espositiva e chiarezza del percorso logico-argomentativo, definisce –de jure condito – i confini di applicazione della legge “Pinto”, oggetto di recenti riforme e dibattiti, nonché di diffuso interesse, in quanto unica “ancora di salvezza” – certamente insufficiente – a fronte delle patologiche inefficienze della macchina della Giustizia.  Segue una rassegna delle pronunce giurisprudenziali più recenti sul tema, già oggetto di commento su questa rivista. “EQUA RIPARAZIONE” – PRESUPPOSTI E LIMITI Principi e rassegna giurisprudenziale sul risarcimento dei danni da irragionevole durata del processo Articolo giuridico | 12-02-2014 | Legge 24 marzo 2001 n.89; d.l. 22 giugno 2012, n.83  IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: IL RISARCIMENTO SPETTA ANCHE AL CONTUMACE La contumacia della parte non preclude il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per irragionevole durata del processo Ordinanza | Cassazione civile, sezioni unite | 14-01-2014 | n.585  IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: LA SUSSISTENZA DEL DANNO NON DEVE ESSERE PROVATA Il danno non patrimoniale si presume sino a prova contraria Altro | Cassazione civile, sezione seconda | 20-01-2014 | n.1070  DIRITTO ALL’EQUA RIPARAZIONE PER IL MANCATO RISPETTO DEL TERMINE RAGIONEVOLE DEL PROCESSO E' configurabile anche in relazione ai procedimenti di esecuzione forzata Sentenza | Cassazione civile, sezione sesta | 15-07-2013 | n.16029   LEGGE PINTO – EQUA RIPARAZIONE – IL TERMINE DI 6 MESI È UN TERMINE DI DECADENZA SE IL PROCESSO È CONCLUSO Quando il processo è ancora pendente, non è previsto alcun termine di prescrizione per proporre la relativa domanda. Sentenza | Cassazione civile, sezioni unite | 02-10-2012 | n.16783...

AVVOCATI: nel procedimento speciale ex L.794/1942 il rimborso forfettario della spese generali non può essere liquidato d'ufficio

Mar, 01/04/2014 - 13:51
"Il rimborso forfettario delle spese generali ai sensi dell’art. 14 disp. gen. della tariffa professionale forense, approvata con D.M. 8 aprile 2004, n. 127, non puo’ essere liquidato d’ufficio nel procedimento speciale disciplinato dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, occorrendo, in tale procedimento, apposita domanda con cui il professionista chieda, in applicazione dei principi previsti dagli artt. 99 e 112 c.p.c., la corresponsione in proprio favore del suddetto compenso". E' questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte con sentenza n.4748 pronunziata in data 28/02/2012 in materia di compensi spettanti all’avvocato per l’attività professionale svolta. Nel caso che occupa era accaduto che a seguito dell'opposizione a decreto monitorio ottenuto dal professionista e attinente alla liquidazione del compenso per prestazioni professionali forensi, il Giudice adito avesse riconosciuto all'Avvocato opposto una determinata somma per il titolo richiesto, ma non l'importo relativo al rimborso delle spese generali (rimborso forfettario) dedotto. Promosso ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ha rigettato le censure proposte dall'Avvocato opposto relativamente ai compensi non riconosciuti, evidenziando i presupposti che devono essere posti a fondamento della richiesta di condanna di controparte al rimborso delle spese generali. E' proprio questa infatti la peculiarità di tale arresto giurisprudenzuiale degli Ermellini, che si pone quasi alla stregua di un vademecum sul punto della rimborsabilità delle sepese forfettarie in ordine a giudizi, come quello monitorio, caratterizzati da regole procedurali specifiche. Infatti,  la Suprema Corte ha chiarito che, secondo un principio recentemente più volte affermato, il rimborso forfettario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza. Tale principio, tuttavia, in piena armonia con il dettato normativo (secondo cui all’avvocato “è dovuto un rimborso forfettario delle spese generali in ragione del 12,50% sull’importo degli onorari e dei diritti ripetibili dal soccombente”), opera in caso di definizione di un processo di cognizione ordinaria, nel quale, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. la condanna alle spese di lite, costituendo una pronuncia accessoria e consequenziale alla definizione del giudizio, può essere emessa a carico della parte soccombente anche di ufficio e in difetto di esplicita richiesta della parte vittoriosa, sicché ben si comprende come, in forza dello stesso art.91c.p.c.,  nella liquidazione delle spese debba essere compreso, pure in assenza di una specifica istanza, anche il rimborso forfettario, che costituisce una voce di credito dovuta all’avvocato in base alla tariffa professionale, nella misura determinata ex lege. Al contrario, nel procedimento per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti spettanti agli avvocati per prestazioni giudiziali in materia civile, non può essere utilmente richiamata la disciplina normativa relativa alla condanna del soccombente al rimborso delle spese processuali: mentre, infatti, in quest’ultimo caso la liquidazione che il giudice effettua, anche in assenza di notula, riguarda la definizione di un giudizio contenzioso nel quale il carico delle spese è una diretta conseguenza dell’esito del giudizio, concernendo il diritto di ciascuna parte di vedersi rimborsare le spese sostenute, nel primo caso viene in diretta considerazione il rapporto tra professionista e cliente ed il giudice non può sostituirsi, nella determinazione del quantum dovuto, alle richieste dell’interessato, liquidando a carico del cliente una somma maggiore rispetto a quella domandata dallo stesso professionista. Ne deriva un chiaro monito per tutti i professionisti del settore: nel caso di procedimento speciale ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, il rimborso forfettario della spese generali non può essere liquidato d'ufficio, ma occorre una specifica domanda!!...

