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Aggiornato: 2 min 27 sec fa

AMMISSIONE AL PASSIVO: il credito del professionista è prededucibile se la domanda di concordato viene ammessa

Mar, 04/02/2014 - 18:42
In materia di riconoscimento della prededuzione, di cui all'art. 111, secondo comma LF, i professionisti incaricati a predisporre la proposta di concordato preventivo rientrano nella detta categoria in quanto abbiano portato alla ammissione del concordato preventivo. In tal modo viene, infatti, rispettato il criterio finalistico dell’istituto atteso che  da un lato, vi è il collegamento tra l´attività professionale e la procedura concordataria e, dall´altro, è soddisfatto l´interesse creditorio, coincidente con la attribuzione della facoltà di accedere alla procedura concorsuale alternativa al fallimento. Questo il principio espresso dal Giudice Delegato dott. Mauro Martinelli, del Tribunale di Rovigo, nel verbale di stato passivo dichiarato esecutivo in data 12/12/2013.  L’adito Giudicante si è cosi pronunciato su un tema molto controverso esaminando con attenzione le ipotesi in cui l’attività dei professionisti incaricati alla predisposizione della procedura concordataria sia da ricondurre nella categoria dei crediti prededucibili. Ed invero,  precisa il Giudice che laddove la mancata omologazione del concordato sia dipesa da una libera scelta dei creditori, tale comportamento non pregiudica la funzionalità della prestazione professionale, né la sua utilità, nei termini specificati tale per cui la prededuzione dovrà essere comunque riconosciuta. Diversamente  non può riconoscersi la prededuzione nell'ipotesi in cui la mancata omologazione dipende da una negativa valutazione sulla fattibilità giuridica o economica, nei limiti consentiti al Tribunale, e tanto in virtù dell'insegnamento della Suprema Corte; cfr. Cass., S.U. 23 gennaio 2013, n. 1521 Ugualmente non si riconosce la prededuzione per le attività professionali prestate nell´interesse del debitore, che non abbiano portato al deposito di una proposta concordataria poi ammessa, poiché mancherebbe la "funzionalità" richiesta dall´art. 111, II comma l.f. Se è vero, infatti, che con il solo deposito della domanda di autorizzazione alla presentazione della proposta concordataria da parte di una società, che già si trova in stato di insolvenza, deriva quel collegamento funzionale-temporale che giustifica la retrodatazione degli effetti in chiave di tutela del ceto creditorio e rispetto della par condicio creditorum, altrettanto non può affermarsi per riconoscere al professionista la prededuzione in mancanza di una utilità dei creditori intesa, quale opportunità di soddisfazione del credito nell'ambito della procedura di conocrdato preventivo. Il riconoscimento della prededuzione a tali crediti trae origine anche dalla valorizzazione dell´abrogazione dellart. 182 quater, IV comma l.f. - che prevedeva espressamente la prededucibilità dei compensi spettanti al professionista incaricato di predisporre la relazione di cui agli artt. 161, III comma e 182 bis I comma l.f.. Ed invero, l´abrogazione della detta norma di certo non può essere considerata esclusione della prededuzione per un soggetto che è sempre stato equiparato ad un ausiliario giudiziale, ma l´espressione di una precisa scelta ermeneutica operata dal legislatore: l´elisione di un'endiadi, visto il portato dell´art. 111, II comma l.f., e l'esplicitazione di una volontà ampliativa del beneficio della prededuzione anche alle altre figure professionali coinvolte nella predisposizione del concordato, istituto rivitalizzato dal legislatore ed il cui accesso ha evidentemente voluto favorire. Inoltre, il conferimento di un incarico professionale, successivamente al deposito della domanda in bianco, deve ritenersi atto di straordinaria amministrazione poiché, pur avendo una valenza conservativa del patrimonio, è destinato ad incidere sensibilmente sull'attivo e richiede una valutazione di congruità e opportunità da parte del Tribunale, anche perché non rientrante negli "atti necessitati" per lo svolgimento della attività aziendale. Proprio in virtù delle medesime considerazioni giuridiche, deve, invece, essere riconosciuta la prededuzione per i compensi spettanti per la attività professionale di presentazione della domanda di fallimento, poiché si ritiene di aderire alla tesi giurisprudenziale che impone la difesa tecnica per la domanda de qua, in assenza di espressa deroga normativa all'art. 82 c.p.c. il Giudice, pertanto, ammette nei termini indicati dalla proposta del curatore, oltre interessi ex art. 54 l.f. in privilegio....

IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: il risarcimento spetta anche al contumace

Mar, 04/02/2014 - 18:16
Anche il contumace ha diritto ad essere risarcito per il danno da irragionevole durata del processo. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile a sezioni unite con ordinanza n. 585 pronunziata in data 14/01/2014 in materia di risarcimento per irragionevole durata del processo. Nel caso di specie, il ricorrente aveva impugnato il decreto della Corte d’Appello che aveva accolto parzialmente la sua domanda di risarcimento del danno da irragionevole durata del processo in una causa civile di divisione ereditaria.  In particolare, i giudici di merito avevano commisurato l’indennizzo sulla base del tempo intercorso dal momento della costituzione in giudizio del ricorrente, mentre non avevano tenuto conto del lungo periodo antecedente a quella data, in cui lo stesso era rimasto contumace. Ebbene, i giudici di legittimità, chiamati a pronunziarsi sul caso de quo, hanno ritenuto che anche alla parte processuale rimasta contumace debba riconoscersi equa riparazione per irragionevole durata del processo atteso che “…non vi è ragione per negare che anche il contumace possa subire quel disagio psicologico, che normalmente risentono le parti a causa del ritardo eccessivo con cui viene definito il processo che le riguarda…” . In conclusione, dunque, la contumacia della parte non preclude il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per irragionevole durata del processo....

Inammissibilità: il ricorso in per motivi di giurisdizione deve essere presentato contro la sentenza corrispondente

Mar, 04/02/2014 - 16:30
È inammissibile il ricorso in Cassazione avverso sentenza definitiva se i motivi di doglianza riguardino questioni di giurisdizione che siano stati risolti con altra precedente sentenza non definitiva.  È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Civili, con la sentenza n.733 emessa in data 16/01/2014.  Nel caso di specie, un’Ente, a seguito dell’approvazione di una delibera con cui aveva assegnato a due società di credito l’operazione di ristrutturazione di parte del proprio debito per mutui bancari, stipulava con le stesse anche contratti che prevedevano l’emissione di obbligazioni ed operazioni in strumenti finanziari derivati. Successivamente, però, aveva proceduto ad annullare in autotutela le determinazioni a monte dei contratti, sul presupposto che l’intera operazione si era rivelata economicamente inconveniente.  Le due società di credito aveva impugnato innanzi al Tar Toscana i provvedimenti dell’Ente ottenendo che l’annullamento in autotutela non potesse riguardare anche i contratti derivati, ma solo le delibere di affidamento dell’operazione di ristrutturazione del debito. Il Consiglio di Stato, oltre ad accogliere gli appelli delle due società annullando le deliberazioni emesse in autotutela, ha prima pronunciato sentenza non definitiva con la quale risolveva la questione di giurisdizione sollevata dall’Ente affermando la propria competenza anche per quanto atteneva gli effetti di annullamento dei contratti di finanza derivata.   Avverso la sentenza definitiva ricorreva per cassazione il soccombente Ente, dolendosi con unico motivo che il giudice amministrativo avesse "trattato le negoziazioni privatistiche a valle dell'aggiudicazione, palesemente al di fuori della sua giurisdizione" e chiedendo che la sentenza fosse per questo cassata.  La Suprema Corte ha dichiarato  inammissibile il ricorso perché lo stesso era stato presentato contro la sentenza definitiva mentre i motivi di doglianza riguardavano altra sentenza, quella non definitiva. Gli ermellini, inoltre, hanno ricordato che, ai sensi di quanto disposto dal comma 3, art. 360 c.p.c., il ricorso avverso sentenze non definitive è possibile solo dopo che vi sia stata una sentenza di merito, anche parziale, che permettesse, però, di individuare la parte soccombente legittimata ad impugnare. Ancora, secondo quanto disposto dalla giurisprudenza della stessa Corte (ex multis, Cass., sez. un.; nn. 23891/2010, 2755/2012, 9588/2012), l’attesa di una sentenza di merito per l’impugnazione è essenziale perché la soccombenza non deve essere virtuale, ma effettiva, e deve quindi riguardare il fondo della controversia. Nel caso di specie, il ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione poteva essere espletato solo avverso la sentenza non definitiva, ma le condizioni per ricorrere erano date dalla sentenza definitiva.  La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento oltre che delle spese processuali anche di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.1 della legge 228/2012....

