Ex Parte Creditoris

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Rivista di informazione giuridica per avvocati e studi legali: expartecreditoris.it
Aggiornato: 2 ore 13 min fa

LIQUIDAZIONE DELL’ATTIVO: il Giudice Delegato può sospendere la vendita se il prezzo è inferiore a quello giusto

Mar, 28/01/2014 - 14:40
“In tema di liquidazione dell’attivo fallimentare, al giudice delegato è attribuito, ai sensi dell’art. 108, comma 3, l.fall, (nel testo “ratione temporis ”applicabile), il potere discrezionale di disporre la sospensione della vendita anche ad aggiudicazione avvenuta, purché sia esplicitato un coerente criterio idoneo a sorreggere l’esercizio di tale potere, con riguardo alle finalità cui la sua attribuzione risponde - la realizzazione del massimo valore pecuniario in vista del massimo risultato utile per la massa dei creditori - risolvendosi il suo difetto in una violazione di legge; il giudizio deve pertanto riguardare la inadeguatezza del prezzo offerto in sede di aggiudicazione rispetto a quello ritenuto giusto, per essere il primo notevolmente inferiore al secondo, ciò implicando non una mera comparazione tra prezzo offerto e ipotetico astratto valore del bene (nella specie, desunto solo da una nuova perizia), bensì la constatata esistenza di elementi idonei a far seriamente ritenere il prezzo di aggiudicazione notevolmente inferiore a quello giusto (quali nuove offerte di acquisto, indebite interferenze, modalità dì attuazione della vendita precedente)” È questo il principio di diritto confermato dal Tribunale di Ivrea nel decreto emesso in data 11 ottobre 2012, in materia di liquidazione dell’attivo fallimentare. Nel caso di specie, una società proponeva reclamo avverso il decreto con cui il Giudice Delegato rigettava l’istanza volta ad impedire il perfezionamento della vendita del compendio aziendale della società fallita. Le censure mosse dalla reclamante si fondavano sul presupposto che il prezzo offerto ai fini della liquidazione dell’attivo fosse notevolmente inferiore al valore del compendio immobiliare, come determinato dalle perizie di stima espletate nell’ambito della procedura fallimentare.  Inoltre la società in questione lamentava che il curatore avesse individuato il prezzo a base d’asta, non sulla base del valore commerciale come determinato dai CTU, bensì sulla base dell’offerta più alta tra quelle presentate. Tali doglianze, già disattese dal Giudice Delegato, non sono state accolte dal Collegio, che ha rilevato la libertà di forma delle vendite e la corretta applicazione dei meccanismi di “contrappeso” (pubblicità, obbligo di motivazione) che garantiscono tale principio di libertà. Sulla base di quanto affermato di recente dalla Suprema Corte, il Collegio ha accolto la tesi del Fallimento, secondo la quale l’equazione “giusto prezzo = perizia di stima” è fallace nel momento in cui le condizioni del mercato siano tali da condurre ad uno spostamento tra l’astratto valore del bene e il prezzo concretamente determinato dal confronto tra domanda e offerta. La perizia di stima non è dunque decisiva al fine della determinazione del “giusto prezzo” ed il Giudice Delegato ha il potere discrezionale di disporre la sospensione della vendita anche ad aggiudicazione avvenuta, sulla scorta, si intende, di un criterio idoneo a sorreggere l’esercizio di tale potere....

BENEFICIUM EXCUSSIONIS: opera esclusivamente in sede esecutiva

Lun, 27/01/2014 - 17:18
“Il beneficio d'escussione previsto dall'art. 2304 c.c. ha efficacia limitatamente alla fase esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo avere agito infruttuosamente sui beni della società, ma non impedisce allo stesso creditore d'agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest'ultimo, sia per poter agire in via esecutiva contro il medesimo, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio sociale risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del suo credito". E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione sesta, con ordinanza n.49 pronunziata in data 03/01/2014 in materia di beneficium excussionis previsto e disciplinato dall’art.2304 cc. Ebbene precisa la Corte, uniformandosi alle precedenti pronunce, il beneficio della preventiva escussione opera esclusivamente in sede esecutiva, precisando inoltre come la cartella di pagamento notificata al socio di una snc (quale coobbligato solidale), è l’atto conclusivo dell’iter che conduce alla formazione del titolo esecutivo, da parificare al precetto, che preannuncia l’azione esecutiva. Avverso tale documento non si applica l’art.2304 cc il quale, come detto, disciplina il beneficium excussionis relativamente alla sola fase esecutiva. Pertanto il creditore può agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo da azionare una volta che il patrimonio sociale risulti incampiente.  Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso proposto dall’ente di riscossione atteso che la Commissione Tributaria Regionale aveva erroneamente qualificato la cartella di pagamento quale atto esecutivo, ribadendo così il principio secondo il quale il beneficio d’escussione previsto ha efficacia limitatamene alla fase esecutiva, ma non impedisce al creditore di agire in sede di cognizione per munirsi di un titolo esecutivo nei confronti del socio....

RICORSO PER CASSAZIONE: l'avviso di ricevimento del ricorso può essere prodotto fino all'udienza di discussione

Lun, 27/01/2014 - 16:53
L’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ex art.149 cpc può essere prodotto fino all’udienza di discussione, ma prima che abbia inizio la relazione ex art.379 cpc. Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza, n. 1237 del 22-01-2014 accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria della Lombardia che aveva dichiarato inammissibile l’appello per mancata allegazione della notifica in sede di costituzione. Il Supremo Collegio ha così ribadito il principio di diritto già espresso dalla Sezioni Unite nel 2008 con sentenza n. 267, precisando che l'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ex art. 149 cpc – ovvero la raccomandata richiesta nel caso di notifica ex art.140 cpc -  deve essere prodotta a pena di inammissibilità entro l'udienza di discussione ma prima che abbia inizio la relazione di cui all’art.380 bis cpc. La produzione di tale avviso svolge, infatti, la funzione di provare l'avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell'avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione del detto avviso, e in assenza di attività difensiva del ricorrente, il ricorso è dichiarato inammissibile. Resta salva la possibilità per il ricorrente di demandare la rimessione in termini ove dimostri di non aver ricevuto il detto piego, offrendo, al tempo stesso, la prova di essersi attivato tempestivamente chiedendo all’ufficio postale un duplicato dell’avviso....

AVVOCATI: il presidente del CDA può svolgere la pratica forense

Lun, 27/01/2014 - 16:38
Il presidente del consiglio di amministrazione di una società può svolgere la pratica forense se non ha effettivi poteri di gestione. È questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, a sezioni unite, con sentenza n. 25797 pronunziata in data 18/11/2013 in materia di tirocinio forense. Nel caso di specie, la sentenza trae origine dal ricorso presentato da un praticante procuratore avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense che, in conformità con la delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di (Omissis), aveva revocato la sua autorizzazione all’esercizio della pratica forense sul presupposto che, essendo il ricorrente presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, tale carica fosse di per se incompatibile con l’esercizio della professione di avvocato. Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha accolto il ricorso atteso che il Consiglio Nazionale Forense aveva erroneamente omesso di accertare se l’incolpato, nella sua qualità di presidente dell’organo amministrativo, fosse titolare di effettivi poteri di gestione, a prescindere da ogni indagine sulla consistenza patrimoniale della società medesima e sulla sua conseguente esposizione a procedure concorsuali. In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, tenuto conto della nuova disciplina dell’incompatibilità della professione di avvocato con l’attività d’impresa, hanno cassato la sentenza impugnata rimettendo la causa al Consiglio Nazionale Forense.  ...