RILASCIO IMMOBILE: Necessaria la probatio diabolica se l’attore agisce “sostanzialmente” in rivendicazione

Mar, 01/04/2014 - 10:01
Non è azione di restituzione, ma di rivendicazione, quella con cui l'attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico giustificativo della consegna della cosa. Tale azione non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna venga richiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo.  Sono questi i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza n.7305 del 28/03/2014 sono state chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale in materia di qualificazione della natura (reale o personale) dell’azione di rilascio di un immobile esperita da chi assuma esserne proprietario a titolo originario senza fornire in giudizio la prova del proprio acquisto.   Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata su un ricorso proposto dall’originario attore avverso la decisione della Corte d’Appello di Bari di riformare la sentenza di primo grado (che condannava il convenuto al rilascio di un immobile), sul presupposto che lo stesso attore non avesse fornito prova necessaria a far valere il diritto di proprietà sul cespite conteso. Il ricorrente deduceva, in particolare, a fondamento della propria impugnazione, il mutamento della domanda, da personale a reale, effettuato dalla Corte d’Appello, in ragione del carattere petitorio delle difese opposte in via riconvenzionale dal convenuto. La Corte ha preliminarmente esaminato i presupposti delle due tipologie di azione, sottolineando che l’azione personale di restituzione mira ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall’attore al convenuto, in base a negozi come la locazione, il comodato, il deposito e così via, i quali non presuppongono nel tradens la qualità di proprietario. Diversa è invece l’ipotesi in cui l’attore chieda la condanna al rilascio del bene senza ricollegare la sua pretesa al venir meno di un negozio giuridico. Il fondamento di tale domanda, infatti, non consiste in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, che può essere dimostrato soltanto con la probatio diabolica, con cui l’attore deve documentare l’acquisto del bene avvenuto a titolo originario da parte sua o di uno dei propri danti causa a titolo derivativo. Il Collegio ha poi affrontato il problema relativo al se le difese di carattere petitorio opposte a un'azione di rilascio o consegna comportino la trasformazione in reale della domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall'attore come personale. Su questo punto i Giudici di legittimità hanno evidenziato la necessità di rispettare i basilari principi di disponibilità e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che riservano alle parti la formulazione delle loro richieste, vietando al giudice di pronunciare al di fuori o oltre i limiti delle domande come effettivamente proposte.” Il destinatario di un'azione personale di restituzione, pertanto, può bensì contrastarla con eccezioni o domande riconvenzionali di carattere petitorio, senza tuttavia che ciò dia luogo a una mutatio o emendatio libelli, che non sono consentite neppure all'attore, se non nei ristretti limiti stabiliti dall'art 183 c.p.c.” Nel caso in esame, perciò - ha affermato la Corte - la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica. La tesi opposta comporta la sostanziale vanificazione della stessa previsione legislativa dell'azione di rivendicazione, il cui campo di applicazione resterebbe praticamente azzerato, se si potesse esercitare un'azione personale di restituzione nei confronti del detentore sine titulo. La Corte ha pertanto rigettato il ricorso compensando le spese di lite tra le parti....

SEQUESTRO PREVENTIVO: è limitato ad un quinto per gli emolumenti retributivi corrisposti dallo Stato

Lun, 31/03/2014 - 17:19
In relazione agli emolumenti retributivi corrisposti dallo Stato e dagli altri enti indicati nell’art.1 D.P.R. 5 gennaio 1950 n.180, il sequestro preventivo di entità monetarie costituenti il prezzo o il profitto di reati commessi in pregiudizio della pubblica amministrazione è consentito solo nei limiti di un quinto del relativo importo. È questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 12541 pubblicata in data 17 marzo 2014. Nel caso di specie l’indagata di reato di truffa allo Stato aveva proposto ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza del giudice del riesame che a sua volta aveva rigettato il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso sui beni mobili, immobili e disponibilità finanziarie dell’indagata fino a concorrenza del debito. La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sull’ordinanza, richiamando una sua precedente giurisprudenza, ha dichiarato legittimo il sequestro, ma solo nei limiti di un quinto, ribadendo che il sequestro preventivo, funzionale alla successiva confisca dei beni costituenti il prezzo o il profitto dei reati commessi in pregiudizio della pubblica amministrazione, deve essere consentito solo nei limiti del quinto del relativo importo. È questa una regola generale desumibile dall’art. 1 D.P.R. n. 180 del 1950 che prevede il divieto di sequestro, pignoramento e cessione di stipendi, salari e pensioni delle pubbliche amministrazioni. Gli Ermellini hanno perciò annullato l’ordinanaza senza rinvio nei limiti dei quattro quinti dei valori sottratti all’indagata dalla data del sequestro e dichiarato inammissibile il ricorso per il resto.  ...