Decreto ingiuntivo: effetti della tardiva notifica

Lun, 03/02/2014 - 22:38
A norma dell’art.644 cpc “il decreto d’ingiunzione diventa inefficace qualora la notificazione non sia eseguita nel termine di sessanta giorni dalla pronuncia, se deve avvenire nel territorio della Repubblica, e di novanta giorni negli altri casi; ma la domanda può essere riproposta”.    Tale disposizione può essere esattamente compresa solo se interpretata sistematicamente con altri riferimenti forniti dal codice. In particolare, l’art.188 delle disposizioni di attuazione, il quale, nel disciplinare il procedimento per la dichiarazione di inefficacia del decreto ingiuntivo, così dispone:    “la parte alla quale non è stato notificato il decreto d'ingiunzione nei termini di cui all'articolo 644 del Codice può chiedere con ricorso al giudice che ha pronunciato il decreto che ne dichiari l'inefficacia.  Il giudice fissa con decreto un'udienza per la comparizione delle parti davanti a sé e il termine entro il quale il ricorso e il decreto debbono essere notificati alla controparte. La notificazione è fatta nel domicilio di cui all'articolo 638 del Codice se avviene entro l'anno dalla pronuncia e personalmente alla parte a norma degli articoli 137 e seguenti del Codice se è fatta posteriormente.  Il giudice, sentite le parti, dichiara con ordinanza non impugnabile l'inefficacia del decreto ingiuntivo a tutti gli effetti.  Il rigetto dell'istanza non impedisce alla parte di proporre domanda di dichiarazione d'inefficacia nei modi ordinari”.    Deriva, dal combinato disposto degli articoli appena citati, che l’inefficacia del decreto ingiuntivo non notificato può essere oggetto di specifica pronuncia del Giudice funzionalmente competente, su istanza del debitore ingiunto.    A tal proposito, il tenore dell’art.188 disp.att. cpc va correttamente individuato con riferimento all’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha fornito al riguardo.    Orbene, per costante orientamento (cfr. le sentenze nn. 5447 del 1999, 19239 del 2004, 19799 del 2006; e la sentenza delle Sezioni Unite n. 9938 del 2005), la Cassazione ritiene che il rimedio del ricorso per la dichiarazione di inefficacia del decreto ingiuntivo di cui all’art. 188 disp. att. c.p.c. sia ammesso soltanto con riguardo ai decreti non notificati o la cui notifica sia giuridicamente inesistente, mentre se il decreto è stato notificato, ancorché fuori termine e ancorché la notifica sia nulla, l’unico rimedio consentito all’intimato è quello dell’opposizione ai sensi dell’art. 645 cpc.    Sulla perentorietà del termine di cui all’art.644 cpc si è espresso, tra gli altri, il Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, in persona del dott.Federico Rolfi, con sent. n.134/2003, fornendo un’importante massima, da cui discendono conseguenze rilevanti per un’analisi che si proponga di chiarire quali siano gli effetti di un decreto ingiuntivo notificato tardivamente.    In tale pronuncia, il Giudice ha affermato che, senza alcun dubbio, il termine dei sessanta giorni per la notifica del decreto ingiuntivo va ritenuto perentorio, con la conseguenza che il Giudice non ha il potere di concedere alcuna proroga in favore del ricorrente. Tuttavia, l’eventuale notifica tardiva del provvedimento di ingiunzione non può che esser fatta valere dall’ingiunto nelle forme ordinarie dell’opposizione ex art.645 cpc, da esperirsi nel termine di quaranta giorni dalla conoscenza legale (sebbene oltre il termine prescritto dall’art.644 cpc) del provvedimento.    Tale principio è esattamente coerente con l’orientamento della Corte di legittimità sopra citato.   In sostanza, qualora la notificazione del decreto manchi o sia giuridicamente inesistente, l’ingiunto può utilizzare il celere procedimento previsto dall’art.188 disp.att. cpc, mentre, quando la notifica sia avvenuta regolarmente – sebbene tardivamente – al debitore non resta che agire nelle forme ordinarie dell’opposizione ex art.645 cpc per far valere la perentorietà del termine di cui all’art.644 cpc.    Un’importante conseguenza è subito tratta: il decreto ingiuntivo notificato tardivamente e non opposto nei termini di legge diviene definitivo, non restando al debitore rimedi esperibili per contestare la regolarità della notifica, né – ovviamente – la fondatezza del credito.    Il passaggio successivo del Giudice monzese, il cui orientamento è stato più di recente confermato dalla sentenza n. 21050 del 28-09-2006 della Corte di Cassazione, porta ad un’affermazione di particolare importanza per il ricorrente della fase monitoria: il debitore opponente che si limiti ad eccepire solo l'inefficacia del titolo tardivamente notificato non può impedire, in caso di costituzione e di riproposizione della domanda da parte dell'opposto creditore, che all'eventuale dichiarazione di inefficacia del decreto si accompagni la decisione da parte del giudice dell'opposizione in merito all'esistenza del diritto già fatto valere con il ricorso per ingiunzione.    In altri termini, se il creditore notifica il decreto ingiuntivo oltre il termine dei sessanta giorni ed il debitore eccepisce, nelle forme ordinarie del giudizio di opposizione ex art.645 cpc, l’inefficacia ex art.644 il Giudice dichiarerà sì – verificatane la fondatezza – l’inefficacia del provvedimento monitorio, ma non potrà sottrarsi all’obbligo di pronunciarsi sul merito della pretesa creditoria, se adeguatamente sollecitato dal creditore opposto.    E ciò perché, ha chiarito la Cassazione, con la sentenza n.951 del 16.01.2013, la dichiarazione di inefficacia del provvedimento non tocca, in difetto di previsione in tal senso, la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale; ne deriva che, ove su detta domanda si costituisca il rapporto processuale, ancorché su iniziativa della parte convenuta (in senso sostanziale) la quale eccepisca quell’inefficacia, il giudice adito, alla stregua delle comuni regole del processo di cognizione, ha il potere-dovere non soltanto di vagliare la consistenza dell’eccezione (con le implicazioni in ordine alle spese della fase monitoria), ma anche di decidere sulla fondatezza della pretesa avanzata dal creditore ricorrente (cfr., e plurimis, Cass. nn. 5055/1999, 11915/1990, 7234/1987, 4668/1986, 668/1986, 528/1979).    L’opposizione al decreto ingiuntivo, infatti, dà luogo a un ordinario ed autonomo giudizio di cognizione, come tale esteso all’esame non soltanto delle condizioni di ammissibilità e di validità del procedimento monitorio, ma anche della fondatezza della domanda, sul merito della quale il giudice ha comunque l’obbligo di pronunciarsi, nel senso che deve accoglierla o rigettarla secondo che ritenga provato o non il credito dedotto; e ciò indipendentemente dalla validità, sufficienza e regolarità degli elementi in base ai quali sia stato emesso il decreto ingiuntivo, la cui eventuale insussistenza spiega rilevanza soltanto sul regolamento delle spese della fase monitoria.    Tale principio, si badi, risulta valido perfino nel caso-limite (all’esame della Corte di Cassazione nella pronuncia n.8955 del 18.04.2006) in cui il creditore sia rimasto contumace nel giudizio di opposizione in cui sia dedotta la tardività della notifica, dal momento che la contumacia non implica abdicazione o mutamento dell’originaria domanda (nel caso di specie il creditore aveva fatto seguito alla propria pretesa con la notifica del precetto di pagamento) né può dubitarsi circa l’identità del thema decidendum – delimitato dall’opponente - qualora quest’ultimo abbia prospettato la propria domanda anche quale accertamento negativo della pretesa creditoria.    In altri termini, l’unica conseguenza pregiudizievole per il creditore che abbia notificato tardivamente il decreto ingiuntivo sembra essere quella relativa alla rilevanza della propria condotta ai fini della regolamentazione delle spese della fase monitoria.   ...

Omesso versamento delle ritenute previdenziali: la crisi finanziaria non esclude l’elemento soggettivo del dolo

Lun, 03/02/2014 - 18:30
Lo stato di insolvenza non libera il sostituto d’imposta all'obbligo di corrispondere le ritenute all’Inps. La punibilità della condotta deve essere individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all'Istituto. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, non rileva la circostanza che il datore attraversi una fase di crisi finanziaria.  Sono questi i principi stabiliti dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n.30705 del 28/01/2014. Nella specie il Procuratore generale presso la Corte d’Appello proponeva ricorso per saltum avverso la pronuncia del Tribunale che aveva assolto l’amministratore di una società in difficoltà finanziaria, per il mancato versamento delle ritenute previdenziali sulle retribuzioni ai dipendenti, ritenendo escluso l’elemento soggettivo del reato proprio sulla base di tale criticità finanziaria poi sfociata nel fallimento. Ebbene la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il mancato versamento all’INPS delle suddette ritenute previdenziali da parte della società in crisi configura invece un’ipotesi di reato a dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volontà dell’intero fatto tipico e perfezionato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti.  Il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis , del D.L. n.463/1983 è configurabile, infatti, anche nel caso in cui si accerti l'esistenza del successivo stato di insolvenza dell'imprenditore, in quanto è onere di quest'ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti, in modo da poter adempiere all'obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale pagamento delle retribuzioni medesime ( sul punto cfr. Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 3124 del 23/01/2014. di cui si è già occupata questa rivista). Sulla base di tali argomentazioni il Supremo Collegio ha quindi annullato la sentenza impugnata, ritenendo che lo stato di insolvenza della società e il suo sopravvenuto fallimento non liberano il sostituto d’imposta dall'obbligo di versare le ritenute all'Istituto della previdenza sociale, così come da quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte....