RITENUTE D’IMPOSTA: l’intervenuto fallimento non integra la causa di forza maggiore

Lun, 27/01/2014 - 16:23
Nel caso di omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del sostituto d'imposta, il fallimento della società, sebbene intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del termine per il versamento delle ritenute non integra la causa di non punibilità per forza maggiore. Il sostituto d'imposta, deve sempre ripartire le proprie risorse in modo da poter adempiere l'obbligo tributario. Così si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, terza sezione penale, con sentenza n. 3124 del 23/01/2014. Il caso trae origine dalla condanna inflitta all'amministratore di una società, per aver omesso il versamento delle ritenute d’imposta ex art. 10 bis del Dlgs 74/2000. Proposto ricorso per Cassazione l’amministratore condannato lamentava, tra l’altro, l’impossibilità di versare le somme dovute in quanto il fallimento della società stessa era intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del pagamento e chiedeva, dunque, applicarsi la causa di non punibilità per forza maggiore. Ebbene il Supremo Collegio ha ben precisato che il fallimento della società, sebbene intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del termine per il versamento delle ritenute, non integra la causa di non punibilità per forza maggiore il quale postula l’esistenza di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile. Nel caso di specie invero, osserva la Corte, l’amministratore aveva ricoperto la detta funzione già quando la società versava in stato di crisi economica e di liquidità ragion per cui il mancato pagamento era circostanza allo stesso ben nota. Da cui ne consegue che la relativa omissione è il risultato di una consapevole decisione. In merito poi all’ulteriore doglianza sollevata dal ricorrente relativa all’assenza delle certificazioni attestanti le somme trattenute ai sostituti, la Corte ha viepiù precisato che, per provare la violazione, è sufficiente l’allegazione dei modelli 770 provenienti dallo stesso datore di lavoro atteso che la violazione era emersa sulla base degli accertamenti automatici svolti dall’Agenzia delle Entrate. I Giudici di legittimità, hanno sulla basi di tali circostanza ritenute infondate tali eccezioni, pur accogliendo il ricorso seppur limitatamente alla conversione della pena detentiva....

Variazione domicilio fiscale: conseguenze

Lun, 27/01/2014 - 12:13
In caso di variazione del domicilio fiscale del contribuente, l’ufficio territorialmente competente ad emettere gli accertamenti e ricevere le eventuali istanze di rimborso è quello del nuovo domicilio.  E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione tributaria, con sentenza n. 28398 depositata in data 19/12/2013. Nel caso di specie, la sentenza trae origine dal ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della Commissione Tributaria Regionale che aveva accolto la richiesta di rimborso del credito IVA avanzata dal Fallimento di una società di costruzioni presso l'Ufficio di Milano, ove aveva la sede, ma relativo ad anno in cui la dichiarazione era stata presentata a Messina. In particolare, l’ente di riscossione lamentava l'omessa pronuncia sull'eccezione di incompetenza territoriale dell'Ufficio di Milano chiedendo pertanto alla Corte se territorialmente competente a ricevere l'istanza di rimborso del credito IVA fosse l'Ufficio che aveva ricevuto la dichiarazione dei redditi nella quale detto credito era stato esposto (interpretazione favorevole all’Agenzia), ovvero l'Ufficio nel cui ambito territoriale il contribuente aveva il domicilio fiscale al momento della presentazione dell'istanza (interpretazione favorevole al contribuente). Ebbene, la Suprema Corte, adita sul caso de quo, si pronunziava in favore della società, sull’assunto che il credito in relazione al quale la curatela controricorrente (con sede nel capoluogo lombardo) aveva avanzato nell'ottobre del 2002 l'istanza di rimborso, era stato esposto nella dichiarazione IVA relativa all'anno d'imposta 1992 presentata dalla società in bonis (poi dichiarata fallita), avente originariamente sede nella provincia di Messina. Secondo i giudici di legittimità, a norma dell'art. 40, 1° co, DPR n. 633 del 1972, l'ufficio competente a ricevere l'istanza di rimborso va dunque individuato in quello di Milano nella cui circoscrizione la contribuente prima, e la curatela poi, avevano il domicilio fiscale al tempo della relativa presentazione. In motivazione, gli ermellini hanno statuito il principio di diritto secondo cui “una volta intervenuta la modifica del domicilio fiscale, il contribuente, così come è esposto all'azione accertatrice dell'ufficio finanziario, nella cui circoscrizione ricade il domicilio modificato, può legittimamente avanzare le istanze restitutorie a detto nuovo ufficio, il quale in ossequio al menzionato criterio di buona fede col contribuente, non può invocare l'incompetenza per territorio per sottrarsi all'esame della domanda di rimborso, pur se riferita ad annualità antecedente quella del trasferimento del domicilio fiscale”....

SPESE PROCESSUALI: la soccombenza è rimessa al potere decisionale del giudice di merito

Ven, 24/01/2014 - 15:54
In materia di spese processuali, l'identificazione della parte soccombente è rimessa all’ insindacabile potere decisionale del Giudice di merito, con l'unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.  È questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione civile, sezione terza, con la sentenza n.892 del 17/01/2014. Nel caso di specie, la Corte di appello aveva condannato la parte parzialmente vittoriosa al pagamento dei due terzi delle spese processuali del grado, compensandone la restante parte. Per la cassazione di tale pronuncia la parte appellante adiva la Suprema Corte, deducendo, tra l’altro, la violazione di legge in riferimento agli artt. 91 e 92 del cpc.  In particolare la parte lamentava che, essendo essa risultata vittoriosa (anche solo parzialmente) in sede di gravame, non poteva essere condannata al pagamento di parte delle spese e che le stesse dovevano essere poste a suo vantaggio. Ebbene la Corte di Cassazione, premesso il divieto di condanna alle spese della parte totalmente vittoriosa, ha ribadito che l'identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale dei giudici precisando poi che il sindacato di legittimità sulle pronunce adottate dai giudici che abbiano disposto la compensazione parziale o integrale delle spese, deve avere ad oggetto una verifica in astratto dei motivi che abbiano giustificato la pronuncia e l’adeguatezza delle argomentazioni. Tali decisioni saranno censurabili solo se fondate su ragioni palesemente illogiche o inconsistenti e cioè tali da non rendere intellegibile la ragione sottesa alla decisione adottata. Sulla base di tali presupposti, considerato che i Giudici di merito avevano posto a carico di parte appellante i due terzi delle spese processuali del grado: “in ragione dell’esito della lite in cui gran parte dei motivi di gravame sono stati respinti” il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso precisando che le ragioni poste a fondamento della compensazione erano ben lungi dall’integrare il vizio della motivazione.  ...

RIPETIZIONE INDEBITO: non si applica il saldo zero in caso di omessa produzione degli estratti dall’inizio del rapporto