IL PROFESSIONISTA DELEGATO NON È UN SEMPLICE ESECUTORE DELLE DIRETTIVE IMPARTITE DAL GIUDICE DELL’ESECUZIONE

Lun, 31/03/2014 - 14:30
La legge n.80 del 2005 ha riformato l’art. 591 bis cpc che, da una parte, ha consentito l’accesso della delega alle operazioni di vendita a nuove categorie di professionisti e, dall’altra, ha ampliato il catalogo delle attività delegabili al professionisti,  a cui è demandato l’intero sub procedimento, di cui si compone la vendita, comprensivo degli esperimenti di vendita senza e con incanto e di tutte le attività collaterali volte a trasformare in denaro il compendio pignorato. Se già nel vigore della disciplina dettata dalla legge 302/98 poteva affermarsi che il ruolo del notaio delegato non era quello di un semplice esecutore delle direttive impartite dal Giudice dell’Esecuzione ma di un vero e proprio sostituto di quest’ultimo, tale conclusione, a seguito della riforma del 2005, va ulteriormente ribadita alla luce dei nuovi compiti del professionista. Il delegato deve esaminare la documentazione in atti, effettuare i riscontri incrociati di carattere documentale tra le emergenze istruttorie a sua disposizione, perché eventuali violazioni ad opera del creditore procedente ovvero dell’esperto stimatore possono incidere sul corretto svolgimento della procedura, sulla informazione dei potenziali offerenti e sulla formazione della volontà delle relative offerte, e, in caso di incongruenze, relazionare al Giudice dell’Esecuzione, a cui spetta - comunque - dirigere l’operato del professionista ed intervenire nel caso di adempimento non corretto della funzione della delega mediante lo strumento della revoca. Tale funzione sostitutiva comporta che il professionista debba farsi carico in prima persona di tutte le questioni di ordine pratico o giuridico, che possono presentarsi nel corso della procedura, non essendo possibile immaginarlo alla stregua di un esecutore di ordini altrui. La valorizzazione della delega costituisce un indubbio vantaggio per il settore delle procedure esecutive, che si traduce non solo nella notevole contrazione dei tempi complessivi di esaurimento delle singole operazioni delle procedure ma anche nella maggiore qualità generale del servizio offerto dal sistema delle esecuzioni civili, contribuendo a equiparare la vendita coattiva a quella non coattiva, basti pensare alla possibilità di visionare l’immobile prima dell’acquisto o al numero sempre crescente degli uffici delegati alla vendita, che garantisce una presenza capillare sul territorio di sportelli al pubblico, a cui rivolgersi per chiedere informazioni senza necessità di passare per le cancellerie ed i magistrati e che, quindi, crea un formalismo più familiare al cittadino....

FALLIMENTO: per l’ammissione al passivo di un credito tributario è sufficiente il solo ruolo

Lun, 31/03/2014 - 10:11
L’agente della riscossione può chiedere l’ammissione al passivo del fallimento sulla base del ruolo, non occorrendo la previa notificazione della cartella di pagamento. Il giudice delegato è privo di giurisdizione sulle contestazioni del credito tributario, anche quando è eccepita dal curatore la decadenza prevista dall’art. 25 D.P.R. 602/1973. Perciò, il giudice delegato è tenuto in ogni caso ad ammettere l’agente della riscossione al passivo fallimentare, seppure con la riserva di cui all’art. 88 D.P.R. 602/1973; le contestazioni del curatore fallimentare devono essere tempestivamente dedotte in un giudizio innanzi al giudice tributario. Sono questi i principi espressi dal Tribunale di Reggio Emilia, Giudice estensore dott. Giovanni Fanticini con decreto del 26.03.2014.  Il caso trae origine da un opposizione ex art.98 LF ove l’esattore lamentava la mancata ammissione al passivo del fallimento escluso per intervenuta decadenza ex art. 25 Dpr 600/1973 (la cui norma  disciplina i termini entro i quali l’Agente della Riscossione deve, “a pena di decadenza”, notificare al debitore la cartella di pagamento - da cui ne consegue la decadenza dalla possibilità di agire in executivis). Con detto decreto il Tribunale ha esaminato la peculiare situazione che si ingenera con l’insinuazione al passivo fallimentare di un credito tributario il quale, se da un lato deve necessariamente sottostare alle regole del concorso (tramite il deposito della domanda di ammissione al passivo), dall’altro sarà regolata dalla giurisdizione tributaria la quale stabilisce espressamente che (ai sensi del combinato disposto degli artt. 87 comma 2° e 88 comma 1° D.P.R. 602/1973) in caso di contestazioni sulla sussistenza del credito azionato dall’Agente della Riscossione,il sindacato ex art. 95 comma 3° L.F. sulla fondatezza delle contestazioni è eccezionalmente sottratto al Giudice Delegato. Le disposizioni del D.P.R. 602/1973 dettano dunque una disciplina peculiare e distinta per l’insinuazione al passivo fallimentare avente ad oggetto crediti tributari, infatti, l’art. 87 comma 2° prevede che l’Agente della Riscossione avanzi la domanda di ammissione al passivo “sulla base del ruolo”, prescindendo dunque dalla notifica della cartella (cfr. Cassazione civile 28.01.2014 n. 1752 e  ; nonché Cassazione civile, sezione sesta 10-12-2012 n.22437, già oggetto di approfondimento sulla rivista). Il diverso trattamento trova fondamento nella differente situazione del debitore in quanto nell’un caso lo stesso non può essere esposto sine die alle pretese esecutive dell’Amministrazione finanziaria azionate dall’Agente della Riscossione; dall’altro invece la notificazione della cartella si rende superflua ai fini dell’ammissione al passivo atteso che non vi è il rischio di azioni esecutive individuali (stante il divieto ex art. 51 L.F.). Il collegio spiega inoltre che l’eccezione di decadenza ex art. 25 D.P.R. 602/1973 (di cui si duole l’odierno ricorrente) non è automatica conseguenza dell’omessa notifica delle cartelle nei termini prescritti ma deve essere eccepita e fatta valere mediante tempestiva impugnazione la quale deve essere svolta dal Curatore fallimentare. Spetta a quest’ultimo, infatti, muovere le contestazioni sul credito azionato dall’agenzia delle entrate e non già proponendone l’esclusione dal passivo fallimentare, bensì avanzando istanza di sua ammissione con riserva ex art. 88 D.P.R. 602/1973 per adire, nel contempo, il Giudice Tributario sollevando la questione inerente il mancato rispetto dei termini ex art. 25 D.P.R. 602/1973. Non è tuttavia compito del collegio pronunciarsi sulla attività del curatore, atteso che la pronuncia riguarda soltanto l’esclusione dallo stato passivo che, per quanto sopra esposto, non appare corretta, poiché si sarebbe dovuto ammettere con riserva il credito predetto da cui ne consegue l’ammissione al passivo del fallimento....