Rimessione della causa in primo grado: solo il litisconsorte necessario pretermesso può chiedere nuove prove

Lun, 03/02/2014 - 17:44
In caso di rimessione della causa dall'appello al primo grado ex art. 353 c.p.c, perché era stato pretermesso un litisconsorte necessario, se questo non svolge nuove difese e non articola mezzi prova, le altre parti non hanno il diritto di articolare mezzi di prova nuovi. È questo il principio di diritto enunciato dal Tribunale di Taranto, seconda sezione, Giudice dott. Claudio Casarano, con l’ordinanza depositata in data 3-02-2014. Nel caso di specie, in primo grado l’usufruttuaria aveva proposto domanda di rilascio di determinati beni, e i convenuti avevano spiegato riconvenzionale per l’accertamento dell’avvenuto acquisto degli stessi per usucapione. Su tale domanda riconvenzionale non venivano, però, chiamati in giudizio i nudi proprietari dei beni oggetto della controversia. Il Giudice dell’Appello, rinvenendo come nullità assoluta l’esclusione in primo grado dei nudi proprietari, rimetteva il giudizio ex art. 353 cpc, dinnanzi al primo Giudice per consentire la partecipazione dei litisconsorti necessari pretermessi. Costituitisi in giudizio gli stessi non avevano articolato nuovi mezzi di prova limitandosi ad aderire alla domanda di rilascio spiegata originariamente dall'usufruttuaria. Alla luce di tale costituzione i convenuti chiedevano nuove prove, all'acquisizione delle quali si opponevano le altre parti. Il Tribunale di Taranto, aderendo ad autorevole giurisprudenza sulla materia, ha stabilito che la pretermissione di una parte, tale da comportare la remissione della causa di nuovo al giudice di primo grado ex art. 353 cpc., implicava una forma di nullità parziale del giudizio di primo grado, e cioè solo nella parte in cui non garantiva la partecipazione anche ad un altro contradditore necessario, al quale, di conseguenza bisognava assicurare la parità d’armi nel processo. L’effettivo diritto di difesa, dunque, spettava alle controparti solo nel caso in cui i nudi proprietari chiedevano nuovi mezzi di prova sui quali gli stessi non avevano avuto possibilità di replica, nel caso contrario si incorreva semplicemente in un’atipica remissione in termini delle parti. In conclusione la parte che chiedeva nuovi mezzi di prova aveva ampiamente esercitato il diritto alla stessa nella precedente fase del giudizio e conseguentemente gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producevano secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni maturate in tale fase. In altri termini, la nullità degli atti del giudizio di primo grado, avutasi per effetto della pretemissione di una parte, non implica la nullità degli atti precedenti che ne siano indipendenti....

MUTUO FONDIARIO: Non è nullo se stipulato per estinguere debiti preesistenti

Lun, 03/02/2014 - 16:44
“Il contratto di mutuo fondiario stipulato allo scopo di estinguere uno o più debiti preesistenti scaduti del mutuatario nei confronti dell'istituto di credito mutuante non è nullo per illiceità della causa, atteso che il mutuo fondiario non costituisce mutuo di scopo e comunque, sotto il profilo causale, il finanziamento si realizza, in tal caso nella forma di dilazionamento di un debito altrimenti immediatamente esigibile. La nullità del contratto può configurarsi solo e alla condizione che i debiti preesistenti fossero illeciti (perché inesistenti o frutto di violazione di norme imperative)”. Per approfondimenti in materia di mutuo fondiario si veda “MUTUO FONDIARIO – CONCORDATO PREVENTIVO – DIVIETO AZIONI ESECUTIVE Nonché MUTUO FONDIARIO: LA VIOLAZIONE DEL LIMITE DI FINANZIABILITA’ NON COSTITUISCE CAUSA DI NULLITA’ DEL CONTRATTO ...

MUTUO: dati catastali errati, notaio condannato al risarcimento

Lun, 03/02/2014 - 15:01
Il notaio che stipula un contratto di mutuo ipotecario, limitandosi a richiamare il titolo di provenienza riportante i dati catastali errati, senza procedere ad effettuare una visura catastale storica, è passibile di responsabilità contrattuale, avendo agito in violazione dell’obbligo di assicurare serietà e certezza dell’atto da rogarsi. Cosi si è pronunziato il Tribunale di Napoli, con sentenza n.1438 del 30 gennaio 2014 giudice dott. Vincenzo Scalzone, il quale ha accolto la domanda proposta in danno del notaio, condannando il predetto al risarcimento dei danni, attesa la errata identificazione del bene ipotecato. In particolare, una banca contestava al notaio di essere stato negligente nella stesura del mutuo ipotecario per avere erroneamente identificato il bene ipotecato, tanto che la procedura esecutiva proposta a seguito dell’inadempimento del mutuatario era stata estinta per erronea identificazione dei dati catastali. Nel corso del processo, il notaio rogante si era difeso eccependo di aver identificato il bene utilizzando i dati catastali indicati nell’atto di provenienza, per cui chiedeva anche l’autorizzazione alla rettifica. Il Tribunale ha richiamato il consolidato orientamento della Cassazione, secondo cui, in sede di preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare da parte del notaio, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, poiché l'opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia assicurata la serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi ed in particolare la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto. L'inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio dà luogo a responsabilità contrattuale  per inadempimento dell'obbligazione di prestazione d'opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale forma di responsabilità. ...

ESECUZIONE FORZATA: la correzione del decreto di trasferimento necessita della partecipazione dell’aggiudicatario

Lun, 03/02/2014 - 12:16
Ogni modifica sostanziale, come la limitazione del suo oggetto, di un decreto di trasferimento (a prescindere dalla sua correttezza e dalle conseguenze in ordine alla stabilità della vendita forzata e dei suoi effetti, nonché dall'individuazione della corretta azione da intraprendere) non è opponibile agli aggiudicatari se questi non sono stati messi in condizione di partecipare al giudizio in cui quella modifica è stata adottata. Così si è pronunziata la Corte di Cassazione Civile, con la sentenza n. 23930 emessa il 22 ottobre 2013, che ha confermato la decisione della Corte di Appello, che – in riforma di quella di primo grado - aveva riconosciuto l'inopponibilità agli aggiudicatari delle modifiche apportate al decreto di trasferimento rese - senza il loro coinvolgimento - in un giudizio diverso da quello in cui si era stato emesso. Conclusa l'esecuzione non vi è più spazio per la tutela del debitore, con definitiva irretrattabilità della vendita forzata in favore dell'aggiudicatario, per cui l’unico rimedio da esperire è la proposizione di un’azione autonoma che coinvolga necessariamente l’acquirente dell’immobile. Il giudice chiamato a decidere sull'opposizione a precetto, infatti, non può compiere valutazioni circa l’esistenza di errori, verificatisi nel processo in cui si era formato il titolo esecutivo,che devono essere contestati in sede di impugnazione del titolo stesso e, dunque, con l’opposizione all’esecuzione. A tale giudizio l’aggiudicatario, diretto destinatario della pronuncia, deve essere messo in condizione di partecipare; in mancanza – infatti -  ogni modifica o correzione è ad esso inopponibile e tanto alla luce del rispetto del principio del contraddittorio....