Ven, 24/01/2014 - 15:20
Si ringrazia l’Avv. Giorgio A. Marsano  del Foro di Lecce  per la segnalazione della sentenza  e per la redazione della massima Nel caso in cui il correntista agisca in ripetizione, previo accertamento positivo del presunto credito da esso vantato nei confronti della Banca, è sull'attore che grava l'onere di dimostrare, ai sensi dell'art.2697 0.1 c.c., il fondamento della sua pretesa. Nell'azione di ripetizione di indebito, l'inesistenza del credito della Banca deve qualificarsi non come fatto impeditivo della pretesa azionata dal correntista — il cui onere probatorio incomberebbe, allora sì, sul convenuto, ai sensi dell'art.2697, co. 2 c.c.-, ma piuttosto come fatto costitutivo della pretesa attorea- il cui onere grava, secondo la regola generale di cui all'art.2697, co.1 c.c., su chi fa valere in giudizio il diritto. A fronte di una azione di ripetizione di indebito, in difetto di prova circa la provenienza del primo saldo debitore da clausole ed addebiti rispettivamente invalide ed illegittimi, il saldo iniziale da cui effettuare il ricalcalo dei rapporti dare avere tra le parti deve coincidere con quello effettivamente risultante dal primo estratto conto prodotto in atti. (Avv. Giorgio A. Marsano - © Riproduzione riservata) Cosi si è espresso il Tribunale di Brindisi,  dott.ssa Sara Foderaro, con sentenza del 13.01.2014, chiarendo i rapporti processuali tra correntista ed istituto di credito, in materia di ripartizione dell’onere probatorio. La decisione è stata assunta a definizione di un’azione di ripetizione di indebito di somme illegittimamente corrisposte, per interessi praticati a tassi determinati  con rinvio agli  usi su piazza e capitalizzazione trimestrale degli stessi, proposta da una società correntista nei confronti dell’Istituto di credito. Il Tribunale ha avuto, anche in questo caso, la possibilità di precisare ulteriormente i termini dell’onere probatorio incombente sulle parti in questo tipo di azione, ribadendo che, laddove il correntista agisca in ripetizione, previo accertamento positivo del presunto credito da esso vantato nei confronti della banca, è sull'attore che grava l'onere di dimostrare, ai sensi dell'art. 2697, co. 1 cc, il fondamento della sua pretesa e, dunque, tra l'altro, che il saldo negativo eventualmente risultante dal primo estratto conto disponibile derivi da condizioni contrattuali e addebiti, rispettivamente, invalide ed illegittimamente applicati dalla banca. Nel caso in esame la parte attrice aveva prodotto gli estratti conto per un periodo limitato e, comunque, non dalla data dell’impianto del rapporto.  Va evidenziato che la questione in ordine alla produzione degli estratti conto ha assunto ancor più rilievo nel giudizio de quo, poiché il primo estratto conto disponibile agli atti riportava un saldo iniziale negativo e, cioè, a debito del correntista, di cui quest’ultimo, in mancanza di produzione degli estratti conto per il periodo precedente da parte della Banca, pretendeva fosse portato a zero nel ricalcolo affidato al CTU nominato. Il Giudicante non ha ritenuto decisiva la argomentazione fondata sulla implicita continenza di una domanda di accertamento negativo del credito della banca in ogni domanda di ripetizione di indebito e tanto rilevando che nell'azione di ripetizione di indebito, l'inesistenza del credito della banca debba qualificarsi non come fatto impeditivo della pretesa azionata dal correntista — il cui onere probatorio incomberebbe, allora sì, sul convenuto, ai sensi dell'art. 2697, co. 2 cc, ma piuttosto quale fatto costitutivo della pretesa attorea— il cui onere grava, secondo la regola generale di cui all'art. 2697, co. 1 c.c., su chi fa valere in giudizio il diritto. In virtù di tale principio che il Tribunale di Brindisi ha espressamente affermato che, in caso di ripetizione di indebito in materia bancaria, sul correntista grava in realtà l'onere non di provare fatti inesistenti, bensì di provare il fatto positivo degli addebiti illegittimamente a suo carico effettuati dalla banca, mediante la produzione di documenti - gli estratti conto - dotati di indiscutibile oggettività materiale.  E’ da tanto che discende, quindi,  che il saldo iniziale non può essere modificato se il correntista non prova che lo stesso è stato determinato per effetto di illecite pratiche contrattuali dell’Istituto di credito. Medesima questione è già stata trattata dalla presente rivista nel commento alla Sentenza del Tribunale di Arezzo, sez dist. Montevarchi, dott. Carlo Breggia del 30-05-2013 n. 91  con la quale è stata risolta allo stesso modo la questione in ordine all’onere probatorio incombente su ciascuna delle parti. È da rilevare che anche la decisione del Tribunale di Arezzo, con la sentenza innanzi richiamata, è stata assunta in un caso di azione di ripetizione per indebito e, anche in tale giudizio, i documenti prodotti dall’attore riguardavano un periodo parziale  dei rapporti in cui il primo saldo disponibile era a debito del correntista. Il Tribunale non ha condiviso, anche in questo caso, la tesi difensiva dell’attore, volta ad ottenere la rideterminazione del saldo con l’azzeramento del saldo iniziale passivo, secondo cui l’onere probatorio debba ricadere sul creditore in senso sostanziale ossia sulla Banca e non sul creditore che agisce al solo fine di far dichiarare non dovuto quanto illegittimamente preteso dall’Istituto di credito. Il Tribunale ha correttamente - e in modo specifico - motivato l’infondatezza della pretesa attorea, precisando che  l’azione proposta non è qualificabile come accertamento negativo di una altrui pretesa coltivata anche in sede stragiudiziale, ma quale azione di restituzione di indebito oggettivo di somme che si assumerebbero pagate  o trattenute illegittimamente, per cui l’onere non può che ricadere sul correntista  che deve ricostruire per intero l’andamento del conto  pena l’assoggettamento ai diversi dati risultanti dalle prove disponibili. In ordine alla pretesa di sanzionare con il cd “saldo zero” la mancata produzione da parte della Banca degli estratti conto in quanto in possesso di quest’ultima, il Giudice, nella richiamata decisione, precisa ulteriormente che “porre a saldo zero lo stato del conto corrente a una certa data successiva al suo inizio, anziché, come risulterebbe dalla documentazione di causa, un saldo negativo, costituisce una manifesta violazione del principio che regola l’onere della prova, perché, appunto premia chi l’onere non ha adempiuto pur avendone l’obbligo e sanziona chi l’onere non era tenuto a rispettare: con il cd saldo zero si abbuona al cliente, in definitiva, un saldo sicuramente negativo a una certa data, senza avere la prova che fosse negativo per colpa di illecite pratiche contrattuali dell’istituto piuttosto che per colpa della condotta morosa del cliente, e senza neppure avere la possibilità di esperire accertamenti in proposito”. In entrambe le decisioni in commento, poi, i Giudicanti hanno ritenuto impropriamente invocato il principio della vicinanza della prova  per affermare un onere della Banca di produrre la documentazione in possesso della stessa.  Anche sotto tale profilo è corretta la statuizione ampiamente  motivata, osservando che, pur a voler considerare che la Banca è contraente forte rispetto al correntista, tale circostanza non ha alcuna incidenza sull’accesso alla prova della parte che ha ricevuto o poteva pretendere  gli estratti del conto corrente, per cui non può ritenersi eccessivamente difficile fornire la prova, specie nel caso in cui il correntista ha disperso i documenti ricevuti  o si sia disinteressato ad averli.  Il principio di vicinanza della prova – come affermato dai Giudice delle decisione in commento – è stato elaborato in giurisprudenza per dare concreta attuazione dell’art. 24 della Costituzione, e lo stesso soccorre solo nel caso di difficoltà oggettiva nel dare la prova di un fatto mentre non può trovare applicazione laddove la difficoltà dipende  da una condotta negligente della parte. In conclusione, alla luce delle decisioni richiamate, la giurisprudenza è unanime e costante nel ritenere che in caso di azione di ripetizione di indebito, in difetto di prova circa la provenienza del primo saldo debitore da clausole ed addebiti rispettivamente invalide ed illegittimi, il saldo iniziale da cui effettuare il ricalcolo dei rapporti dare-avere tra le parti deve coincidere con quello effettivamente risultante dal primo estratto conto prodotto in atti....

IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: la sussistenza del danno non deve essere provata

Ven, 24/01/2014 - 12:45
In tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale (ancorché non automatica e necessaria) della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l'Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto. E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione seconda, con sentenza n.1070 pronunziata in data 20/01/2014 in materia di risarcimento del danno non patrimoniale. Nel caso di specie, i ricorrenti avevano impugnato per revocazione la sentenza della prima sezione civile della Corte di Cassazione che aveva dichiarato l'inammissibilità del ricorso dagli stessi proposto per l'ottenimento dell'equa riparazione in ordine alla durata irragionevole di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Lazio. In particolare, i ricorrenti avevano censurato la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè dell'art. 6 p. 1 della C.E.D.U., che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale libero da qualsiasi onere probatorio. Ebbene, la Cassazione civile, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto fondato il ricorso sul presupposto che, in tema di equa riparazione ai sensi della L.89/2001 art.2, la sofferenza morale per l'eccessivo protrarsi di un processo amministrativo o contabile, quale conseguenza normale di tale irragionevole durata, non può essere disconosciuta per la sola mancanza di istanze dirette a sollecitare la decisione, trattandosi di omissione rilevante solo ai fini dell'apprezzamento dell'entità del lamentato pregiudizio non patrimoniale, non già per escluderlo. In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, hanno accolto il ricorso per revocazione e, per l’effetto, revocato la sentenza impugnata rinviando la causa innanzi alla Corte territoriale....

ESECUZIONE FORZATA: LA MANCATA OPPOSIZIONE EX ART.512 C.P.C. ESCLUDE L’AZIONE DI RIPETIZIONE DELL’INDEBITO

Gio, 23/01/2014 - 18:15
“In tema di esecuzione forzata, il provvedimento che chiude il processo esecutivo, pur non avendo, in ragione della mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato nelle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, atteso che nell’ambito del procedimento esecutivo sussiste un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti tra le parti.  Conseguentemente, il soggetto esecutato che non si sia avvalso dei rimedi oppositivi specificatamente previsti nell’ambito del procedimento esecutivo (in particolare dell’opposizione ex art. 512 c.p.c. avverso all’ordinanza di assegnazione della somma conseguente alla conversione del pignoramento), non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sul presupposto dell’illegittimità dell’esecuzione forzata per ragioni sostanziali.” È questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Appello di Genova, III sezione civile, con la sentenza n. 40 del 15/01/2014, che ha riformato la decisione emessa in primo grado, con la quale era stato confermato il decreto ingiuntivo ottenuto dalla debitrice, a titolo di restituzione delle somme incassate in eccedenza in sede esecutiva, all’esito dell’approvazione del piano di riparto. In particolare, la Corte ha correttamente ritenuto che avverso il provvedimento di assegnazione delle somme il debitore esecutato deve esperire il rimedio tipico previsto dal legislatore ossia l’opposizione ex art. 512 cpc. Dalla mancata impugnazione del provvedimento, che non ha efficacia di giudicato, stante l’assenza di contenuto decisorio, infatti, deriva la sua consequenziale definitività insita nella stessa chiusura del procedimento e l’impossibilità di esperire autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore, per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sul presupposto dell’illegittimità dell’esecuzione forzata per ragioni sostanziali....