ORDINANZA - FILTRO IN APPELLO: condizioni per il ricorso per cassazione

Ven, 28/03/2014 - 17:52
L’ordinanza di inammissibilità dell’appello pronunziata, al di fuori dei casi previsti dalla legge processuale, per sanzionare l’aspecificità dell’impugnazione e, quindi, per il riscontro di una questione pregiudiziale di rito di carattere impediente attinente alla forma dell’atto di appello, è impugnabile con il ricorso per cassazione. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione seconda, con ordinanza n.7273 pronunziata in data 27/03/2014 in materia di inammissibilità dell’appello ex articolo 348 bis cpc, introdotto dall’art.54 del decreto legge 83/12. Nel caso di specie, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza – filtro di inammissibilità ex art.348 cpc atteso che la stessa era stata pronunziata non per confermare una sentenza “giusta”, tesa a rilevare che l’appello risultasse a prima vista destituito di ogni fondamento, bensì per decidere una questione attinente propriamente al mezzo di impugnazione, che si pone a monte del merito dell’appello, ossia per dichiarare una inammissibilità per ragioni processuali.  In motivazione, i Giudici di legittimità hanno ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione in considerazione del fatto, da un lato, che l’ordinanza-filtro ha carattere definitivo perché il soccombente che propone ricorso per cassazione non può far valere censure attinenti all’error in procedendo commesso dal giudice d’appello nel non dare ingresso all’impugnazione per una questione pregiudiziale attinente al processo e, dall’altro, perchè l’ordinanza di inammissibilità fondata su una questione di rito è una sentenza in senso sostanziale. Gli ermellini hanno poi precisato che l’ordinanza di inammissibilità, qualora emanata entro il suo ambito applicativo proprio, ovverosia fuori dei casi in cui debba essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello e quando l’impugnazione non abbia una ragionevole probabilità di essere accolta, non lascia spazio ad un’autonoma ricorribilità per cassazione della stessa, neppure con il ricorso straordinario ex art.111 Cost, in considerazione del fatto che, una volta emessa l’ordinanza di inammissibilità, il ricorso può comunque essere rivolto contro il provvedimento di primo grado e ciò risulta esaustivo. Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione civile ha accolto il ricorso e cassato il provvedimento impugnato, rinviando la causa ad altra sezione della Corte di Appello territorialmente competente....

CREDITO FONDIARIO EX D.P.R. del 1976 n.7: effetti del rinnovo dell’ipoteca oltre il ventennio

Ven, 28/03/2014 - 17:07
Nel caso di mutuo fondiario stipulato in data 21.01.1991 è applicabile “ratione temporis” la disciplina prevista dall’art 4 DPR del 1976 n. 7 che prevede per le iscrizioni ipotecarie il rinnovo d’ufficio da parte dei conservatori dei registri immobiliari nei modi e nei termini stabiliti dalla legge nonché il diritto dell’ente, in ogni tempo, di conseguire senza spese la rinnovazione delle ipoteche, fermo restando la responsabilità dei conservatori per la rinnovazione d’ufficio. La norma di cui all’art. 4 del detto D.P.R., secondo cui l'ente ha diritto in ogni tempo di conseguire senza spese la rinnovazione delle ipoteche, vuole statuire, in deroga agli artt. 2847 e 2848 c.c., un'ulteriore salvaguardia per tale rinnovazione, conseguibile in favore dell'"ente" in ogni tempo, senza pregiudizio per il grado già acquisito, non solo entro il ventennio dalla prima iscrizione, come disciplinato dal c.c. Con detta disciplina il legislatore ha voluto salvaguardare la disciplina dei mutui fondiari prevedendo una serie di deroghe alla disciplina generale. Nel caso di specie, una Banca, creditrice ipotecaria in virtù di contratto di mutuo fondiario, presentava reclamo avverso il decreto con il quale il Tribunale non aveva riconosciuto il diritto alla rinnovazione ipotecaria oltre il ventennio, sulla base di quanto stabilito dall’art. 2847 c.c., accettava con riserva la detta richiesta sul presupposto che trascorso il ventennio era necessario procedere a nuova iscrizione. In giudizio la Banca sosteneva l’inapplicabilità degli artt. 2847 e 2848 c.c. al caso di specie in quanto, essendo un istituto bancario a richiedere la rinnovazione, la norma di riferimento doveva essere quella di cui all’art. 4, comma 3, D.P.R. 7/76, secondo la quale la rinnovazione dell’ipoteca deve essere consentita alla banca “in ogni tempo”. L’inciso del detto comma 3, secondo cui l’ente ha diritto in ogni tempo di conseguire senza spese la rinnovazione delle ipoteche, vuole statuire, in deroga agli artt. 2847 e 2848 c.c., un ulteriore salvaguardia per tale rinnovazione, conseguibile in favore dell’ente in ogni tempo, senza pregiudizio per il grado già acquisito, non solo entro il ventennio dalla prima iscrizione, come disciplinato dalle norme codicistiche. La Corte di Appello di Roma ha osservato che l’art. 4, comma 3 del D.P.R. n.7 del 1976 non ha alcuna funzione ricognitiva della norma del codice come ha ritenuto il Giudice di primo grado perché altrimenti non avrebbe avuto alcuna ragione di essere emanata. La Corte territoriale ha perciò accolto il reclamo e ordinato al Conservatore il rinnovo dell’iscrizione ipotecaria con sentenza emessa in data 11 marzo 2014. Infine, nella materia in esame, il particolare rito previsto dagli artt. 739 c.p.c. e 113 ter disp. attuaz. c.c. non prevede l’impugnazione innanzi la Corte di Cassazione e, dunque, la sentenza di cui sopra è definitiva e consente alla Banca di conservare la garanzia reale posta a presidio del proprio credito. In conclusione per le ipoteche di cui alla disciplina ex D.P.R. 7/1976 è possibile il rinnovo oltre i 20 anni senza perdere il grado ipotecario. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al seguente articolo di questa rivista: ESECUZIONE FORZATA: EFFETTI DEL MANCATO RINNOVO DELL’IPOTECA PER DECORSO DEL TERMINE VENTENNALE La procedura esecutiva nei confronti del debitore proprietario del bene prosegue ma il creditore perde il privilegio ipotecario. Sentenza | Corte di cassazione, terza sezione civile | 05-02-2014 | n.2610...