FALLIMENTO: l’improcedibilità di una azione di condanna va tempestivamente eccepita dalla curatela

Lun, 03/02/2014 - 12:13
Il PRINCIPIO  L'accertamento del credito nei confronti del fallimento è devoluto alla competenza esclusiva del giudice delegato, ai sensi degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare. L'adozione di un rito diverso produce un vizio rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio e determina l'improponibilità della domanda.  In caso di violazione di tale principio, tuttavia, il curatore fallimentare ha onere di eccepire tempestivamente l’improcedibilità della azione al fine evitare la formazione del giudicato implicito sulla proponibilità dell'azione per acquiescenza. Non si può azzerare in sede di giudizio di cassazione una questione di procedibilità dell’azione ove la stessa avrebbe potuto certamente essere proposta nell'atto di appello. IL FATTO Un conduttore di un immobile conveniva in giudizio una società ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ, al fine di ottenere la condanna all'esecuzione di lavori di ripristino del manto di copertura dell'immobile dal quale derivavano infiltrazioni d'acqua, chiedendo la conferma del provvedimento di urgenza. Il giudizio veniva interrotto a seguito della declaratoria di fallimento della società convenuta e successivamente riassunto, con costituzione della curatela, che non eccepiva l’inammissibilità dell’azione per violazione degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare. Il Tribunale, con sentenza non definitiva, riconosceva la fondatezza della domanda, confermava il provvedimento cautelare e disponeva la prosecuzione del giudizio per la quantificazione del danno. Avverso tale pronuncia proponeva appello la curatela del fallimento, senza eccepire l’inammissibilità dell’azione per violazione degli artt.52 e 93 legge fallimentare e  la Corte d'appello di Messina, con sentenza del 17 ottobre 2006, rigettava l'impugnazione, confermava la sentenza di primo grado e condannava l'appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado. Il curatore del fallimento proponeva ricorso per cassazione sul presupposto che l’improcedibilità della domanda nei confronti di un soggetto può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e quindi anche per la prima volta innanzi il giudice di legittimità. LA DECISIONE  La Corte di Cassazione, sezione terza, con sentenza n. 1115 del 21/01/2014 ha rigettato il ricorso con una chiara e coerente motivazione ove ha precisato che seppure è vero che l'accertamento del credito nei confronti del fallimento è devoluto alla competenza esclusiva del giudice delegato, ai sensi degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare, tuttavia tale rilevabilità va coordinata (giustamente) con il sistema delle impugnazioni e con la disciplina del giudicato, in forza del principio di conversione della invalidazione nella impugnazione Tanto in considerazione che, ove la nullità che derivi da tale vizio procedimentale non sia dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza che ne è affetta, resta superata dall'intervenuto giudicato, con conseguente preclusione di siffatta rilevabilità e della deducibilità ai fini dei successivi gravami». In questo caso, infatti, si forma il giudicato implicito sulla proponibilità dell'azione, perché la parte della decisione non impugnata e che sia indipendente da quelle investite dai motivi del gravame passa in giudicato, per acquiescenza. Nel giudizio di appello, la curatela (appellante) non aveva mai posto la questione relativa alla improcedibilità della domanda, contraddicendo la stessa esclusivamente nel merito. Il silenzio della curatela fallimentare in ordine a detto profilo preliminare in rito ha determinato la formazione del giudicato implicito per acquiescenza, in considerazione del fatto che la declaratoria di fallimento non aveva costituito una novità intervenuta nel giudizio di appello, bensì una realtà processuale presente e dichiarata già in primo grado. La decisione assunta risulta in armonia con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, non potendo ritenersi conforme con l'obiettivo della celerità il consentire alla parte totalmente inerte sul punto - in questo caso la curatela del fallimento - di far azzerare il processo in sede di giudizio di cassazione quando la questione avrebbe potuto certamente essere proposta nell'atto di appello. In conclusione, l’inerzia e il silenzio della curatela su questioni procedurali relative alla proponibilità di una azione possono comportare la formazione del giudicato implicito, con possibile danno per i creditori, in quanto potrebbero trovarsi a partecipare al concorso fallimentare anche soggetti i cui crediti non siano stati verificati dal giudice delegato secondo il rito dell’accertamento dello stato passivo....

Imposta di registro: l’aliquota è diversa per beni mobili e crediti

Lun, 03/02/2014 - 09:48
È differente l’aliquota dell’imposta di registro per i singoli beni alienati in caso di contratto di cessione di azienda quando vengono pattuiti per diversi corrispettivi. È questo il principio statuito dalla Commissione Tributaria Regionale Lombardia, la quale, in ragione dell’art. 23 D.p.r. 13l/86, ha riconosciuto che, in caso di cessione di singoli rami di azienda, i  beni alienati devono essere tassati alla luce della propria aliquota d’imposta di registro, anche nel caso in cui vengano ad essere trasferiti con una sola operazione di cessione. La vicenda ha riguardato una società impegnata a cedere un ramo di attività costituito da beni mobili, avviamento e, per la maggior parte, da crediti. La società ha fatto ricorso distintamente alle aliquote sull’imposta di registro applicando il 3% per i beni mobili e l’avviamento e lo 0,5% per i crediti. L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, richiamandosi all’art. 23, D.p.r. 131/86, ha ritenuto dovesse applicarsi solo l’aliquota più alta del 3% dato che i singoli beni rientravano comunque nella medesima operazione di cessione di ramo di azienda. La società, dal canto suo, non ha condiviso l’avviso di liquidazione ed ha impugnato il provvedimento sostenendo che, come previsto da una lettura più completa dell’art. 23, i singoli beni sarebbero sì soggetti ad un’unica aliquota d’imposizione quando oggetto di una sola disposizione, ma non anche nel caso in cui si applichino doversi corrispettivi per ciascun bene.   Giunta la causa dinanzi al Ctr i giudici hanno accolto la tesi del contribuente e sostenuto che la tesi della tassazione ad aliquota unica  non poteva essere condivisa perché questo avrebbe significato dare una lettura forzata dell’art. 23, considerato che i singoli componenti del complesso aziendale, sebbene rientranti nella medesima operazione di cessione, sono stati venduti a corrispettivi distinti. In conclusione il Ctr ha accolto la tesi della società ed ha annullato l’avviso di liquidazione. ...

Conto cointestato: il vincolo di solidarietà nei rapporti interni è regolato ex art. 1298 c.c., comma 2

Ven, 31/01/2014 - 16:42
Il cointestatario di un conto corrente bancario, anche se abilitato a compiere operazioni autonomamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma depositata in misura eccedente la quota di sua spettanza. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione seconda, con sentenza n.26991 pronunziata in data 02/12/2013 in materia di conto corrente cointestato. Nel caso di specie, essendo deceduto uno dei due cointestatari di un conto corrente bancario, uno degli eredi ab intestato del cointestatario defunto aveva citato in giudizio il cointestatario superstite per sentirlo condannare alla corresponsione, nei suoi confronti, di quanto ancora dovutole relativamente alla sua quota ereditaria.  Il cointestatario superstite, a sua volta, contestava la fondatezza della domanda attorea, sostenendo che quanto depositato sul conto corrente dovesse ritenersi per il 50% di sua appartenenza, ai sensi dell’art. 1298, comma 2, c.c. Soccombente tanto in primo grado quanto in appello, il cointestatario superstite ricorreva allora per cassazione, lamentando, in particolare, l’omessa o comunque carente e insufficiente motivazione circa la clausola, apposta al contratto di conto corrente bancario cointestato, che prevedeva la facoltà di disposizione disgiunta delle somme depositate, nonché la violazione dell’art. 1298, comma 2, c.c., a norma del quale la cointestazione di un conto corrente comporta la presunzione, relativa, di uguaglianza delle parti di ciascun correntista.  Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto infondato il ricorso sul presupposto che l’art.1854 cc, secondo cui nel caso di conto corrente cointestato gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto, disciplina soltanto i rapporti tra i correntisti e la banca, laddove il vincolo di solidarietà dei cointestatari del conto, nei rapporti interni, è regolato dall’art.1298 cc, comma 2, secondo il quale le parti di ciascuno si presumono eguali, se non risulta diversamente. Alla luce di tale disposizione normativa, dunque, il concreditore, nei rapporti interni, non può disporre oltre il 50% delle somme risultanti da rapporti bancari solidali, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, e, ove risulti provato che il saldo attivo di un rapporto bancario cointestato discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto dei cointestatari, si deve escludere che l’altro cointestatario, nei rapporti interni, possa avanzare diritti sul saldo medesimo. I giudici di legittimità, in motivazione, hanno altresì evidenziato come la clausola del contratto di conto corrente bancario cointestato a più persone, la quale abiliti le medesime a compiere operazioni autonomamente, rileva solo sul piano dei rapporti esterni tra cointestatari e banca, facendo sì che ciascun contitolare del conto, con effetti vincolanti anche per gli altri, possa pretendere dalla banca il pagamento per l’intero e impartire alla stessa ordini per l’intero; viceversa, nel rapporto interno tra i contitolari del conto corrente, il debito e il credito solidale si dividono in quote uguali, salvo che non risulti diversamente. In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, sulla base di tale iter argomentativo, hanno rigettato il ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle spese....