Esecuzione immobiliare: conflitto tra l’aggiudicatario e il coltivatore diretto

Gio, 23/01/2014 - 17:19
In materia di vendita coattiva nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare, il conflitto tra l’acquirente di beni agricoli e l’affittuario degli stessi si risolve sulla base dell’assunto che la locazione a coltivatore diretto è opponibile al terzo aggiudicatario solo nel limite del novennio, in quanto l’art.2923, II comma, c.c. ed il diritto attribuito a tale soggetto, risulta compatibile con l’art. 41 della legge n. 203/1982. Questo è il principio espresso dal Tribunale di Taranto, sezione specializzata agraria, relatore dott. Claudio Casarano, con la sentenza n. 2363 del 26/11/2013, che ha deciso sulla opposizione proposta dall’aggiudicatario di un terreno agricolo concesso in locazione ad un coltivatore diretto, in virtù di un contratto di durata quindicennale registrato prima del pignoramento ma non trascritto.  La sentenza in esame affronta il problema della compatibilità dell’art. 41 della legge 203/1982, che prevede l’opponibilità dei contratti agrari ultranovennali ai terzi anche se non trascritti, con l’art. 2923 comma 2 cc, propendendo per la soluzione positiva, e del conflitto tra il diritto del locatario/coltivatore diretto e l’aggiudicatario. L’art. 41 della citata legge – infatti – costituisce l’eccezione alle regole previste dall’art. 1350 n. 8 cc, in virtù della quale soggiacciono alla forma scritta ab substantiam i contratti di locazione di beni immobili per una durata superiore a nove anni, e dall’art. 2643 n. 8 cc, che richiede la trascrizione per l’opponibilità ai terzi, con la conseguenza che anche se solo stipulato per iscritto e munito di data certa ex art. 2704 cc ma non curata la pubblicità, un contratto di affitto a coltivatore diretto ultranovennale può essere opponibile al terzo. Se il terzo è, però, l’aggiudicatario dell’immobile, allora si pone il problema del coordinamento e del conflitto tra l’interesse del titolare del diritto di godimento, che gode del favor del legislatore, in quanto ritenuto parte debole, e dell’aggiudicatario dell’immobile pignorato ed oggetto di locazione.  Ritiene il Tribunale con la sentenza in esame che, in tal caso, prevale l’interesse dell’aggiudicatario con la conseguenza che le locazioni ultranovennali non trascritte sono opponibili solo nei limiti di un novennio dall'inizio della locazione, da un lato, per un’interpretazione sistematica delle norme, in quanto l’art. 2923 comma 2 cc disciplina una fattispecie diversa rispetto a quanto previsto dall’art. 1599 cc co. 1, che – per converso - è incompatibile con l’art. 41 della citata legge, dall’altro perché l’aggiudicatario è titolare di vero e proprio diritto, che trova la sua ratio nello scopo di favorire il realizzo dei beni pignorati e, quindi, per tutelare gli interessi dei creditori della procedura esecutiva rispetto al debitore ...

REATO DI USURA: l’incertezza normativa esclude la colpa dei direttori di filiale

Gio, 23/01/2014 - 16:37
  Si ringrazia per la segnalazione  della sentenza. la Dott.ssa. Gioia Rosania   Non costituisce reato ex art.644 cp la condotta dei direttori di filiale degli istituti di credito che abbiano concesso finanziamenti a tassi rivelatisi usurari, ma determinati in misura conforme alle prescrizioni periodicamente impartite dai decreti ministeriali in materia di individuazione del tasso-soglia antiusura, per mancanza dell’elemento soggettivo. Se, da una parte, è condivisibile l’orientamento espresso dalla Cassazione circa la possibilità, per ciascun operatore bancario di livello e in posizione verticistica, di rilevare la palese la contrarietà alla legge (per l'esattezza al disposto normativo di cui all'art.644 4 comma c.p.) della norma extrapenale (Istruzioni della banca d'Italia) che individuava, all’epoca dei fatti di causa, il metodo per la determinazione del tasso soglia senza computare la CMS, d’altro canto, non sarebbe neppure logicamente e concretamente esigibile affermare che, a fronte di espliciti decreti ministeriali che andavano periodicamente ad integrare il precetto della norma incriminatrice i singoli organi apicali delle Banche e ancor più i singoli direttori di filiale preposti alle sedi periferiche degli Istituti di credito, potessero mettere in discussione tali modalità di computo. Come peraltro osservato dalla Suprema Corte, potrebbe ritenersi che fosse addirittura preclusa la possibilità, per i singoli direttori di filiale, anche i più attenti alla ratio della norma incriminatrice del quinto comma dell’art.644 cp, di discostarsi dai criteri predeterminati dai sistemi operativi centralizzati delle varie banche, strutturati su conteggi conformi alle direttive della Banca d’Italia. Esprimendo tali principi di diritto, il Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale penale di Arezzo, con sentenza del 29 gennaio 2013, n.519, ha emesso provvedimento di proscioglimento nei confronti di alcuni dirigenti di vertice di istituti di credito, chiamati a rispondere, nella qualità di  direttori di sede o di filiale, del reato di usura in riferimento ad alcune operazioni di finanziamento, per le quali sarebbero state pattuiti interessi superiori ai limiti previsti dalla legislazione antiusura. In particolare è accaduto che, relativamente ad alcuni prestiti concessi ad una società da tre istituti di credito, i dirigenti di sede o di filiale di questi ultimi sono stati indagati per il reato di cui all’art.644 cp, sulla scorta di un conteggio del tasso d’interesse effettivamente praticato che contemplasse anche la clausola anatocistica e la commissione di massimo scoperto, oneri che, sebbene connessi all’erogazione del credito, non erano stati inclusi nel tasso d’interesse effettivo, come pubblicizzato. All’esito delle indagini preliminari, sulla base della valutazione di una prima consulenza tecnica, il P.M. aveva richiesto l’archiviazione per insussistenza dell’elemento soggettivo, stante il minimo sforamento del “tasso soglia” antiusura. La richiesta era stata però disattesa dal GIP, che aveva disposto un supplemento di perizia, ritenendo la prima erronea nella parte in cui aveva conteggiato separatamente  la CMS e la clausola anatocistica, dando istruzione al consulente di ricostruire un solo TEG, comprensivo di entrambe le voci di spesa. Svoltosi il nuovo accertamento tecnico, era emerso lo sforamento del tasso soglia per tutti e tre gli istituti di credito, onde la richiesta di rinvio a giudizio da parte del PM. Per valutare la posizione degli imputati, il GUP ha ritenuto, anzitutto, di dover ricostruire l’evoluzione della normativa antiusura (di cui si è ampiamente parlato su questa rivista; cfr. "USURA BANCARIA : ECCO LE REGOLE"), partendo dall’assunto che l’art.644 cp è, nella sua peculiare configurazione, una norma penale “in bianco”, il cui precetto è destinato periodicamente ad essere integrato da quanto previsto dai decreti ministeriali trimestrali di rilevazione dei tassi medi effettivi globali, sulla cui base viene ricalcolato il “tasso soglia”. Orbene, il Giudice aretino ha premesso che in tutti i Decreti Ministeriali emanati a partire dal 22.03.97 viene sempre specificato nelle premesse che "le banche e gli intermediari finanziari al fine di verificare il rispetto del limite di cui all'art.2 comma 4 L. 108/96si attengono ai criteri di calcolo stabiliti nelle Istruzioni per la rivelazione del TEG ai sensi della Legge antiusura emanate dalla Banca di Italia e dall'Ufficio Italiano dei Cambi”. In sostanza, come ha avuto modo di osservare la stessa Corte di Cassazione, Le Istruzioni della Banca d'Italia e le relative metodologie di calcolo sono state recepite dai decreti che vanno appunto ad integrare la norma penale parzialmente in bianco dell'art.644 3 comma c.p. Sulla base di tale premessa, il GUP ha notato che, dando ormai per acquisito l’orientamento della Corte di Cassazione circa l’invalidità della clausola anatocistica pura e semplice (a decorrere dal 2000, infatti, le Banche hanno dovuto applicare ai conti correnti in essere la pari periodicità degli interessi a debito ed a credito, come da delibera del CICR del 02.02.2000) e circa la necessità di includere la commissione di massimo scoperto tra gli oneri rilevanti al fine del calcolo dell’usura, tuttavia, all’epoca dei fatti richiamati nei capi d’imputazione, le Istruzioni della Banca d’Italia ed i decreti ministeriali di rilevazione trimestrale espressamente escludevano la commissione di massimo scoperto dal conteggio del tasso soglia. Successivamente, la Banca d’Italia ha chiarito i motivi della rilevazione separata della CMS, indicando i criteri con i quali tenere conto anche di quest’ultima, al fine di fissare una “CMS soglia” (cfr. bollettino di vigilanza del 2 dicembre 2005), ma solo a decorrere dal 2009, con la legge 28.01.2009 si è sancita la necessità di computare anche tale peculiare onere tra quelli determinanti il livello del TEGM, così rideterminando il livello del tasso soglia. Tale innovazione normativa, che la Banca d’Italia ha interpretato come vigente solo “pro futuro”, è stata poi oggetto di una successiva pronuncia della Suprema Corte, che ha chiarito la necessità di prescindere dall’interpretazione dell’organo di vigilanza, in quanto stridente con il dettato normativo di fonte primaria, con la conseguenza che, anche per condotte risalenti al periodo precedente alla vigenza della norma di cui trattasi, la commissione di massimo scoperto doveva includersi nel calcolo del TEG (cfr. sent. n.12028 del 19.03.2010). Nella pronuncia da ultimo richiamata, la Cassazione aveva finito per prosciogliere gli imputati per mancanza dell’elemento soggettivo, ritenendo però comunque sussistente il reato di usura, suscitando le critiche da parte di quella dottrina che aveva sottolineato come il dictum della Suprema Corte finisse per violare il principio di legalità in materia penale, posto che il legislatore stesso aveva rimesso l'integrazione della norma penale alla individuazione trimestrale dei tassi soglia, da farsi attraverso i decreti ministeriali.  In altre parole, il corpo normativo si veniva a “completare” con le rilevazioni trimestrali del tasso. A tali critiche si aggiungevano quelle di chi notava le possibili implicazioni retroattive di una tale interpretazione. Il GUP di Arezzo, dato atto di tali critiche, non ha, però, con riferimento al caso di specie, potuto evitare di fare applicazione di analogo principio. Infatti, pur considerando la palese contrarietà della norma extrapenale alla disposizione penale primaria (art.644, 4 comma cp), ragion per cui qualunque operatore bancario di livello ed in posizione verticistica avrebbe potuto rilevare tale discrasia, nel caso di specie poteva risultare di assoluta evidenza che nessuno dei direttori di filiale coinvolti in giudizio avesse la minima consapevolezza di violare scientemente il disposto dell’art. 644 cp e, di conseguenza, in capo a nessuno di essi è stato ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato. In sostanza, ha precisato il Tribunale, anche a voler ricostruire la fattispecie nella maniera più penalizzante per gli imputati, la ricostruzione della normativa in materia di usura ed i problemi relativi all’interpretazione di quest’ultima, nonché soprattutto alla luce della – sostanziale – vincolatività per gli operatori bancari delle indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, alla cui vigilanza essi sono sottoposti, comunque non sarebbe stato possibile configurare in alcun modo una qualche responsabilità colpevole. Per tali motivi, con una chiara, lineare ed articolata motivazione, il GUP di Arezzo ha prosciolto gli imputati, con dichiarazione di non luogo a procedere nei confronti degli stessi, “perché i fatti non costituiscono reato”.  ...