GRATUITO PATROCINIO – RIMBORSO SPESE LEGALI - IMPUTATO

Ven, 28/03/2014 - 15:44
Nel processo penale, vi è necessaria coincidenza tra la somma liquidata dal giudice, con la sentenza di condanna dell’imputato, a titolo di rimborso delle spese legali di parte civile ammessa al patrocinio a spese pubbliche, e quella liquidata, con successivo decreto, a beneficio del difensore di tale parte e poste a carico dell’erario. Il giudice è tenuto a fare applicazione dell’art. 82 D.P.R. n° 115/02 sin dal momento della pronuncia del dispositivo. Sono questi i principi sottesi all’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma, nella persona del dott. Francesco Crisafulli, il 27/03/2014, nell’ambito di un giudizio di opposizione avverso il decreto con cui il Giudice di merito aveva liquidato gli onorari all’avvocato di un fallimento ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Nel caso di specie, il Giudice di merito nel procedere alla liquidazione delle spese a carico del soccombente in un giudizio penale, decurtava dalla somma dovuta come onorario del professionista, difensore della parte vittoriosa, la metà dei compensi, con un conseguente depauperamento in misura doppia rispetto alla somma necessaria per retribuire l’avversario. La questione ruota intorno all’ammissibilità che la parte privata sia condannata al pagamento di un importo superiore a quello che lo Stato effettivamente corrisponderà al difensore del beneficiato, ovvero se il Giudice di merito debba uniformarsi all’interpretazione che del complesso normativo di cui agli artt. 82 e 130 D.P.R n.115/02 ha adottato la Corte di Cassazione con le sue pronunce in materia. Ebbene, il Tribunale di Roma ha stabilito che il Giudice di merito, nel liquidare le spese processuali a carico del soccombente, deve applicare le disposizioni pertinenti del D.P.R n.115/02, sulla base del principio secondo il quale «quando il giudice del processo penale condanna l'imputato alla rifusione integrale delle spese legali sostenute dalla parte civile, ammessa al beneficio del patrocinio a spese pubbliche, la somma che l'imputato deve rifondere in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore; essa va pertanto subito determinata secondo i parametri di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82» (Corte di cassazione, Sezione VI penale sentenza n° 46537 dell’8/11/2011 (depositata il 14/12/2011)).  Il Collegio ha aggiunto, inoltre, che nella sentenza con la quale il giudice liquida le spese di lite a carico del soccombente condannando lo stesso al relativo pagamento a favore dell’erario (per essere la parte vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato), deve tenere conto della concessione del suddetto beneficio e deve, già in quella sede, rispettare il limite dei valori medi, in applicazione dell’art. 82, ed operare, ex art. 130 D.P.R. n° 115/02, in materia civile, la decurtazione del 50% della somma complessiva liquidata. E che, nel successivo provvedimento di liquidazione a favore del professionista, il magistrato dovrà poi attenersi alla somma così precedentemente determinata, già rispettosa dei parametri imposti dal testo unico sulle spese di giustizia. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale di Roma ha, dunque, accolto l’opposizione e revocato il decreto opposto liquidando in favore dell’avvocato l’importo già determinato nella sentenza n.9090/ 2012 dallo stesso Tribunale....