Fallimento: l’ipoteca legale iscritta a garanzia del pagamento delle imposte non è suscettibile di revocatoria

Ven, 31/01/2014 - 16:16
IL CONTESTO NORMATIVO Art 77. D.P.R. n. 602 del 1973 . Iscrizione di ipoteca.  1. Decorso inutilmente il termine di cui all'articolo 50, comma 1, il ruolo costituisce titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell'importo complessivo del credito per cui si procede (227).  2. Se l'importo complessivo del credito per cui si procede non supera il cinque per cento del valore dell'immobile da sottoporre ad espropriazione determinato a norma dell'articolo 79, il concessionario, prima di procedere all'esecuzione, deve iscrivere ipoteca. Decorsi sei mesi dall'iscrizione senza che il debito sia stato estinto, il concessionario procede all'espropriazione. IL COMMENTO In tema di fallimento, l'art. 67, comma 1, n. 4 L. Fall. stabilisce la revocabilità delle sole ipoteche giudiziali e volontarie e l'ipoteca ex art. 77, D.P.R. n. 602 del 1973 non può essere compresa in alcuna delle due categorie sopra indicate, con la conseguenza che la stessa non può essere suscettibile di revoca in sede fallimentare. È questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione Civile, sezione prima, con la sentenza n.325 del 09/01/2014. Nel caso di specie, l’agente di riscossione dei tributi ha proposto ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui il Tribunale aveva rigettato la sua opposizione allo stato passivo del fallimento di una società, con la quale aveva lamentato l’esclusione del privilegio ipotecario del proprio credito. Il Tribunale aveva motivato la sua decisione sulla base del fatto che l’ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell'imposta, regolata dall’ art. 77, D.P.R. n. 602 del 1973, fosse stata iscritta nell’apposito registro successivamente alla dichiarazione di fallimento. In base a quanto stabilito dall’art 67, comma 1, n. 4 L. Fall , infatti, sono revocate, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato d'insolvenza del debitore, le ipoteche giudiziali o volontarie costituite nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti. Ebbene la Suprema Corte, seguendo un orientamento già ben consolidato, ha stabilito che l'iscrizione ipotecaria effettuata dalla società di riscossione non è assimilabile alle ipotesi di ipoteca legale o giudiziale, risiedendo sulla formalità dell'impulso di parte e su un provvedimento di natura amministrativa. Pertanto non è suscettibile di applicazione l'art. 67 L.F. in materia di revocazione delle ipoteche giudiziali e volontarie ed il credito fatto valere dall'agente della riscossione deve essere insinuato con collocazione di rango ipotecario. Per tali motivi il Giudice di legittimità ha accolto il ricorso e cassato con rinvio il decreto del Tribunale.   Si segnala che analogo principio era stato sancito dalla pronuncia della Corte di Cassazione Civile, sezione sesta con l’ordinanza n 19141 del 06-11-2012 già oggetto di commento su questa rivista....

LA LEGGE DI STABILITÀ 2014 ELIMINA L’ANATOCISMO BANCARIO

Mer, 29/01/2014 - 18:03
Dopo oltre un decennio di interventi giurisprudenziali, il legislatore, con la legge di stabilità per il 2014, cancella il fenomeno dell’anatocismo bancario, con una norma imprecisa e atecnica che pone problemi interpretativi e di attuazione pratica. La riforma è stata approvata con la legge 27.12.2013 n. 147, pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 87 della Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27.12.2013, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (cd Legge di stabilità 2014) ed in vigore già dal 1.1.2014. In particolare, il comma 629 della legge 27.12.2013 n.147 (cd Legge di stabilità 2014) ha modificato il secondo comma dell’art.120 del decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, come segue: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che:  a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori;  b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale». Viene, pertanto, riscritto l’art.120 del TUB, che attribuisce al CICR, Comitato Interministeriale Credito e Risparmio, il compito di determinare il criterio di produzione degli interessi nelle operazioni, di qualsiasi segno attivo o passivo, nel rapporto bancario, ma, nella nuova formulazione, introduce rilevanti limiti.  Mentre la lettera a) - stabilendo il criterio della formale parità tra banca e cliente - è una ripetizione della precedente formulazione in vigore, il divieto di anatocismo, previsto alla lettera b), è una novità assoluta che cancella la legittimità della capitalizzazione degli interessi nei rapporti bancari anche per il periodo successivo all’entrata in vigore della Delibera del CICR del 9.2.2000 in vigore dal 30.6.2000. La norma impedisce, pertanto, il calcolo degli interessi sugli interessi a far data dall’1.1.2014.  Nei rapporti bancari, infatti, gli interessi non produrranno più interessi, né quelli attivi né quelli passivi e, quindi, viene archiviata l’annosa questione dell’anatocismo, che è il fenomeno in virtù del quale gli interessi maturati nel periodo di riferimento, sommati al capitale, determinano la base su cui calcolare gli interessi per il periodo successivo. L’intervento legislativo in esame ha, quindi, recepito i principi già espressi dalla Cassazione a Sezione Unite del dicembre 2010 che ha ritenuto illegittima qualsiasi tipo di capitalizzazione per il periodo precedente all’entrata in vigore della innanzi indicata Delibera.  Dai lavori preparatori della legge in commento, emerge chiaramente la finalità dell’introduzione della nuova formulazione dell’art. 120 TUB che è quella di introdurre il divieto di anatocismo nell'ordinamento bancario e, cioè, impedire che gli interessi periodicamente capitalizzati producano interessi ulteriori, i quali, nelle successive operazioni di capitalizzazione, andranno calcolati esclusivamente sulla quota capitale. Pur a voler ritenere- dall’esame del dettato normativo e dei relativi lavori preparatori - chiara la finalità prefissa dalla legge, il contenuto della stessa presenta criticità sia sul piano interpretativo, per esservi evidenti contraddizioni,  che sul piano pratico, ai fini della concreta attuabilità della novità legislativa. Con il primo periodo della legge in esame, lettera a) dell’art. 120 nuova formulazione, è previsto che il conteggio degli interessi avvenga con la stessa periodicità, sia per gli interessi attivi che per quelli passivi. Alla lettera b), poi, si cristallizza il divieto che gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori, con la conseguenza che, una volta che l’interesse viene capitalizzato, il risultato, tuttavia, non potrà essere la base per il calcolo degli interessi per il periodo successivo poiché gli interessi maturati nel primo periodo sono infruttiferi e, cioè, non possono produrre interessi. La norma appare contraddittoria poiché nel momento in cui l’interesse viene capitalizzato, quelle che originariamente sono due poste distinte – interesse da un lato e capitale dall’altro – diventano un’unica posta, ossia capitale.  Per effetto della nuova disciplina, invece, una volta che la quota di interesse viene trasformata in capitale, non può produrre interessi. La quota parte di capitale - anch’essa fusa con gli interessi- è invece produttiva di interessi. In sostanza, il saldo del conto sarà composto dalla somma degli importi in conto capitale e dalla somma degli interessi maturati per singolo periodo di computo. Tanto anche per gli interessi attivi per il cliente, che non produrranno interessi nel periodo successivo a quello di maturazione.  La criticità in ordine alla effettiva attuazione, quindi, consiste nella difficoltà, con tale disciplina, di tenere distinti due fattori che prima si sono fusi e dopo dovranno poter essere separati per costituire due autonome basi di calcolo.  In conclusione, anche la riforma in commento presenta – come spesso accade - un dato letterale che lascia aperti numerosi problemi interpretativi, di cui gli operatori saranno chiamati a farsi carico nella concreta applicazione della legge, tenendo presente la ratio dell’innovativo intervento del legislatore, ma senza limitarsi al solo dato letterale che è la causa della contraddittorietà da risolvere....