CONCORDATO PREVENTIVO: è legittima la compensazione debiti/crediti di anticipazioni bancarie

Gio, 23/01/2014 - 14:45
Ove il rapporto bancario prosegua nel corso della procedura concordataria,  gli importi pervenuti alla Banca successivamente alla data di deposito della domanda di concordato preventivo con riserva sono legittimamente incamerati dall’Istituto, ove trattenuti per effetto di validi ed opponibili patti di compensazione tra crediti e debiti, fino al provvedimento di sospensione dei rapporti bancari. È legittima la condotta della Banca che operi la compensazione debiti/crediti con riferimento alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", effettuate dalla Banca prima dell’ammissione della Società correntista alla procedura di concordato preventivo, in presenza di un contratto di conto corrente che è proseguito dopo l’apertura della procedura di pre-concordato fino al momento della sospensione del rapporto. Quando il rapporto bancario prosegue nel corso della procedura concordataria, con piena efficacia di tutte le clausole pattizie ad esso riconducibili, anche il patto di compensazione, inscindibilmente interdipendente all’operazione creditizia è destinato ad operare in corso di procedura, finchè non intervenga una causa di scioglimento del rapporto, e ciò in deroga al principio di parità di trattamento dei creditori che impedisce il pagamento. E’ quanto disposto dal Tribunale di Monza, giudice dott. Mirko Buratti, nell’ambito di un procedimento ex art. 700 cpc, con cui una società ammessa alla procedura di concordato preventivo ha chiesto ordinarsi ad un Istituto di credito di mettere a disposizione le somme incamerate dall’Istituto a titolo di compensazione, a partire dalla data di ammissione della società alla procedura di concordato. In particolare, la banca aveva operato la compensazione di debiti/crediti relativi alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", trattenendo le somme derivanti da crediti ceduti in favore dell’Istituto a fronte di anticipazioni erogate alla società.  Al contempo, la società in concordato aveva ottenuto dal Tribunale la sospensione del rapporto bancario ai sensi dell’art. 169 bis lf. Il Tribunale di Monza affronta, pertanto, la questione attinente alla legittimità della condotta assunta dall’Istituto di credito, nell'operare la compensazione debiti/crediti con riferimento alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", effettuate dalla Banca prima dell’ammissione della Società correntista alla procedura di concordato preventivo (nella specie, ancora nella fase con riserva) in presenza di un contratto di conto corrente che è proseguito dopo l’apertura della procedura di pre-concordato fino al momento della sospensione del rapporto. Il Tribunale, correttamente, mette a fuoco la problematica, evidenziando come si tratti di stabilire se la Banca abbia diritto di trattenere le somme versate da terzi a seguito della presentazione delle ricevute e di "compensarle" attraverso il mezzo tecnico delle annotazioni sul conto ad attivo della Società correntista, ma ad elisione delle partite di segno opposto, ovvero, se deve considerarsi obbligata a consegnare dette somme all'imprenditore in concordato preventivo. Sul punto, si riporta, in primis, il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui - ferma la proseguibilità e la concreta prosecuzione del rapporto bancario durante la procedura concorsuale minore - occorre distinguere a seconda che “la convenzione relativa alla operazione di anticipazione di ricevute bancarie regolata in conto preveda, o no, una clausola che attribuisca alla banca il diritto di "incamerare" le somme riscosse, ossia il c.d. patto di compensazione o, secondo altra definizione, il patto di annotazione e di elisione nel conto delle partite di segno opposto”; e secondo cui, nell'ipotesi affermativa, “la banca ha diritto di "compensare" il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse, con il proprio credito verso lo stesso cliente conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che il suo credito sia anteriore alla ammissione alla procedura” ed il suo debito posteriore (cfr. Cass. 1° settembre 2011 n.17999, Cass. 5 agosto 1997 n.7194, 23 luglio 1994 n. 6870). Viene, pertanto, correttamente evidenziato come dal principio che l'ammissione alla procedura di concordato preventivo non determina lo scioglimento del rapporto di conto corrente bancario e di quelli di volta in volta in esso confluenti discenda necessariamente che la prosecuzione attiene al rapporto nella sua interezza e si estende a tutte le clausole pattizie che lo regolano, ivi compresa quella con la quale le parti hanno attribuito alla banca il diritto di "incamerare" le somme riscosse per conto del correntista. Secondo il ragionamento della Suprema Corte, “risulta inammissibile, qualsiasi costruzione giuridica incentrata sulla prosecuzione - nel corso di una procedura concorsuale minore - del complesso unitario rapporto di conto corrente bancario, ma con esclusione del patto, (inscindibile rispetto a quel rapporto) della "compensazione". Orbene, il Tribunale osserva come nella fattispecie in esame vi fosse un patto di compensazione, opponibile alla procedura concordataria, dal momento che quando il rapporto bancario nel suo complesso prosegue in corso di procedura, come nella fattispecie accaduto, con piena efficacia di tutte le clausole pattizie ad esso riconducibili, è necessariamente antecedente all’apertura della procedura, con la conseguenza che anche il patto di compensazione, inscindibilmente interdipendente all’operazione creditizia è destinato ad operare in corso di procedura, finchè non intervenga una causa di scioglimento del rapporto, e ciò in deroga al principio di parità di trattamento dei creditori che impedisce il pagamento. A questo punto, si precisa, come solo attraverso il ricorso allo strumento autorizzativo dello scioglimento o della sospensione del rapporto contrattuale, di cui all’art. 169 bis lf, sia possibile neutralizzare gli effetti dei contratti in essere ritenuti pregiudizievoli, con conseguente effetto caducatorio dei patti (principali ed accessori) assunti antecedentemente, a condizione che ciò avvenga in regime di reciprocità, cioè che vi sia il contestuale venir meno anche dei vantaggi che sarebbero derivati dalla loro sopravvivenza. Nel caso di specie, il Tribunale aveva autorizzato la sospensione del rapporto bancario, per cui, correttamente, si rileva come i rapporti bancari siano regolarmente proseguiti dopo la presentazione della domanda di concordato con riserva finché non è intervenuta la sospensione dei relativi contratti pendenti tra le parti per effetto del provvedimento adottato dal Tribunale. Sulla base dei principi in precedenza esposti, il Tribunale giunge a ritenere legittimamente incamerati e trattenuti, per effetto dei validi patti di compensazione tra crediti e debiti, gli importi pervenuti alla Banca successivamente alla data di deposito della domanda di concordato preventivo con riserva e tanto fino alla data del deposito dell'istanza di scioglimento o sospensione dei rapporti bancari, data alla quale devono ricondursi gli effetti sostanziali del provvedimento di sospensione successivamente intervenuto. In conclusione, il Tribunale ha accolto la domanda cautelare relativamente ai soli incassi intervenuti, in favore della Banca, successivamente alla data del deposito dell'istanza di scioglimento o sospensione dei rapporti bancari....