TASSAZIONE DECRETO INGIUNTIVO: la registrazione è a tassa fissa anche in presenza di fideiussori

Gio, 27/03/2014 - 10:55
Ai fini dell'imposta di registro, il decreto ingiuntivo che condanni sia il debitore principale che il fideiussore al pagamento di una determinata somma non è soggetto a duplice tassazione, in relazione alla duplicità delle condanne, avendo il decreto un unico effetto giuridico, consistente nella condanna di più soggetti, in via alternativa, al pagamento della stessa somma. Il decreto ingiuntivo esecutivo, che un istituto di credito ottenga per il recupero delle somme dovutegli sulla scorta di finanziamento, configura condanna ad un pagamento soggetto all'Iva (artt. 3 e 6 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) e pertanto, ai sensi dell'art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986 e della nota II dell'art. 8 della relativa Tariffa, deve essere applicata la tassa fissa di registro, senza che rilevi l'indirizzarsi dell'ingiunzione contro il solo debitore principale o il solo fideiussore, ovvero contro entrambi.  Così si è espressa la Commissione Regionale di Napoli con sentenza n. 1698/46/14, depositata in data 18/02/2014, in materia di tassazione. Nel caso di specie, una banca otteneva un decreto ingiuntivo in danno di una società nonché dei suoi fideiussori, lo stesso decreto ingiuntivo, poi, veniva tassato con imposta proporzionale relativamente al valore massimo della fideiussione azionata. La banca, proponeva, dunque, vittorioso ricorso dinnanzi alla Commissione tributaria di Caserta la quale riconosceva che la tassazione doveva essere applicata in maniera fissa in quanto il rapporto principale era sottoposto ad IVA, per cui la duplicità della tassazione del decreto ingiuntivo era da considerarsi illegittima, in quanto volto a colpire due volte la medesima somma e dunque, in palese violazione del principio dell’alternatività tra IVA ed imposta di registro. Avverso detta decisione aveva presentato appello davanti alla Commissione Tributaria Regionale, l’Agenzia delle Entrate, sostenendo che nel caso di specie non si applicasse il principio dell'alternatività.  La Commissione Regionale chiamata a pronunciarsi in merito al caso de quo, ha confermato la sentenza di primo grado, anche alla luce di una ormai costante giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale fa leva sul carattere unitario dell’obbligazione che investe non solo la garanzia accessoria ma anche gli interessi moratori e che, di conseguenza, non possono essere oggetto di separata tassazione. Per maggiori approfondimenti sull’argomento si rinvia ai seguenti articoli di questa rivista: TASSAZIONE ATTI GIUDIZIARI: IL DECRETO INGIUNTIVO CON FIDEIUSSIONE È SOGGETTO A TASSAZIONE PROPORZIONALE la corte contraddice senza motivazione il precedente orientamento TASSAZIONE DECRETO INGIUNTIVO – BANCHE – LE NUOVE DECISIONI l’imposta di registrazione è a tassa fissa anche in presenza di fideiussione TASSAZIONE DECRETO INGIUNTIVO: NESSUNA DUPLICAZIONE DI IMPOSTA non si applica l’imposta proporzionale anche in presenza di una ingiunzione multipla TASSAZIONE ATTI GIUDIZIARI - DECRETI INGIUNTIVI – BANCHE la condanna del debitore principale e del fideiussore richiede l’applicazione dell’imposta fissa e non proporzionale BANCHE: LA REGISTRAZIONE DEL DECRETO INGIUNTIVO È A TASSA FISSA ANCHE IN PRESENZA DI UN FIDEIUSSORE l’imposta di registro è a tassa fissa, avendo il decreto ingiuntivo un unico effetto giuridico, consistente nella condanna di più soggetti, in via alternativa, al pagamento della stessa somma...

Fideiussione omnibus: è contratto autonomo di garanzia se vi sono le clausole "a prima richiesta" e "senza eccezioni"