ASSEGNO BANCARIO: data mancante, data rettificata e data posposta

Mer, 29/01/2014 - 16:01
L’assegno privo di data è nullo in ossequio al disposto dell’art. 1 del Regio Decreto 21 dicembre 1933, n. 1736. Non è nullo l'assegno con data posposta, in quanto, nel caso, esso deve essere considerato come venuto ad esistenza al momento in cui è stato consegnato al prenditore, che coincide con il momento della sostanziale emissione. Non è nullo l'assegno che contenga una data rettificata, a meno che la suddetta correzione sia rivelatrice della falsificazione del titolo.  Colui che contesta l’apocrifia della sottoscrizione non può limitarsi al mero disconoscimento della sottoscrizione, dovendo fornire una specifica prova della suddetta alterazione o falsificazione che sia rilevabile ictu oculi¸ tale da poter essere immediatamente percepita dal cassiere della banca trattaria; in mancanza non sussiste alcuna responsabilità della banca, essendo sufficiente che la sottoscrizione depositata sulla scheda firme (cd. Specimen) sia assimilabile prima facie a quella sull’assegno bancario. L'assegno bancario (chèque) contiene : 1) la denominazione di assegno bancario (chèque) inserita nel contesto del titolo ed espressa nella lingua in cui esso è redatto; 2) l'ordine incondizionato di pagare una somma determinata; 3) il nome di chi è designato a pagare (trattario); 4) l'indicazione del luogo di pagamento ; 5) l'indicazione della data e del luogo dove l'assegno bancario è emesso; 6) la sottoscrizione di colui che emette l'assegno bancario (traente). Con citazione ritualmente notificata, un correntista conveniva in giudizio sia la banca trattaria che quella negoziatrice, il notaio che aveva elevato il protesto ed il prenditore dell’assegno, per ottenere la loro condanna in solido ai risarcimento del danno da illegittimo protesto elevato ad un proprio assegno bancario emesso in favore della banca nell'ottobre 2008. In particolare, esponeva di aver emesso l'assegno, tratto sul proprio conto corrente esistente presso la banca convenuta, relativamente ad una relazione commerciale intercorsa, per cui aveva consegnato il detto titolo a garanzia. Contrariamente a quanto convenuto tra il correntista trattario ed il beneficiario, l'assegno era stato improvvisamente posto all'incasso previa asserita alterazione della data, e, a causa della momentanea assenza di provvista, era stato protestato, con procedura effettuata dai notaio su segnalazione della banca trattaria, nonostante la palese contraffazione della data di emissione. La domanda veniva rigettata dal Tribunale ed avverso tale decisione ha proposto appello il correntista sul presupposto che il protesto fosse illegittimo, in quanto l’assegno era stato alterato in modo vistoso, senza però fornire alcuna prova circa l'asserita apocrificità della firma di rettifica della data. La Corte ha rigettato il gravame con condanna al pagamento delle spese processuali. La Corte partenopea ha spiegato, che relativamente alla assegno bancario, solo la Data Mancante comporta la nullità del titolo, mentre in ipotesi di data posposta e data rettificata non vi sono effetti invalidanti.  In particolare, nell’ipotesi di data posposta, (cd. “assegno postdatato”) la stessa viene coincide con il momento della sostanziale emissione e quindi al momento in cui è stato consegnato al prenditore. Nell’ipotesi di data rettificata con una specifica firma l’assegno non è certamente nullo, a meno che la suddetta correzione sia rivelatrice della falsificazione del titolo. In relazione all'asserita apocrificità della rettifica della data, la Corte ha precisato che la diligenza del buon banchiere impone l'esame superficiale della regolarità del titolo, ma tale esame deve essere effettuato "a vista”, con la conseguenza che la responsabilità della banca va affermata solo se essa abbia accettato per l'incasso un assegno alterato o contraffatto e tale alterazione o contraffazione fosse rilevabile ictu oculi, non potendosi pretendere il possesso di particolari competenze in grafologia da parte del funzionario della banca. Orbene, dall’esame del titolo non emergeva alcuna alterazione che avrebbe potuto essere immediatamente percepita dal cassiere della banca trattaria, atteso che la sottoscrizione era assimilabile prima facie a quella del titolare del conto corrente, con quella firma depositata sullo specimen. In sostanza, al funzionario della banca può essere richiesto esclusivamente un esame circa la verosimiglianza della sottoscrizione, non potendosi pretendersi il possesso di particolari competenze in grafologia. In conclusione, l’assegno con data rettificata e/o posposta può essere legittimamente protestato, una volta effettuate le verifiche possibili con l’esercizio dell’ordinaria diligenza....

DISCIPLINARE NOTAIO: sanzione di euro 5.000 per il professionista che non paga immediatamente l’imposta

Mer, 29/01/2014 - 12:28
Il notaio che non paga immediatamente l’imposta prevista per un atto da lui stipulato perché il conto corrente non ha provvista non è per questo esente da sanzione disciplinare, specie se riceve dal cliente la somma occorrente a tale finalità. L’omesso controllo da parte del professionista della sua disponibilità bancaria mina il rapporto fiduciario tra quest’ultimo e l’amministrazione finanziaria.  È quanto disposto dalla Corte di Cassazione, seconda sezione civile con sentenza n.11709 del 21/01/2014  che ha riconosciuto il comportamento negligente del notaio che non aveva immediatamente pagato l’imposta per sue provviste bancarie insufficienti, benché avesse segnalato il mancato addebito all’Agenzia delle Entrate, provvedendo poi al pagamento entro 15 giorni.  Il caso è relativo ad un procedimento disciplinare a carico di un notaio per non aver provveduto all’addebito relativamente alle imposte autoliquidate per un atto a suo rogito a seguito di registrazione telematica ove la Corte d’appello di Venezia irrogò la sanzione pecuniaria di 5000 euro.  Il notaio ha impugnato la sentenza dinanzi alla Suprema Corte contestando l’azione disciplinare sul presupposto che era stata iniziata ancor prima della scadenza del termine per il tempestivo pagamento dell'imposta. In particolare, il sistema di autoliquidazione e di pagamento telematico, in cui il notaio è unico responsabile dell'imposta a titolo principale, è articolato in due fasi: nella prima egli deve liquidare l'imposta mentre nella seconda deve provvedere al prelievo. Per tali motivi il notaio, tra l’altro, non poteva ancora essere definito inadempiente in quanto non era ancora scaduto il termine per il pagamento.  Tuttavia la Corte ha evidenziato che in tema di illeciti disciplinari previsti a carico di chi esercita la professione notarile, l'art. 147, lett. a), della legge 16 febbraio 1913, n. 89, prevede una fattispecie disciplinare a condotta libera, all'interno della quale è punibile ogni comportamento, posto in essere sia nella vita pubblica che nella vita privata, idoneo a compromettere l'interesse tutelato, il che si verifica ogni volta che si pone in essere una violazione dei principi di deontologia enucleabili dal comune sentire in un determinato momento storico, dovendosi escludere che il verificarsi di un'eco negativo nella comunità integri un elemento costitutivo di tale illecito e che, tanto meno, occorra la prova della sua esistenza.  Sul punto la Corte ha dato continuità ad una precedente decisione (cfr. sentenza n.21203 del 2011) evidenziando che il notaio è sempre responsabile del mancato immediato pagamento dell’imposta, rimanendo irrilevante che tale circostanza abbia avuto rilievo esterna e che lo stesso professionista abbia tempestivamente avvisato l’agenzia delle entrate del pagamento insoluto. La sanzione disciplinare di 5000,00 è stata poi motivata sulla circostanza che il comportamento del professionista è stato negligente non potendo non conoscere l’importo delle disponibilità bancarie sul conto corrente a lui intestato, responsabilità aggravata dalla circostanza che il cliente aveva peraltro corrisposto le somme per il pagamento dell’imposta.  In conclusione il notaio deve immediatamente provvedere al pagamento dell’imposta, atteso che, in mancanza, la sua condotta è da ritenersi negligente, anche se abbia comunicato il ritardo dell’operazione e non siano decorsi i 15 giorni per l’adempimento. La mera circostanza della mancanza della disponibilità di somme sul conto corrente è stata, pertanto, giudicata un illecito disciplinare che non ammette alcuna forma di giustificazione....

AMMISSIONE AL PASSIVO: l’integrazione del rango è ammissibile fino a trenta giorni prima dell’udienza di verifica

Mar, 28/01/2014 - 18:06
Si ringrazia l’avv. Roberto Guarnotta per la segnalazione dell’interessante decreto.   In tema di accertamento del passivo, l’integrazione della domanda di ammissione di un credito come privilegiato, a fronte dell’iniziale domanda presentata senza specifica richiesta, è ammissibile solo se presentata entro il termine di trenta giorni prima dell’udienza di verifica, ovvero, nel caso di insinuazione tardiva, se presentata prima che venga fissata l’udienza per l’esame delle tardive. In tal caso, infatti, sulla domanda, e sulla successiva integrazione, non si è instaurato alcun contraddittorio ragion per cui la domanda ben può essere riqualificata, come domanda nuova incompatibile con quella originariamente presentata e non delibata. È quanto stabilito dal Tribunale di Marsala, Giudice Estenore dott. Vaccaro, Presidente dott. Genco con decreto n.1635 del 04/12/2013, sul ricorso ex art. 98 LF promosso da una banca, ammessa al passivo di un fallimento in via chirografaria. Nel caso di specie era accaduto che la banca creditrice aveva proposto domanda tardiva di ammissione al passivo senza l’espressa indicazione richiesta all’art. 93 comma terzo LF n.4; successivamente, ma prima che venisse fissata l’udienza di verifica delle tardive, la parte procedeva ad effettuare delle integrazioni chiedendo l’espressa collocazione del proprio credito in via privilegiata. Con il progetto di stato passivo reso esecutivo il credito veniva ammesso in via chirografaria sul presupposto che non fosse ammissibile l’integrazione della domanda atteso che con la detta modifica/integrazione si avrebbe un’ipotesi di mutatio libelli preclusa dal sopracitato art. 93 LF. Avverso tale decisione il creditore proponeva opposizione ex art.98 LF che veniva accolta non ritenendo fondate le eccezioni della curatela atteso che la modifica della domandava va intesa quale riqualificazione e dunque come domanda nuova.  Ed invero, come di recente espresso dalla Cassazione (Sent. 4306/2012), l’integrazione della domanda di insinuazione al passivo “in via privilegiata” a fronte delle iniziale domanda presentata senza specifica indicazione del privilegio, è inammissibile se presentata oltre il termine perentorio di trenta giorni prima dell’udienza di verifica, ovvero nel caso in cui la detta integrazione e/o modifica sia presentata quando il credito sia stato già ammesso in chirografo, atteso che in tali casi si avrebbe una indubbia mutatio libelli. Sul punto ha ben spiegato l’adito collegio che l’accertamento della qualità del credito è strettamente connesso all’accertamento dell’esistenza o meno dello stesso sì da costituirne un unicum inscindibile dal momento che la verifica del passivo ha ad oggetto non già l’accertamento del credito fine a se stesso ma l’accertamento del diritto dei creditori di partecipare al riparto con la misura e con il grado di tale partecipazione. Ciò implica che il credito sia accertato contestualmente con la sua qualificazione. Nel caso di specie al momento del deposito dell’integrazione non era maturata alcuna preclusione stante l’assenza del provvedimento del GD di fissazione dell’udienza di verifica delle tardive ragione che ha indotto il Collegio ad ammettere la domanda di insinuazione tardiva quale domanda in via privilegiata, in quanto domanda nuova, incompatibile con quelle originariamente presentata e non delibata. Il Tribunale, in parziale riforma del decreto opposto, ha così ammesso al passivo del fallimento per il diritto di credito privilegiato fatto valere tardivamente.   ...