VALIDA LA DICHIARAZIONE ANNUALE TRAMITE IL MODELLO IVA 74 BIS

Mer, 22/01/2014 - 17:21
 Nessun rilievo può essere mosso al curatore che presenti correttamente e nei termini di legge il modello IVA previsto dall'art. 74 bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 contenente tutti i dati non risultanti dalla dichiarazione annuale IVA relativi al dettaglio delle operazioni effettuate nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento. Con il regolare deposito del modello IVA 74 bis, il curatore adempie infatti all'onere di presentare la dichiarazione IVA in relazione al periodo pre – fallimentare con conseguente diritto alla detrazione del credito d'imposta. Sono questi i principi sanciti dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione V, nella sentenza n. 28283 del 18 dicembre 2013. La vertenza nasceva dal fatto che l'Agenzia delle Entrate aveva emesso una cartella di pagamento nei confronti del fallimento di una società per azioni per omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA relativa all'anno di imposta 2000. La curatela fallimentare presentava a questo punto ricorso avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano che accoglieva l'impugnazione, ma la sentenza favorevole al contribuente fu successivamente riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che accolse i motivi di doglianza sollevati dall'Agenzia delle Entrate. Il fallimento proponeva pertanto ricorso per cassazione, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 8 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, con particolare riferimento agli effetti giuridici del modello IVA 74 bis. La curatela fallimentare contestava il fatto che la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva attribuito un valore decisivo ad un mero errore formale e conseguentemente negato l'efficacia della dichiarazione contenuta nel modello IVA 74 bis. Nell'esaminare la questione, la Corte di Cassazione si è inizialmente soffermata su quanto disposto dall'art. 8, comma 4, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. L'art. 8, comma 4, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 prevede che le dichiarazioni annuali in materia di imposta sul valore aggiunto, sempre che i relativi termini di presentazione non siano ancora scaduti, deve essere presentata dai curatori o dai commissari liquidatori. Per quanto concerne le operazioni registrate nella parte dell'anno solare anteriore alla dichiarazione di fallimento o alla dichiarazione di liquidazione coatta amministrativa, i curatori o i commissari liquidatori, entro 4 mesi dalla nomina, debbono presentare anche l'apposita dichiarazione al competente ufficio IVA o delle entrate, ove istituito, ai fini dell'eventuale insinuazione al passivo della procedura concorsuale. Entrando nel merito della questione, la Corte di Cassazione rilevava, con riferimento all'anno di imposta 1998, il fatto che fosse stata regolarmente presentata la dichiarazione annuale IVA, mentre il curatore fallimentare aveva presentato, entro 4 mesi dalla nomina, il modello IVA 74 bis relativo al periodo pre–fallimentare.  La Corte di Cassazione accertava inoltre che il curatore fallimentare aveva riportato nel modello IVA 74 bis sia il credito IVA maturato nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento sia il credito IVA per il periodo di imposta dell'anno 1998. Per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, la Corte di Cassazione evidenziava che il curatore fallimentare aveva presentato la dichiarazione nell'anno 2000, ma quest'ultima risultava inesatta perché il credito IVA era stato rappresentato come un credito IVA inerente alla frazione di periodo post–fallimentare e non anche quella pre – fallimentare contenuta nel modello IVA 74 bis. Era pertanto emerso che il curatore fallimentare aveva omesso di compilare il quadro relativo al dettaglio delle operazioni rilevanti ai fini IVA relative alla frazione del periodo pre – fallimentare avendo riportato solo quelle del periodo post – fallimento, sebbene ne avesse indicato l'ammontare nel saldo a credito. La Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto che il curatore fallimentare avesse comunque adempiuto all'onere di presentare la dichiarazione IVA per il periodo anteriore al fallimento. Ciò in ragione del fatto che aveva correttamente presentato nei termini di legge il modello IVA 74 bis contenente tutti i dati non risultanti dalla dichiarazione annuale, relativi al dettaglio delle operazioni effettuate nel corso del periodo anteriore al fallimento. Per tali ragioni, il Supremo Collegio ha ritenuto che nessun motivo di contestazione potesse essere essere rivolto alla condotta tenuta dal curatore, accogliendo il ricorso da quest’ultimo presentato e pronunziandosi anche nel merito ex art. 384 c.p.c., con conseguente soccombenza dell’Agenzia delle Entrate.  ...

Intermediazione finanziaria: annullabilità del contratto sotto il profilo dell’errore