Gio, 27/03/2014 - 10:12
L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento "a prima richiesta” e “senza eccezioni" vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione, salvo quando vi sia un'evidente discrasia rispetto all'intero contenuto della convenzione negoziale. Questo il principio nuovamente affermato dal Tribunale di Napoli, II sezione civile, Giudice dott.ssa Fausta Como, sentenza n.4037 del 13/03/2014, che conferma l’unanime e costante orientamento anche della giurisprudenza di merito e di legittimità di ritenere la fideiussione cd omnibus quale contratto autonomo di garanzia. La qualità  di contratto autonomo di garanzia è stata affermata dal Giudice con la sentenza in commento, in virtù del tenore delle seguenti pattuizioni e, precisamente: -impegno del fideiussore a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di "annullamento, inefficacia, o revoca dei pagamenti stessi";  -obbligo di garantire le obbligazioni che dovessero essere dichiarate invalide nonchè  di restituire le somme allo stesso erogate; -obbligo del fideiussore di pagare immediatamente alla banca, a semplice richiesta scritta, quanto dovutole per capitale, interessi, spese, tasse ed ogni altro accessorio. Il Giudice partenopeo ha espressamente affermato che la previsione con la quale si sancisce l'obbligo di pagamento del fideiussore pur in presenza dell'invalidità del rapporto garantito, rende manifesta la deroga rispetto al regime proprio della fideiussione codicistica, caratterizzato dal principio dell'accessorietà dell'obbligazione del garante e consacrata nella disposizione di cui all'articolo 1939 cc, secondo cui la fideiussione non è valida se non è valida l'obbligazione principale.  La differenza rispetto al regime della fideiussione tipica per la quale, a norma dell'articolo 1945 cc, il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, è ancora più evidente laddove è inserita la clausola  che imponendo un pagamento immediato, preclude la possibilità di paralizzare l'altrui pretesa creditoria con la formulazione di eccezioni inerenti il debito principale. Con questa clausola – precisa il Giudice –si manifesta, con più evidenza, la causa concreta del negozio autonomo di garanzia, quale individuata dalla richiamata giurisprudenza della Cassazione. Viene, quindi, ancora una volta affermato che il tratto peculiare delle garanzie autonome è quello di porre il creditore al riparo dalle eccezioni spettanti al debitore principale in deroga alla regola  essenziale della fideiussione posta dagli artt. 1945 e 1941 cc, con l'effetto di svincolare la garanzia dalle vicende del rapporto principale e di precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie. Con la sentenza, poi, viene affermato l’obbligo dei garanti di rispondere solidalmente ed illimitatamente delle obbligazioni assunte dalla società in quanto in sede monitoria è stata chiesta e concessa l'ingiunzione degli stessi qualità di  soci illimitatamente responsabili. Il Giudice, quindi, rilevata la presenza  nel contratto di conto corrente garantito della clausola sottoscritta dai soci in quanto illimitatamente responsabili della società con la quale  dichiaravano che qualunque obbligazione assunta nei confronti del Credito Italiano dalla predetta società a qualsiasi titolo e causa, deve intendersi assunta anche dai soci direttamente ed in via solidale, afferma che indipendentemente sia dalla sottoscrizione della predetta clausola sia per gli obblighi assunti con l'atto di fideiussione, gli ingiunti, nella loro qualità di soci di una snc, rispondono, solidalmente ed illimitatamente, delle obbligazioni assunte dalla società in conseguenza della richiesta di ingiunzione anche in tale qualità. Sul valore della fideiussione cd omnibus quale contratto autonomo di garanzia si segnalano le seguenti ulteriori decisioni pubblicate sulla presente rivista: 1.LA FIDEIUSSIONE BANCARIA CON CLAUSOLA DI PAGAMENTO A PRIMA RICHIESTA È UN CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA Sentenza Tribunale di Torre Annunziata, dott. Francesco Coppola 08-01-2014 n.147 2.FIDEIUSSIONE OMNIBUS: IL CONTRATTO DI GARANZIA È AUTONOMO RISPETTO ALLA VALIDITÀ DEL CONTRATTO GARANTITO Sentenza Tribunale di Napoli, sesta sezione civile 11-02-2014 n.2133 3.FIDEIUSSIONE OMNIBUS: OBBLIGO DEL PAGAMENTO IMMEDIATO SENZA CONDIZIONI Sentenza Corte d’Appello di Napoli, seconda sezione civile, Pres. Dott.ssa Rosaria Papa 08-01-2014 n.62 4.FIDEIUSSIONE BANCARIA: IL GARANTE NON PUÒ OPPORRE ECCEZIONI RELATIVE AL RAPPORTO FONDAMENTALE Sentenza Tribunale di Napoli, seconda sezione civile, dott. Mario Suriano 10-10-2013 n.11972 5.FIDEIUSSIONE BANCARIA: L’ASSENZA DELL’ELEMENTO DELL’ACCESSORIETÀ CONFIGURA UN CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA Sentenza Tribunale di Napoli, dott.ssa Anna Maria Pezzullo 30-09-2013 n. 10750 6.FIDEIUSSIONE OMNIBUS: LA RILEVANZA DELLE CLAUSOLE DI PAGAMENTO “A PRIMA RICHIESTA” Sentenza Tribunale di Napoli, sezione nona, dott.ssa Carla Sorrentini 02-04-2013 n. 4204 7.LA FIDEIUSSIONE OMNIBUS HA VALORE DI CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA C.D.GARANTIEVERTRAG Sentenza Tribunale di Napoli, sezione terza, dottor Massimiliano Sacchi 06-05-2013 n. 5783...

OBBLIGAZIONI LEHMAN: la Banca non ha obbligo di assistenza se il cliente ha la conoscenza media