USURA BANCARIA: nel tasso effettivo va inclusa la commissione di massimo scoperto

Mar, 28/01/2014 - 16:48
Si ringrazia per la segnalazione  della sentenza. la Dott.ssa. Gioia Rosania  Essendo la commissione di massimo scoperto un “onere” per il correntista, essa va necessariamente inglobata nel calcolo del TEG. Ai fini del calcolo degli interessi non dovuti, perché usurari, si deve tener conto della valuta effettiva, vale a dire della data reale in cui la banca acquista o perde la disponibilità giuridica delle somme, e non della valuta bancaria, facendo corretta applicazione dell’art.1282, I comma, cc. In questi termini si è espresso il Tribunale civile di Vicenza, con la sentenza n.454 del 25 marzo 2013, decidendo sulla domanda proposta da un correntista nei confronti della banca, al fine di ottenere pronuncia di accertamento della nullità ex art. 1815, II comma, cc della clausola contrattuale relativa agli interessi su un’operazione di finanziamento, siccome usurari, con la conseguente declaratoria di non debenza delle somme residue a tale titolo. Nel dettare il principio di diritto sopra riportato, il Giudice Unico, dott. Luigi Giglio, ha dato seguito all’orientamento ormai consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, in particolare a quello che ha trovato compiuta teorizzazione con la sentenza n.262/2010, in cui la Suprema Corte ha affermato che il calcolo del TEG va effettuato tenuto conto degli interessi, delle spese, delle commissioni, ivi compresa quella di massimo scoperto - in quanto onere che il cliente sopporta in connessione con il suo uso del credito. Al centro della vicenda processuale di specie si pone la consulenza contabile disposta - e pedissequamente seguita - dal Tribunale vicentino, a fine di valutare l’usurarietà del tasso effettivamente praticato dalla banca nel corso del rapporto. Nel valutare la correttezza della relazione peritale, il Giudice ha sottolineato come, tra le tre modalità di calcolo del TEG prospettate dal consulente - quella inclusiva di tutte le spese tranne la c.m.s., quella comprendente anche quest’ultima e, infine, quella comprensiva di tutte le spese, della c.m.s. e basata sulla c.d. “rettifica” delle valute - dovesse prendersi in considerazione l’ultima, determinante, nel caso di specie il superamento del tasso soglia antiusura in tutti (tranne due) i trimestri oggetto di analisi. Il Tribunale ha conseguentemente accolto la domanda attorea, dichiarando nulla la clausola relativa all’obbligo di corresponsione degli interessi ed accertando il credito del cliente alla restituzione degli stessi, sulla base del calcolo effettuato dal ctu. Al contempo, tuttavia, ha parzialmente accolto la domanda riconvenzionale proposta dall’istituto di credito e volta alla condanna dell’attore al pagamento del saldo di chiusura del rapporto di conto corrente. Ne è risultata la condanna del correntista al pagamento della minor somma ottenuta detraendo dal saldo finale (negativo) l’intero IMPORTO DOVUTO a titolo di interessi, secondo quanto statuito dall’art.1815, II comma cc. Concludendo, non può non notarsi, su tale ultimo punto, che la sentenza in commento si presenta problematica sotto l’aspetto della probabile discordanza tra la regula juris applicata e le risultanze fattuali messe in luce dallo stesso Giudice. Infatti, nel fare applicazione dell’articolo 1815, comma II, a norma del quale “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” si è avuto riguardo non tanto al momento della “pattuizione” degli interessi (e degli oneri in generale), ma al momento della maturazione di questi ultimi, se è vero che la relazione peritale ha verificato che fossero risultati in usura ventuno trimestri su ventitre. Tale ultimo criterio di valutazione sembrerebbe attagliarsi non tanto all’usura c.d.”originaria”, quanto alla fattispecie dell’usura “sopravvenuta”, concetto elaborato in relazione a quei rapporti bancari di durata in cui gli oneri a carico del cliente siano suscettibili di variazione e rispetto alla quale la giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere che non ne consegua la non debenza tout court degli interessi, bensì la mera riduzione di questi ultimi al limite del “tasso soglia”. La sentenza è pertanto da censurare in quanto la fattispecie esaminata era relativa all’USURA SOPRAVVENUTA, per cui il Tribunale avrebbe dovuto eliminare solo ed esclusivamente l’importo che superava il limite del tasso soglia e giammai avrebbe dovuto considerare come non dovuti gli interi importi degli interessi, dovendo procedere alla automatica sostituzione nei limiti del tasso soglia. Sul punto si segnalano in senso contrario le seguenti decisioni: USURA BANCARIA: ALL'USURA SOPRAVVENUTA NON SI APPLICA L'ART. 1815, SECONDO COMMA, C.C. NEL CONTRATTO DI MUTUO SONO DOVUTI GLI INTERESSI SOLO PER LA PARTE CHE NON ECCEDE IL TASSO SOGLIA ANTI USURA  Sentenza | Tribunale di Taranto, Dott. Martino Casavola | 25-06-2013 | n.1359 |  USURA BANCARIA - USURA SOPRAVVENUTA: inapplicabilità dell’art.1815 secondo comma cc Solo in ipotesi di USURA ORIGINARIA gli interessi contra legem non sono dovuti  Sentenza | Tribunale di Napoli, Giudice Unico dott. Ettore Pastore Alinante | 29-06-2012 | n.7763 |  USURA BANCARIA - USURA SOPRAVVENUTA - SOSTITUZIONE AUTOMATICA - LIMITI TASSO SOGLIA l’art.1 legge 108/96 ha previsto la fissazione di tassi soglia al di sopra dei quali gli interessi corrispettivi e moratori vanno considerati usurari e automaticamente sostituiti ex art. 1419 e 1319 cc  Sentenza | Cassazione civile, sezione prima | 11-01-2013 | n.602 | In conclusione pur nell’oggettiva incertezza ancora sussistente in dottrina e giurisprudenza, derivante da una normativa spesso poco chiara - e sempre in fieri - il senso della pronuncia del Giudice vicentino è certamente da rimeditare, tenuto conto dei principi e delle ricostruzioni della normativa in materia di usura bancaria, di cui su questa rivista si è dato ampiamente conto in più occasioni (si veda, da ultimo, USURA BANCARIA: ECCO LE REGOLE )...

USURA BANCARIA: se il tasso moratorio è sostitutivo non va sommato al tasso corrispettivo