Mer, 22/01/2014 - 10:36
L’assenza di una corretta informazione da parte della banca in merito all'incidenza del prestito sull'investimento finanziario, nell'ambito dei contratti di acquisto di titoli obbligazionari, produce un vizio del consenso nella parte non edotta. L’errore da parte del consumatore è, inoltre, essenziale, in quanto cade ex art. 1429, I co. n. 1) c.c. sulla natura del contratto. L’acquisto del prodotto finanziario, infatti, è cosa diversa dall'operazione complessiva desumibile dal collegamento negoziale con il prestito, ed è evidentemente riconoscibile dalla banca.  La causa in concreto cambia, infatti, per effetto del collegamento negoziale e, cambiando uno dei requisiti essenziali ex art. 1325 c.c. varia giocoforza anche la natura del contratto (il senso dell’operazione economica vista nella sua complessità). È questo il principio di diritto enunciato dal Tribunale di Taranto, seconda sezione, giudice relatore dott. Claudio Casarano, nella sentenza n. 2493 del 21/11/2013  Nel caso di specie la cliente di una banca acquistava dalla stessa un prodotto finanziario, stipulando un contratto per la compera di titoli obbligazionari, senza cedole e quindi senza utili, ma con la possibilità del solo eventuale realizzo al momento della vendita, con la garanzia di un rendimento minimo pari al 132,50% del valore nominale, che era stato all'inizio fissato in euro 9.000,00. Il prezzo dell'acquisto veniva finanziato dalla stessa banca con un prestito, da restituire con rate mensili. La cliente, accorgendosi che il piano finanziario accettato si atteggiava in maniera del tutto diversa da come aveva supposto, citava in giudizio la banca denunciando in particolare la mancata informazione sui rischi dell’operazione, oltre che l’esistenza di un conflitto di interessi, chiedendo, perciò, la risoluzione del contratto stesso per inadempimento a norma dell’art.1453 c.c. ed in via subordinata il suo annullamento. La banca convenuta, dal canto suo, sosteneva che l’attrice fosse in realtà informata del rischio dell’operazione finanziaria, come deducibile dal foglio informativo sottoscritto dalla stessa. Il Tribunale di Taranto, seguendo l’orientamento della Suprema Corte, ha escluso la risoluzione del contratto sulla base del principio per il quale  in tema di intermediazione finanziaria, la violazione di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dell’intermediario, può dar luogo esclusivamente ad una responsabilità precontrattuale con conseguenze risarcitorie, ove queste violazioni si verifichino nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti ( cd. “contratto quadro”). Il Giudice di prima istanza, accogliendo la domanda subordinata, ha, però annullato il contratto, nel mentre trovava ancora regolare esecuzione, sotto il profilo dell’errore, sottolineando che seppure l’attrice aveva stipulato nelle forme di legge l’acquisto del prodotto finanziario, e che le era stata data informazione con apposito modulo del tipo di speculazione prevista, è pur vero che si ci trovava dinnanzi ad una grave lacuna sul piano dell’adeguata informazione. Il dato relativo alla rischiosità dell’operazione era fuorviante, non trattandosi di un piano finanziario a medio- alto rischio, senonché di un investimento complesso, nella quale l’informazione si era avuta a riguardo di uno solo dei contratti che caratterizzavano l’intera operazione. Non si è trattato quindi, per il consumatore, di un errore sulla convenienza dell’affare, di certo mai foriero della invalidità del contratto, come si desume dal costante orientamento della cassazione. Tale esito ci sarebbe stato se si fosse trattato di un solo investimento ad alto rischio, relativo alla variazione in un dato tempo dei titoli acquistati sul mercato nazionale od internazionale, al contrario era un’operazione più complessa di cui il consumatore occasionale non poteva di certo venire a conoscenza con propri mezzi.  In conclusione Il Tribunale di Taranto ha deciso l’annullamento del contratto di intermediazione finanziaria e la restituzione da parte della banca non solo delle somme versate a titolo di rate ma anche di ogni altra somma correlata alla stipula del contratto....

Il conto cointestato non implica l’animus donandi del marito nei confronti della moglie

Mar, 21/01/2014 - 11:59
“La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art.1854 Cc) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto (art. 1298,secondo comma, Cc), ma tale presunzione dà luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa, dovendo dunque annullarsi la sentenza che riconduce cointestazione del conto la donazione del cinquanta per cento delle somme versate nel tempo dal uno dei contitolari sul conto, in quanto l'animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base di detta contestazione mentre il giudice avrebbe dovuto invece motivare sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento.” Questo il principio di diritto stabilito dalla Cassazione civile, seconda sezione, con la sentenza n. 809 pronunciata in data 16 gennaio 2014,in materia di conto corrente cointestato. In particolare, una signora aveva proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Monza che aveva dichiarato il marito esclusivo proprietario delle somme riportate nel conto deposito titoli cointestato ai coniugi, acceso preso un istituto di credito. La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza impugnata, aveva dichiarato, invece, il marito proprietario solo per il 50% dei soldi depositati sul predetto conto, sul presupposto che la cointestazione del conto alla moglie realizzasse una donazione indiretta alla stessa, di metà del valore delle somme in esso contenute, anche se acquisite con denaro pacificamente proveniente dalle sole disponibilità del marito.  Proposto ricorso per Cassazione, la suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, accoglieva le doglianze del ricorrente, stabilendo che la cointestazione di un conto a sé e alla moglie non prova la sussistenza dell’animus donandi e non realizza, perciò, una donazione indiretta in favore della stessa, per la metà delle somme versate sullo conto.  Nel caso di specie la provvista era costituita soltanto dai redditi del ricorrente, il quale aveva precisato che la decisione di cointestare il conto, costituiva un modo per coinvolgere la moglie nell’economia familiare a fronte delle sue innumerevoli lagnanze, la Suprema Corte conclude per il mancato spirito di liberalità da parte del marito. La presunzione che dalla cointestazione del conto derivi anche la contitolarità dell’oggetto del contratto, da luogo esclusivamente ad un inversione dell’onere della prova, e si può superare per presunzioni semplici – gravi, precise e concordanti- dalla parte che deduce una situazione diversa da quella derivante dalla cointestazione stessa. Conclusivamente, la doppia firma sul conto non è sufficiente a presumere la donazione indiretta essendo indispensabile la prova dello spirito di liberalità da parte del solo dei coniugi che alimenta la provvista....

MUTUO IPOTECARIO: la mancata concessione del frazionamento puo’ essere causa di danni

Mar, 21/01/2014 - 11:17
“Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicchè dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile.” Con sentenza del 14/10/2013, n.23232, la Corte di Cassazione Civile, confermando il provvedimento emanato dal Giudice della seconda istanza di Salerno, condannava la banca al risarcimento del danno relativo alla violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di mutuo, connessa alla mancata concessione del frazionamento dello stesso. In sintesi, nel caso di specie, un’impresa edile conveniva in giudizio la sua banca, chiedendo la condanna della stessa al risarcimento del danno causato dal considerevole ritardo ( oltre tre anni) nella concessione del frazionamento dei mutui, con le relative ipoteche, richiesto dalla srl a seguito della vendita a terzi delle singole unità immobiliari edificate. Se il Tribunale in primo grado aveva rigettato la domanda attorea, motivando tale decisione alla stregua che le pattuizioni tra le parti prevedevano il frazionamento solo come mera eventualità, la Corte d’Appello prima e la Cassazione poi, decidevano, invece, in riforma della predetta sentenza di primo grado, condannando la banca a risarcire l’impresa in questione. La Corte di legittimità ha fondato la sua decisione sul presupposto che, seppure applicabile al caso in esame la normativa in vigore precedentemente al T.U. n. 385 del 1993, la quale individuava il frazionamento del mutuo come non già un obbligo, bensì una facoltà da parte dell’istituto di credito, ciò nondimeno il comportamento del soggetto mutuante, nel procrastinare il rifiuto di aderire ad una prassi consolidata, come quella del frazionamento del mutuo appunto, costituiva una palese violazione dei doveri di solidarietà, consequenziali al rispetto dei principi di correttezza e buona fede oggettiva, da porsi alla base dell’esecuzione di qualsiasi contratto. Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso, infatti, in senso oggettivo, sottendendo una solidarietà reciproca imposta a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio. Il dovere è quello di agire in maniera tale da preservare gli interessi dell’altra parte, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito in singole norme di legge, sicchè la violazione di tali regole comportamentali presuppone anche di per sé un danno risarcibile.  ...

Esecuzione forzata: il giudice dell’opposizione deve rilevare d’ufficio l’inesistenza del titolo esecutivo

Mar, 21/01/2014 - 10:22
Il giudice dell'opposizione all'esecuzione è tenuto a compiere d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, la verifica sulla esistenza del titolo esecutivo posto alla base dell'azione esecutiva, potendo rilevare sia l'inesistenza originaria del titolo esecutivo sia la sua sopravvenuta caducazione, che - entrambe - determinano l'illegittimità dell'esecuzione forzata con effetto "ex tunc", in quanto l'esistenza di un valido titolo esecutivo costituisce presupposto dell'azione esecutiva stessa. E’ questo il principio di diritto che emerge dalla sentenza n.15363 pronunziata dalla Cassazione civile, sezione terza, in data 13/07/2011 in materia di opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi. Nel caso di specie, un soggetto aveva proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Nicosia che aveva rigettato la sua opposizione agli atti esecutivi e all'esecuzione. In particolare, il ricorrente dopo aver eccepito la nullità/inesistenza della notifica del precetto con il quale gli era stato intimato il pagamento di una somma di denaro in favore di un condominio, per essere avvenuta la stessa a mezzo di ufficiale giudiziario incompetente, rilevava, altresì, che il decreto ingiuntivo era stato dichiarato esecutivo ex art.647 cpc sull'erroneo presupposto della mancata opposizione dello stesso. Ebbene, il Tribunale di Nicosia, pronunziandosi nel merito, ha rigettato le eccezioni sollevate dall'opponente  Nella specie, il giudice del merito, adito in sede di opposizione all'esecuzione ed agli atti esecutivi, aveva escluso di poter sindacare d'ufficio l'esistenza del titolo esecutivo - costituito da decreto ingiuntivo cui era stata revocata l'esecutorietà ex art. 647 cod. proc. civ. - per non essere stata la relativa questione ritualmente sollevata; la S.C., in applicazione del principio sopra riportato, ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha dichiarato l'insussistenza sopravvenuta del titolo posto a base dell'esecuzione forzata. (Cassa e decide nel merito, Trib. Nicosia, 24/07/2008) È noto , infatti, che ai fini dell’esecuzione forzata non è sufficiente che il titolo esecutivo sussista nel momento in cui l’azione esecutiva viene intrapresa dal creditore , ma è necessario , invece, che la sua validità ed efficacia permanga nel tempo e per tutto il corso della fase esecutiva. Il sopravvenuto annullamento del provvedimento costituente titolo esecutivo, comporta , dunque, l’automatico arresto dell’esecuzione stessa e la sua illegittimità con effetto “ex tunc”. Tale caducazione può essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio di esecuzione....