Mer, 26/03/2014 - 15:02
In materia di negoziazione di strumenti finanziari quali le obbligazioni Lehman Brothers la Banca non commette violazione del dovere di assistenza ed informazione sulla natura e i rischi dell’investimento  se è provato che l’operazione consigliata è appropriata alle conoscenze ed alla esperienza specifica del cliente. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni di investimento finanziario può determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c.. La detta violazione dei doveri posti a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione o può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d'investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione.  Sono questi i principi affermati dal Tribunale di Milano, sesta sezione civile, in Giudice dott. Antonio S. Stefani, che con sentenza del 15 marzo 2014 che ha ancora una volta confermato l’orientamento costante ed unanime assunto dalla  giurisprudenza in tema di responsabilità ed obblighi nelle operazioni di investimento. Nel caso di specie i due clienti di una Banca avevano stipulato un contratto per l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers e, con il giudizio introdotto, hanno proposto una prima domanda diretta alla declaratoria di nullità  o inesistenza del contratto quadro di negoziazione di strumenti finanziari per difetto di forma e conseguente nullità dell’ordine di acquisto con richiesta di restituzione del capitale investito e, in via alternativa, contestando di non aver ricevuto, prima dell’acquisto, informazioni specifiche sulla natura, i rischi e le implicazioni dell’investimento in violazione degli obblighi di cui al Regolamento Consob 16190/2007, hanno chiesto il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale o, comunque, contrattuale. Per il rigetto della domanda di nullità, il Tribunale ha accertato che il contratto quadro è stato redatto in forma scritta con il conseguente rispetto dell’art. 23 TUF attesa la produzione da parte della Banca del contratto definito di “deposito, amministrazione, negoziazione, recezione e trasmissione di ordini su titoli e strumenti finanziari” sottoscritto dai clienti quale “copia per la banca” e il documento attestante la recezione di una copia dello stesso. Quanto alla domanda di risarcimento per violazione degli obblighi di condotta imposto dal TUF e dal Regolamento Consob 16190/2007, tale doglianza è stata disattesa dal Tribunale sul rilievo che gli attori – sempre come provato dalla Banca - avevano una conoscenza media degli strumenti finanziari e che l’operazione oggetto di causa  era appropriata all’esperienza degli stessi  sia in ragione della professione svolta essendo dipendenti della medesima banca, sia perchè dagli estratti conto risultava che avevano già eseguito, antecedentemente all’ordine di acquisto della obbligazioni Lehman Brothers, investimenti per somme anche maggiori in obbligazioni emesse sempre da Banche americane, il cui rating era coerente con un profilo finanziario prudente. Il Giudice meneghino ha ritenuto, infatti,  provato da dette circostanze l’adempimento degli obblighi imposti alla Banca consistenti nell’onere di valutazione in ordine alla appropriatezza dell’operazione sulla base del livello di esperienza e di conoscenza del cliente ai sensi dell’art. 42 del Regolamento Consob 16190/2007. Gli attori, poi, avevano, altresì,  lamentato, a fondamento della domanda di risarcimento, l’omessa informazione da parte della Banca relativamente all’andamento del titolo nel corso del rapporto. Il Tribunale, affermando preliminarmente  che l’obbligo innanzi indicato non sussiste a livello normativo nel caso di negoziazione di un ordine di acquisto, rileva che a livello contrattuale le parti avevano previsto che il cliente sarebbe stato tempestivamente informato dell’eventuale variazione significativa del livello di rischio. In ordine al rilievo della violazione dell'obbligo dell'intermediario di informare il cliente circa l'aumento del livello di rischiosità dei titoli verificatosi in epoca successiva all'acquisto, è appena il caso di richiamare l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di merito secondo cui, quando non sia stato concluso fra intermediario e investitore un contratto di consulenza o di gestione patrimoniale, gli obblighi informativi sulla natura e le caratteristiche dei titoli sussistono soltanto fino al momento dell'investimento (Trib. Trapani, 03/04/2013, Trib. Torino 14.2.2012 e 22.12.201; Trib. Arezzo 10.2.2009, Trib. Parma 9.1.2008; Trib. Milano 18.10.2006; Trib. Modena 20.1.2006; Trib. Catania 22.11.2005), con la conseguenza che l'intermediario non è tenuto a informare l'investitore della perdita di valore o dell'aumento di rischiosità dei titoli verificatisi in data successiva all'acquisto. Ad ogni modo, nel caso in esame, il Giudice ha ritenuto non sussistere l’inadempimento da parte della Banca neanche degli innanzi indicati obblighi contrattuali. Parte attrice ha sostenuto, infatti, che la Banca avrebbe dovuto ugualmente e in via autonoma conoscere e segnalare l’aggravamento del rischio sulla base di articoli del New  York Times, relativi anche ad ingenti perdite, e all’incremento delle quotazioni dei credit default swap.  Il Tribunale ha ritenuto tali elementi definiti “settoriali” non idonei a poter superare i giudizi emessi dalle principali agenzie internazionali di rating che riportavano una valutazione altamente positiva delle obbligazioni LB fino al 15/9/2008 e, precisamente, fino al default Moody’s attribuiva alla società un rating A2 e Standard & Poor’s un rating A, valutando da parte della Banca corretto, in un giudizio necessariamente ex ante, e non alla luce di quanto poi avvenuto, attribuire maggiore rilevanza  e attendibilità ai ratings emessi, piuttosto che a notizie di stampa non specializzata. La sentenza in commento, quindi, nel ritenere infondate le doglianze degli investitori legittimamente ha accertato, con decisione logica e motivata, la insussistenza di responsabilità della Banca nella negoziazione di strumenti finanziari conformemente all’orientamento giurisprudenziale formatosi sia in sede di merito che di legittimità. In sintesi principi affermati dalla sentenza sono i seguenti: - contratto quadro valido anche se la copia è sottoscritta solo dal cliente; - onere di valutazione dell’appropriatezza dell’operazione sulla base del livello di esperienza e di conoscenza del cliente; - obblighi informativi sulla natura e le caratteristiche dei titoli solo fino al momento dell'investimento e non anche sull'aumento di rischiosità dei titoli verificatisi in data successiva all'acquisto. Per ulteriori approfondimenti in merito alle operazioni Lehman Brothers si rinvia ai seguenti articoli: LEHMAN BROTHERS: non era prevedibile il fallimento nel 2008 Non sussiste responsabilità per la Banca che abbia adeguatamente informato l’investitore. Sentenza | Tribunale di Pordenone - Dott.ssa Martina Gasparini | 08-11-2013 | n.898 Obbligazioni Lehman Brothers: l' investimento era affidabile fino al 15/09/2008! Imprevedibilità del default per assoluta mancanza di circostanze obiettivamente ed univocamente attestanti il rischio di insolvenza. Sentenza | Tribunale di Roma, terza sezione civile – GU dr.ssa Clelia Buonocore - | 12-06-2013 | n.12766 LEHMAN BROTHERS : l’onere della prova ai fini della applicazione dell’art. 100 bis tuf è a carico dell’investitore Rivendita sistematica di obbligazioni ad operatori non qualificati entro 12 mesi dall’acquisto. Sentenza | Tribunale di Roma, Pres. Dr. Cardinali, rel. Dr.ssa Buonocore, giudice dr. Garri | 25-06-2013 | n.13853  LEHMAN BROTHERS: l’investitore ha l’onere di dimostrare la mancata informazione della banca La banca è immune da censure se non è dimostrato che disponeva di inequivoche informazioni sulla variazione significativa del valore di rischio delle obbligazioni. Sentenza | Tribunale di Roma, G.U. dott. Stefano Cardinali | 11-01-2013 | n.489 ...

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