Mar, 28/01/2014 - 15:34
Nel raffronto con il tasso soglia antiusura, la sommatoria del tasso contrattuale degli interessi corrispettivi e di quello moratorio va esclusa, ogni qualvolta risulti chiaro dalle prescrizioni contrattuali la sostitutività e non additività dei due tipi di interesse. Il Collegio napoletano dell’Arbitro Bancario Finanziario, con la decisione n.21/14, resa all’esito della seduta del 26-11-2013, dettando il principio di diritto appena richiamato, è tornato a pronunciarsi sul tema della natura dei tassi d’interesse applicati ad un contratto di mutuo ed, in particolare, sul rapporto tra il tasso d’interesse moratorio ed quello corrispettivo, ai fini della valutazione di usurarietà del contratto bancario, pronunciandosi in maniera del tutto conforme ai propri precedenti ed, ancora una volta, facendo applicazione “critica” dell’orientamento dettato dalla Corte di Cassazione con la discussa pronuncia n.350 del 9 gennaio 2013. In particolare, nella classica controversia incardinata dal mutuatario al fine di ottenere la declaratoria di nullità della clausola contrattuale relativa agli interessi, il ricorrente lamentava l’applicazione di un tasso di mora al 9,012% che sommato al tasso nominale praticato, pari al 2,817%, dava luogo allo sforamento del tasso soglia fissato nel periodo di riferimento. A proprio sostegno richiamava la massima fornita dalla Corte di legittimità nella sentenza già citata (ed oggetto di approfondito esame su questa rivista;cfr. USURA BANCARIA: ECCO LE RAGIONI PER CUI LA CORTE HA ERRATO NELL’INCLUDERE IL TASSO MORATORIO NEL CALCOLO DELL’USURA  ), secondo la quale “ai fini dell’applicazione dell’art.644 cp e dell’art.1815 cc, comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori”. Nelle proprie controdeduzioni, l’intermediario, soffermatosi preliminarmente sull’eccezione di nullità dell’atto introduttivo per indeterminatezza e genericità, sottolineava, nel merito, che la sentenza richiamata da parte ricorrente dovesse essere correttamente interpretata, non nel senso che gli interessi moratori andassero sommati a quelli corrispettivi nel calcolo del TEG, bensì considerando separatamente le voci di costo e verificando, per ciascuna di esse che non si determinasse il superamento del tasso soglia antiusura. Ciò s’imponeva da una lettura critica del principio statuito dagli ermellini, valutando l’intrinseca diversa natura dei due tipi di interesse, corrispondenti ciascuno di essi a funzioni e criteri diversi e disomogenei, così da non consentirne una valutazione cumulativa. Nell’argomentare sulla diversa natura dell’interesse moratorio, rispetto a quello corrispettivo, l’Istituto di credito richiamava il principio secondo il quale “nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del prestito avvenga mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”.  Proprio dalla disciplina in materia di capitalizzazione emergerebbe, cioè, la differente funzione del tasso moratorio, volto al risarcimento del danno causato dal ritardato adempimento, con applicazione, cioè, soltanto eventuale, vieppiù che la Banca d’Italia, nelle istruzioni del 3 luglio 2013 già chiariva l’esclusione del tasso di mora dalle voci di costo rilevanti ai fini del TAEG. E d’altronde, proseguiva nelle proprie difese l’intermediario, la verifica dell’usurarietà del tasso di mora – secondo quanto specificato dalle già citate note della Banca d’Italia e accennato nei Decreti Ministeriali trimestrali di rilevazione del TEGM – avrebbe dovuto effettuarsi con riferimento al tasso soglia maggiorato di 2,1 punti percentuali. L’Arbitro Bancario Finanziario, con una succinta motivazione, aderendo alle argomentazioni della resistente, ha fissato preliminarmente il thema decidendum, basato, nell’incertezza di quanto dedotto dal ricorrente, sul presupposto “che, nel quadro delle pattuizioni contrattuali, fosse prevista l’applicazione del tasso d’interesse attraverso la sommatoria del tasso contrattuale degli interessi corrispettivi e di quello moratorio, così eccedendo il limite fissato imperativamente dal tasso soglia anti-usura”, per poi concludere che tale asserzione fosse in realtà palesemente smentita dalle risultanze documentali ed, in particolare, dalle prescrizioni contrattuali, dalle quali emergeva chiaramente la natura sostitutiva ed eventuale del tasso di mora. In tal modo, il Collegio napoletano ha nuovamente chiarito un principio già seguito nella decisione n.5877 del 20.11.2013) e ancor meglio esplicitato nella pronuncia adottata pochi giorni dopo sul medesimo argomento (cfr. USURA BANCARIA : GLI INTERESSI MORATORI NON VANNO SOMMATI A QUELLI CORRISPETTIVI  ), finendo ancora per ridiscutere la massima dettata dalla Giurisprudenza di legittimità con la sentenza n.350, che costituisce, allo stato, punto di riferimento (seppur non insuperabile) per i Giudici di merito....

FIDEIUSSIONE OMNIBUS: obbligo del pagamento immediato senza condizioni

Mar, 28/01/2014 - 15:11
Il fideiussore, obbligatosi al pagamento della somma garantita “a prima richiesta” e “senza eccezioni”, non può far valere in giudizio vizi inerenti al rapporto principale, ivi compresa l’invalidità del contratto da cui tale rapporto deriva, salvo che nell’ipotesi dell’esecuzione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale può sempre opporre l’“exceptio doli”. Tale configurazione della fideiussione omnibus esclude che il garante, a fronte della richiesta di pagamento della Banca, possa opporre la sussistenza in capo al debitore principale di un saldo positivo di conto corrente, in quanto il regolamento negoziale non prevede alcun beneficio di escussione. Affermando tali principi, la Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n.62, pubblicata in data 08.01.2014, ha rigettato l’impugnazione proposta da un fideiussore avverso la sentenza con cui il Tribunale di Napoli aveva respinto l’opposizione a decreto ingiuntivo dallo stesso promossa in primo grado. La vicenda trae origine dal provvedimento di ingiunzione ottenuto, provvisoriamente esecutivo, da una Banca nei confronti di una società debitrice, sul presupposto di esser già creditrice in virtù di altro decreto ingiuntivo, successivamente al quale erano tornate insolute altre 23 cambiali, a suo tempo passate allo sconto, regolato in conto corrente, determinanti un’ulteriore esposizione debitoria a carico della società e dei garanti. Avverso tale decreto ingiuntivo, uno dei garanti aveva proposto opposizione, deducendo che il conto corrente della società debitrice presentava un saldo positivo, che la Banca tratteneva presso la propria sede i titoli risultati insoluti, pur avendo ottenuto decreto ingiuntivo ed eccependo, inoltre, la scadenza dell’obbligazione di garanzia. Risultato soccombente in sede di opposizione, il fideiussore ha proposto appello, ripresentando le medesime doglianze e chiedendo disporsi una nuova consulenza tecnica d’ufficio. Da parte sua, l’Istituto di credito ha controdedotto sul punto che il fideiussore si era obbligato a rimborsare alla banca la somma garantita “a semplice richiesta”, senza poter opporre alcuna eccezione, e ciò anche in ipotesi di nullità o annullabilità delle obbligazioni garantite. Il Collegio ha subito argomentato in ordine alla fondatezza di tale controdeduzione, atteso che, dall’analisi delle clausole contrattuali emergeva la totale autonomia del rapporto di garanzia rispetto a quello principale e precisando l’impossibilità per il garante di far valere le eccezioni inerenti a tale ultimo rapporto, salvi i casi di esecuzione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale avrebbe comunque potuto opporre l’exceptio doli. La Corte ha vieppiù precisato come l’esame delle questioni di merito proposte dal fideiussore risultasse addirittura precluso, pur argomentando, poi sull’infondatezza delle censure avanzate dalla parte appellante. In particolare, il Giudice del gravame ha escluso la sussistenza di qualsivoglia beneficio di escussione in capo al garante, che aveva genericamente dedotto la presenza di un saldo positivo nel rapporto di conto corrente di cui era titolare la debitrice principale, perché tanto era ricavabile dall’esame del regolamento negoziale. Al riguardo, infatti, viene in rilievo l’applicazione dell’art.1944, secondo comma, cc, a norma del quale “le parti possono però convenire che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore principale ”. Quanto alla mancata restituzione dei titoli cambiari da parte dell’istituto bancario, all’esito dell’ottenimento del decreto ingiuntivo e, dunque, relativamente al rischio di duplicazione dei titoli esecutivi per la medesima obbligazione, la Corte partenopea ha affermato che l’onere dell’offerta di restituzione dei titoli, previsto dall’art.66, comma 3, R.D. 14 dicembre 1933 n.1933, n.1669 per il creditore che intenda esercitare l’azione causale, non sussiste in capo alla banca che intenda esercitare, nei confronti del fideiussore dello scontatario, l’azione di restituzione della somma anticipata in virtù di contratto di sconto. Ed infatti, tale onere, imposto al portatore della cambiale, ha la finalità di impedire che il debitore possa essere esposto al rischio di una successiva richiesta di pagamento da parte di un terzo a mezzo di azione cambiaria e, per altro verso, di consentire al medesimo debitore di esercitare le azioni cartolari che possono spettargli. In sostanza, il fideiussore non può invocare l’adempimento di tale onere, proprio in quanto egli non è debitore “ex causa” (sia pure in senso lato, nel senso che non è neppure obbligato cambiario) e, pertanto, non è esposto al pericolo di un secondo pagamento in forza dell’azione cambiaria. Per tali ragioni, superate le altre – meno rilevanti ai fini della presente analisi – doglianze del fideiussore, la Corte d’Appello ha rigettato l’impugnazione, confermando la sentenza di primo grado e, pertanto, sancendo l’obbligo per il fideiussore di pagare la somma ingiunta dalla Banca, senza la possibilità di eccepire qualsivoglia vizio inerente al rapporto principale. Con tale pronuncia, il Collegio napoletano ha dato seguito all’orientamento affermato in seno alla giurisprudenza di merito del Tribunale di Napoli, già oggetto di ampio approfondimento su questa rivista (ex multis, Sentenza del Tribunale di Napoli, Sezione Civile terza, Giudice dott. Massimiliano Sacchi 14-03-2013 n.3583)....

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