FALLIMENTO: la legittimazione processuale spetta esclusivamente agli organi fallimentari

Mar, 21/01/2014 - 09:37
“In tema di legittimazione processuale di un soggetto incorso in una procedura concorsuale, con riferimento all'art. 43 della legge fallimentare, il fallito perde la legittimazione processuale attiva e passiva  in merito ai beni e ai diritti assoggettati a spossessamento ed in sua vece è il curatore fallimentare che sta in giudizio per quanto attiene a tutte le controversie; tale curatore si sostituisce al soggetto sottoposto a procedura fallimentare nei giudizi già promossi ante procedura e provvede personalmente a promuovere quelli tendenti al recupero della massa attiva del fallimento.” È questo il principio di diritto stabilito dalla Commissione tributaria provinciale di Varese con sentenza n.113 pronunziata in data 29/10/2013. In particolare, è accaduto che, a seguito di un avviso di accertamento emesso dall'agenzia delle Entrate nei confronti di una srl, per l’omessa presentazione da parte di quest’ultima delle dichiarazioni IRES, IRAP e IVA relative all'anno 2007, e nonostante la società in questione fosse già stata dichiarata fallita, l’opposizione veniva proposta dall'ex liquidatore. Il ricorrente deduceva un errore del professionista che all'epoca dell’omissione assisteva la società stessa. Nel merito l’ex liquidatore osservava che, ai fini Ires, l’utile fiscale della società a responsabilità limitata per il 2007, era assorbito totalmente dalle perdite subite negli anni precedenti e che quindi il reddito imponibile risultava essere pari a zero. Per le stesse ragioni l’importo dovuto per Irap era compensato dall'eccedenza d’imposta del 2006, mentre ai fini Iva la determinazione della somma d’imposta era significativamente inferiore a quella richiesta. L’agenzia delle Entrate eccepiva, per contro, che solamente il curatore fallimentare avrebbe potuto iniziare un giudizio, e che l’omessa presentazione delle dichiarazioni , seppur dovuta ad un errore del professionista incaricato, non libera il contribuente dalle conseguenze negative derivanti, ne tanto meno lo esonera dal vigilare sull'esatto adempimento del mandato. La Commissione Tributaria Provinciale di Varese, pronunziandosi nel merito, ha accertato che l’avviso dell’agenzia delle Entrate era stato regolarmente trasmesso da parte del curatore fallimentare all'ex liquidatore ricorrente, pertanto, non essendo scaturita impugnazione dell’atto stesso da parte del primo, non ha ravvisato motivi di disinteressamento ed inerzia degli organi del fallimento ed ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione processuale dell’ex liquidatore della società. La legittimazione suppletiva del fallito è configurabile, infatti, soltanto a fronte dell'inerzia degli organi fallimentari, e non anche in presenza di una valutazione negativa degli stessi in ordine alla convenienza della controversia. Di recente, la Suprema Corta di Cassazione si è espressa in tal senso, precisando, con la sentenza 24159/2013, che la dichiarazione di fallimento pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta la perdita della capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Ciò, come previsto e disciplinato dall'art. 43. R.D. 16 marzo 1942, n. 267, stabilisce dunque, la regola generale, alla quale fanno eccezione soltanto l'ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali e quella in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l'amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio....

Cumulo delle qualifiche di socio e amministratore nella società di persone

Lun, 20/01/2014 - 19:07
Il socio-amministratore di una società di persone, che si appropria degli utili pone in essere un atto in contrasto non soltanto con i doveri inerenti al mandato conferitogli, ma anche con gli obblighi a lui derivanti dalla qualità di socio. Ciò in considerazione della funzione del patto sociale, che mira, mediante i conferimenti e l’esercizio in comune di un‘ attività economica, proprio al conseguimento ed alla divisione degli utili. Di talché, siffatta condotta può comportare per detto socio-amministratore, oltre che la revoca del mandato, anche l’esclusione della società in base all’art. 2285 c.c..   Così ha deciso il Tribunale di Torre Annunziata nella sentenza depositata il 22 ottobre 2013 uniformandosi all’orientamento espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 710 del 30 gennaio1980. La vicenda trae origine dall’azione promossa dall’unico socio accomandante di una S.a.s. nei confronti dell’unico socio accomandatario e amministratore. Il Tribunale ha ritenuto che il cumulo delle qualifiche di socio e amministratore non impedisca che le irregolarità o le illiceità commesse dall’amministratore determinino non solo la revoca del mandato di amministratore e l’esercizio dell’azione di responsabilità espressamente prevista, ma anche l’esclusione da socio per la violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi dell’ente. Dall’esame della sentenza è emerso che in primo luogo l’attore si duole della violazione, da parte del socio accomandatario, del diritto di informazione che spetta al socio accomandante; infatti, l’amministratore accomandatario non avrebbe risposto alle ripetute richieste di comunicazione del rendiconto, così contravvenendo al precetto dell’art. 2320 c.c. e dell’art. 8 dell’atto costitutivo, in virtù del quale  “il socio accomandante può … richiedere la presentazione di un rendiconto, anche nel corso dell’esercizio”. L’attore lamenta, inoltre, la mancata consegna annuale dei bilanci, con violazione, sempre, dell’art. 8 dell’atto costitutivo, che prevede che “il socio accomandatario, entro 90 giorni dalla chiusura di ogni esercizio, è tenuto a redigere il bilancio da sottoporre al socio accomandante”. La terza e ultima doglianza di parte attrice riguarda la mancata informazione, da parte dell’amministratore, del reale stato della società e la conseguente mancata ripartizione degli utili, distratti dall’amministratore stesso grazie anche a una contabilità parallela. Ebbene, il Tribunale ha potuto rilevare che parte attrice non ha sufficientemente provato di avere anche in passato sollecitato all’amministratore la consegna della rendicontazione ex art. 8 dell’atto costitutivo, che quest’ultimo ha consegnato all’attore i modelli Unico SP dal 2004 al 2008 solo a seguito della diffida del 3.9.2009,  e che, infine, il convenuto non ha prodotto in giudizio alcuna ricevuta attestante il pagamento degli utili all’accomandante. Dal comportamento tenuto dall’amministratore il Tribunale ha ricavato la violazione da parte di quest’ultimo dei principi di trasparenza e di informazione nei confronti dell’accomandante, nonché dei principi di verità e completezza delle scritture contabili e delle dichiarazioni di reddito. Tali gravi violazioni hanno indotto il Tribunale  a disporre l’esclusione del socio accomandatario dalla compagine sociale e la sua revoca dalla carica di amministratore. Naturalmente, ha rilevato il Tribunale che “ai sensi dell’art. 2323 u.c. c.c., spetta al socio accomandante nominare un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione, dovendo però il vecchio socio accomandatario essere sostituito con un nuovo socio accomandatario nel termine di sei mesi pena l’estinzione della società ai sensi dell’art. 2323, comma  I, c.c.”. Non è stata, invece, ritenuta meritevole di accoglimento la domanda di risarcimento dei danni proposta dall’attore, che  ha chiesto  la liquidazione in via equitativa del quantum, poiché, secondo il Tribunale, non risulta provato l’an del danno.  ...

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